Un' arte ritrovata
Attualità
Spetta/Le Redazione
Chi avrebbe mai pensato che una professione che si pensava ormai finita come il maniscalco sarebbe tornata a nuova vita?
Nei tempi moderni, spesso ci si lamenta per la perdita di professioni millenarie, diventate ormai obsolete, ma, parafrasando il titolo di un film famoso, “a volte ritornano.” Questo è il caso di uno dei mestieri più antichi; il maniscalco. Per tutti gli anni sessanta del novecento, questo artigiano era rapportabile all’attuale gommista, vista l’enorme diffusione della trazione animale nell’Italia ancora prettamente rurale del tempo. Risalente al Medioevo la mascalcia, così si chiama quest’arte antica, aveva i suoi seguaci, che si potevano collocare a metà strada tra i fabbri e i maniscalchi, perché al tempo, ogni ferro di cavallo veniva ricavato da una barra di ferro, lavorata a suon di martello dopo essere stata arroventata alla forgia. A Carrara, patria dell’estrazione del marmo, trasportato fino al mare usando lunghe file di buoi aggiogati a coppie, era stata “inventata” la ferratura anche di questo possente bovino, cosa che credo non abbia precedenti in Europa. Il maniscalco di quei tempi era un pò inventore, un po’ veterinario, e soprattutto un artista nell’arte della forgiatura. Anche se ufficialmente codificata come “professione” attorno al XVIII secolo, nella gran parte del territorio italiano la figura del Veterinario come la intendiamo oggi, era praticamente sconosciuta per la popolazione, che per ristrettezze economiche non era in grado di usufruire neppure dei servizi del “dottore per uomini.” Quindi la salute degli animali, era affidata soprattutto a chi come il maniscalco, vedeva innumerevoli patologie, soprattutto negli zoccoli, e che spesso, era in grado di risolvere, con metodi magari empirici ma efficaci. La parte “inventiva” poi, era dovuta al territorio Apuano particolarmente aspro e variegato, dove ad esempio il mulo era chiamato ad inerpicarsi sui ripidi e sassosi sentieri delle cave, che poi di colpo si trasformavano in vertiginose e scivolose discese. Quindi il disegno e la conformazione del “ferro” doveva essere fatta per permettere all’animale di procedere in sicurezza con ogni tempo, e permettergli il passo sicuro, sia sul fango che sul marmo. Nacquero così ferri particolari, con ramponi sporgenti, bordi taglienti, o larghezza particolari, che divennero ben presto il marchio di fabbrica dei maniscalchi più bravi. Ma alla fine degli anni sessanta, tutto cambia. Autocarri sempre più potenti e affidabili rimpiazzano ben presto gli animali da tiro, e con essi sparisce quasi del tutto anche la figura del maniscalco. Per alcuni anni alcuni di loro sopravvivono intorno ai grandi ippodromi, dove avvenivano le corse, e anche qui l’inventiva italica lascia il segno, inventando per i purosangue i ferri in alluminio, molto più leggeri, ma che dovevano essere fusi su uno “stampo” dello zoccolo del cavallo a cui sarebbero stati applicati, e rifiniti poi pazientemente a lima. Con l’eliminazione del Totip, e di conseguenza delle corse, sembrava che questo mestiere fosse destinato all’oblio. Il progresso anche culturale poi, imponeva che per esercitare il mestiere di maniscalco, si frequentasse il Corso specifico presso il Centro Veterinario di Grosseto. A rincarare la dose poi, da alcuni anni prende sempre più campo la teoria statunitense, che in italiano si traduce più o meno “ del cavallo scalzo.” Il padre di questa teoria, forte dei dati ricavati in decenni dalla cattura dei Mustang selvaggi americani, afferma che gli equini non hanno assolutamente bisogno della ferratura, perché questa è stata “inventata” in Era Medievale, perché l’immobilità dei cavalli nelle stalle, spesso con lettiere umide, aveva ammorbidito a tal punto i loro zoccoli, che solo con la ferratura si poteva sfruttare il lavoro di questi animali. A conferma di questa teoria vi sono inoppugnabili fatti storici come le temibile cavalleria Mongola che non usava, e non usa tutt’ora la ferratura e gli equini in natura come zebre, cavalli, e asini selvatici, che non hanno ferri e non presentano alcuna patologia agli zoccoli. Ma il progresso che di solito toglie, qualche volte regala una seconda opportunità. Questa è arrivata con il massiccio aumento degli allevamenti intensivi di bovini. Questi animali confinati in stalle con scarsità di movimento, non hanno l’opportunità di consumare le unghie degli zoccoli, che oltretutto sono perennemente umidi, per le deiezione di centinaia di loro simili. Questa situazione a favorito l’insorgere sempre più frequente di un’infezione chiamata “marciume dello zoccolo,” che oltre ad essere molto dolorosa per l’animale, provocando gravi zoppie, è anche assai infettiva, oltre ad abbassare notevolmente la produzione di latte, e quindi il profitto per l’allevatore. Pe combattere questa, e altre patologie degli zoccoli, e rinata la professione del maniscalco, ma oggi altamente tecnologica, e che al posto del ferro, applica “zoccoli” di resina. Ma spieghiamo bene come agisce questa nuova figura di maniscalco-veterinario. Prima di tutto ora è un professionista itinerante che si sposta a chiamata tra gli allevamenti di solito con un camioncino con a rimorchio un vero e proprio marchingegno ultra tecnologico. Questo è composto da una stretta gabbia d’acciaio tubolare, dove la mucca da curare viene fatta entrare e che un sistema di pistoni idraulici immobilizza, per poi sollevarle di volta in volta le quattro zampe. Al contrario del cavallo la mucca ha lo zoccolo sdoppiato, e quindi quando il maniscalco si trova davanti alla patologia, dapprima con una mola pareggia lo zoccolo, poi con il coltello da mascalcia arriva fino al “cuore” dell’infezione, per far scaricare il pus, e dopo aver disinfettato, fascia solo la parte di zoccolo malato con una benda apposita. Poi con un silicone speciale pone una “soletta” sull’altro zoccolo, in modo che la parte malata non tocchi terra. Di solito dopo appena due giorni l’infezione è debellata. Così, cosa assai rara, un antico mestiere, si è riciclato diventando indispensabile e ultra tecnologico.
Mario Volpi 8 7 23