Vendetta mancata
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Un
tempo le persone con qualche disagio sia fisico che mentale, erano
tollerate e spesso aiutale dalla Società del tempo. Oggi invece, chi non
è allineato allo "standard," viene triturato dal disprezzo e
dall'abbandono delle persone "normali:"
Alcuni giorni fa, mentre mi trovavo in spiaggia, ho assistito a una scena che mi ha riportato a un’estate di più di cinquanta anni fa, che avevo quasi del tutto dimenticato. Una bella ragazza distesa sulla battigia a occhi chiusi a prendere il sole, era stata il bersaglio di un grosso “gavettone” d’acqua, facendola sobbalzare con un grido, e suscitando la generale ilarità dei suoi amici autori dello scherzo. Prima di descrivere l’episodio che è tornato nella mia memoria, è necessaria una breve spiegazione, per spiegare il contesto, e il luogo in cui questo episodio è avvenuto. Era la fine degli anni cinquanta, e le nostre estati le passavamo alla “piscina.” Ma questa, a dispetto del nome, non era una piscina come noi la conosciamo, ma un grosso pezzo di mare, oggi scomparso, inglobato nelle banchine del Porto di Levante di Marina di Carrara. Una lunga scogliera partiva da circa metà della diga foranea dell’attuale Porto, e arrivava fino alla foce del torrente Carrione, per poi tornare verso terra per permettere il regolare deflusso delle acque del torrente. Va da se che questa protezione artificiale faceva si che la porzione di mare racchiusa dalla scogliera, fosse sempre calma, anche quando all’esterno il mare era agitato, e preservava noi bambini, dai pericoli di annegamento, e cosa non secondaria, anche dalle punture di tracine e meduse, un tempo molto più numerose di oggi. Il “re” di questa spiaggia libera era Giusè ‘l Ner. Questo personaggio, in quegli anni, era conosciuto da tutti a Marina, e merita una descrizione a parte. Era figlio di un noto capitano di velieri marinello, sposato con una bellissima donna emiliana. Le malelingue però, sostenevano che la sua carnagione un po’ troppo “abbronzata, ” era sospetta, e i tempi del ritorno a casa del Capitano, confrontati con quelli della sua nascita non corrispondevano. La morte della madre per setticemia a un mese dal parto però, pose fine ai pettegolezzi. Cresciuto in collegio, era affascinato dal mestiere del marinaio, e giunto in età da servizio di leva, fece domanda per accedere all’Accademia Navale di Livorno, supportato dalle conoscenza del padre. Il sogno di diventare uomo di mare gli sarebbe forse riuscito, se non fosse stato scartato per “un grave vizio cardiaco.” Fu questo rifiuto che scatenò in lui una forma di depressione, che evolse poi in uno stato patologico-comportamentale, che avrebbe fermato la sua evoluzione celebrale, ai diciotto anni. Gli anni seguenti, lo videro nei mesi estivi, vivere in modo quasi continuativo alla piscina, diventandone in breve tempo un’istituzione. Quando lo conobbi io, avrà avuto un’età di forse quarantacinque, cinquant’anni. Era abbastanza alto con un fisico asciutto, il naso aquilino, e una gran massa di capelli ricci, ma ciò che lo caratterizzava maggiormente, era il colere della sua pelle, che il sole rendeva di un colore simile al cioccolato, da qui il soprannome “Ner” (nero). Si era costruito con pezzi di rami portati dal mare, e un ritaglio di vela in tela olona, trovata chissà dove, una rudimentale tenda canadese, che utilizzava per ripararsi dal sole nei pomeriggi agostani, ma che qualcuno sosteneva fosse la sua casa per tutta l’estate. Faceva il “piacione” con le mamme dei bambini più piccoli, cui, per ingraziarsi le madri, donava conchiglie, mentre era scatenato negli scherzi verso i ragazzi più grandi, che comprendevano secchiate d’acqua a tradimento, mentre si riposavano al sole, o mangiavano tutti insieme le cozze, che raccoglievano lungo la scogliera. Molti ragazzi cercarono per anni di rifarsi con lui degli scherzi subiti, ma sempre invano. In primo luogo perché, anni di esperienza l’avevano reso piuttosto astuto, ma soprattutto per la mancanza di mezzi. Non era semplice a quei tempi, dove la plastica era ancora sconosciuta, procurarsi un contenitore, e il suo “lattone” dalla vernice vuoto, era attentamente nascosto. “A sirò sempr ‘l pu furb” (sarò sempre il più furbo) diceva “con me adè na guera persa” (con me è una guerra persa) ripeteva di continuo ai ragazzi delusi e frustrati. Un’estate però, i ragazzi più grandi si organizzarono e decisero che era tempo che anche ‘l Ner, dovesse assaggiare la sua stessa medicina. Dopo giorni di ricerche, si fecero dare da diverse botteghe di alimentari, tre bidoni vuoti da 5 kg. di pomodori pelati, che nascosero strategicamente in tre punti diversi, poi a turno, cominciarono una paziente opera di “pedinamento” che scoprì che verso le ore quattordici, quando la spiaggetta era praticamente deserta, Giusè, si ritirava all’ombra della tenda per schiacciare un pisolino, era lì che si sarebbe dovuto colpire.
L’occasione venne nei primi giorni di un torrido agosto. Il sole picchiava come un maglio sulla testa delle persone, la sabbia arroventata, faceva “ballare la vecchia,” il riflesso del mare era talmente accecante che pareva fosse un lago di argento fuso. I congiurati, una quindicina di ragazzi, erano giunti alla spicciolata in sella alle loro bici, e si erano nascosti, nella pineta che si trovava di fronte alla piscina. Uno di loro si avvicinò furtivamente al muricciolo che divideva la strada litoranea dalla spiaggia e cautamente fece capolino. L’arenile era completamente deserto, e sotto la tenda s’intravedeva un corpo disteso, era il momento. I tre contenitori furono tirati fuori dai nascondigli e riempiti alla fontana della pineta, poi mentre il grosso dei ragazzi si appostava dietro il muretto, i tre più grandi, dopo essersi tolti gli zoccoli, avanzarono in silenzio. La sabbia era rovente, e torturava loro le piante dei piedi, ma la soddisfazione di vendicarsi del Ner era troppo forte. Giusè era supino con gli occhi chiusi, in posizione perfetta, uno dei tre contò silenziosamente con le dita fino a tre e poi, avvenne il lancio. Un vero torrente d’acqua colpì il corpo disteso, che stranamente non si mosse. Le sguaiate risate dei ragazzi si smorzarono di colpo, quando si accorsero della cruda realtà. Il Ner era morto, forse stroncato da quel vizio cardiaco che gli era stato diagnosticato anni prima, ma anche nella morte aveva vinto lui, privando i ragazzi della loro vendetta.
Mario Volpi
Racconti di questa rubrica