Il gigante buono
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Tutti parlano in modo positivo della "globalizzazione" ma chi lo fa non ne capisce completamente la sua dirompente forza distruttrice. Come i "cipressi che vanno a Bolgheri in duplice filar ..." sono tantissime, troppe, le forme di vita vegetali che questa politica dissennata ha portato alla rovina, ma alla gente comune pare non importare, ignorando che è il mondo vegetale che si permette di vivere!
Io, per una ragione di “millesimo” come un tempo si chiamava la data di nascita, sono andato a scuola a cinque anni e mezzo. Oltretutto, come la maggior parte dei bambini di quel periodo, vivevo la mia infanzia nella campagna, libero come un uccellino, va da se che il dover stare segregato per cinque ore in una stanza, dove regnava una ferrea disciplina, era certamente molto pesante. Cadevo spesso in una sorta di stato ansioso-depressivo, che sfociava nel pianto, ma poi, a mano a mano, che mi abituavo a quella reclusione, cercavo di estraniarmi, immaginandomi fuori da quella vera e propria “prigione.” Il mio triste e scheggiato banco di legno a due posti, era nella fila proprio accanto alla finestra, ed io ero stato messo dalla maestra, forse nel tentativo di ovviare ai miei problemi, nel posto quasi a contatto con il davanzale. Il mio sguardo spaziava sul sottostante cortile, circondato da un alto, e scrostato muro di cinta, interrotto dall’imponente cancello di ferro battuto, che si apriva proprio di fronte alla scalinata che portava in “galera.” Il cortile, triste e disadorno, era dominato da un gigantesco platano. Questo gigante centenario, aveva il tronco con la classica corteccia a chiazze, quasi mimetica, che scatenava la mia fanciullesca fantasia, vedendo in quei pezzi di legno variegati, cavalli, leoni, o guerrieri con armatura. Era così enorme che per abbracciarlo erano necessari tre bambini, e i suoi rami nodosi e contorti, svettavano ben oltre il tetto della scuola. Per i cinque anni più importanti della mia vita, è stato nel mio immaginario, un amico, o meglio il mio “gigante buono” colui che con la sua sola vista riusciva a calmare il mio senso d’angoscia. Il primo anno, potei assistere all’ingiallimento e alla caduta delle foglie. Queste erano enormi, molto simili alle zampe delle anatre che io ben conoscevo. Quando giungevano a terra, forse a causa dell’umidità, si raggrinzivano, prendendo la forma delle mie due mani messe a coppa, che io pensavo lo facessero per raccogliere le mie lacrime. Poi in inverno inoltrato, i rami si riempivano di migliaia di buffe palline, molto simili per grandezza alle rosse ciliege che maturano a giugno, e che io in dialetto chiamavo “scoccione, ” ma che in italiano si chiamano duroni. Queste palline erano piene di semi, e quando cadevano a terra, spesso si aprivano con una nuvoletta, che io associavo subito alle bombe, che vedevo sganciare dagli aerei nei film all’Oratorio. Questi semi però, erano il nutrimento di una miriade di piccoli uccelli, che arrivavano a frotte nelle fredde e piovose mattine invernali. Avevo imparato a riconoscere la Capinera, che arrivava poco dopo che noi eravamo entrati in classe, poi seguiva i Passeri, le Cincie, i Lucarini, e qualche raro Fringuello. Il Merlo, insieme al Pettirosso, e allo sfuggente topo Moscardino, razzolavano alla base del Platano, tra le foglie marce, in cerca di larve e vermi. La Ballerina, con il suo elegante costume bianco e nero, pareva venire a impartire lezioni di danza agli altri uccelli, battendo il tempo con la sua lunga coda. I rami scheletrici del gigante, con la loro vertiginosa altezza, m’immaginavo che graffiassero il cielo, facendovi impigliare le nubi, che spesso, nelle nebbiose mattine, impedivano di vederne le cima. La brina gelata si posava sui suoi rami, trasformandoli, ai miei occhi di bambino, in luccicanti festoni e decorazioni natalizie, che al tempo vedevo solo nelle cartoline illustrate. Era la primavera, la stagione in cui il gigante buono dava il meglio di se. Quando cominciavo a vedere come una velatura di verde sui rami, capivo che l’odiata scuola sarebbe presto finita e che avrei potuto riprendere le mie scorribande tra campi e boschi. Tutto accadeva in pochi giorni. Una mattina, quasi all’improvviso i rami erano pieni di microscopiche macchioline di un verde pallido, e dopo poco tempo, le foglie esplodevano letteralmente ricoprendo interamente la sua possente chioma. I rami si riempivano di verde, e in quella vera e propria selva aerea, la vita riprendeva. Il merlo dopo aver scelto una compagna, dal ramo più alto cantava la “primavera” quasi volesse annunciarlo a tutti, per poi cominciare a costruire il nido con migliaia di piccoli ramoscelli. Anche la cincia vi nidificava, scegliendo però un anfratto tra la congiunzione biforcuta di due grossi rami. Quante volte ho immaginato di essere tanto piccolo da potere entrare in quel nido, protetto da quel mondo che mi voleva mandare per forza a scuola! Era bello vedere arrivare gli uccelli con fare circospetto, con nel becco, larve e vermi per i nidiacei, e dopo pochi giorni assistere ai buffi tentativi di volo dei pulcini. Infine quando il gigante iniziava l’imponente fioritura, era il segnale che presto la scuola sarebbe finita, e riprendevo il sorriso e la voglia di vivere. Ieri, dopo quasi settant’anni ho avuto una gran brutta sorpresa. Passando davanti alla mia vecchia scuola ho visto degli operai che con l’aiuto di un elevatore stavano capitozzando completamente il mio gigante. Mi sono avvicinato e gli ho chiesto cosa stessero facendo. Uno degli operai mi ha risposto che il platano era stato attaccato dal “cancro colorato” un fungo originario del Sud America, che lo aveva fatto morire, e che ora anche il legno infetto doveva essere distrutto. Ho provato una stretta al cuore, come per la prematura morte di un vecchio amico. Pensavo che, come la vecchia scuola, anche lui avrebbe visto generazioni di scolari ancora per qualche secolo, invece per l’incuria, e l’avidità dell’uomo moderno, era stato attaccato da un “alieno” contro cui non aveva difese. L’importazione selvaggia, senza regole e controlli, di legnami e prodotti forestali a basso costo, da paese cosiddetti “emergenti” hanno provocato in Italia una vera e propria “strage” di molte speci autoctone, animali e vegetali, portandole sull’orlo dell’estinzione. Così molte varietà di Platani, Cipressi, Castagni, Meli, e Ciliegi, dopo secoli di adattamenti, al clima e alle malattie mediterranee, hanno dovuto essere sostituite da incroci, fatti in laboratorio di cui non sappiamo ancora nulla. E’ buffo, che l’uomo la cui esistenza terrena dura in media settanta anni, voglia essere arbitro di chi può vivere cinque secoli, ma la nostra arroganza è smisurata, così come la nostra poca saggezza.
Mario Volpi
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