Terracotta
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
La massaie di una volta affermavano che per fare una squisita "anitra coi fasoli" o "i taiarin 'ntì fasoli" fosse necessario un pentola, o una casseruola di terracotta. Io non so quanto questa affermazione fosse vera, ma ricordando la delizia di queste due pietanze fatte da mia madre, che usava solo quelle, penso sia proprio la verità.
Mario Volpi
Terracotta
Per noi, uomini del ventunesimo secolo, non è semplice capire come si vivesse in epoca medievale, perché la nostra cultura ci porta a pensare a oggetti, o azioni, come a ovvietà, da sempre presenti nella vita dell’uomo; ma la verità è ben diversa. Prendiamo ad esempio un semplice barattolo. Per noi è un oggetto comune, usato come contenitore per pitture o solventi, piuttosto che per cibo, umano o animale, dal costo di pochi centesimi, costruito in plastica, o in metallo, è usa e getta, e oggi, intasa le nostre discariche. Ebbene, se fosse esistito nell’era medievale, sarebbe stato prezioso come l’oro. Per non parlare poi di una pentola per cucinare. Costruite solo in rame, tramite martellamento a freddo, erano rare e costosissime, e a uso esclusivo della nobiltà, mentre per il popolo, le stoviglie di uso quotidiano erano fatte di una materia assai meno nobile e pregiata; la terracotta. L’uso della terracotta per la costruzione di vasellame, era già conosciuto addirittura in Era Preistorica. Si pensa che questa scoperta fondamentale per l’evoluzione umana, sia avvenuta per caso, magari osservando un particolare tipo di terreno, che si era “pietrificato” dopo che vi era stato acceso sopra il fuoco da campo. Per ottenere la terracotta, infatti, non è possibile usare la terra comune, ma è necessario avere l’argilla.
Il mestiere di vasaio, o “vasaro,” come si chiamava un tempo, era molto apprezzato, e tramandato di padre in figlio, perché richiedeva grande esperienza, ma sopratutto investimenti finanziari non indifferenti. In epoca medievale alcuni paesi della Toscana erano famosi per la produzione di manufatti in terracotta, tanto che nomi come Anghiari, Asciano, Borgo San Lorenzo, Carmignano, Impruneta e Vico Pisano, solo per citarne alcuni dei più noti, erano spesso nominati in documenti del tempo. A prima vista sembrerebbe abbastanza semplice fare un vaso, o un piatto in terracotta, ma non è per niente vero. Innanzi tutto, a quel tempo, a causa della bassa tecnologia impiegata, la lavorazione era molto influenzata dall’andamento meteorologico, così alcune operazioni erano svolte solo in un ben determinato periodo dell’anno, come ad esempio la stagionatura dell’argilla. Appena estratta dal sedimento, le zolle di argilla erano piene d’impurità, sia organiche, che inorganiche, questo pregiudicava la qualità del futuro manufatto così si faceva stagionare all’aperto. Per questo motivo l’escavazione dell’argilla avveniva solo in autunno e in inverno, in modo che pioggia, sole, gelo, e vento, la facessero disgregare, e facendo imputridire le sostanze organiche, la purificassero. Ma il processo non era ancora finito, l’argilla doveva essere lavata. Messa in grandi buche piene d’acqua, il vasaro scremava la superficie dell’acqua dai residui galleggianti, mentre quelli più pesanti cadevano sul fondo. A questo punto l’argilla era estratta dall’acqua, e qui entravano in scena le scelte del vasaro. Se doveva fare qualcosa di elaborato e costoso, poteva fare una seconda lavatura, che consisteva nel far sciogliere completamente l’argilla nell’acqua e recuperarla pressoché pura, tramite filtraggio. Terminato il processo di lavatura, si passava all’aggiunta di sostanze organiche, o inorganiche, per migliorare la qualità del futuro manufatto, di cui ogni vasaro manteneva segreta la formula, e poi all’impasto, che serviva a evitare che vi fossero bolle d’aria all’interno dell’argilla. Per fare l’oggetto ci si serviva del tornio, ma anche, come ad esempio per le piane,(un tipo di mattonella che si usava sui tetti) e i mattoni, di stampi di legno. Dopo essere stati asciugati all’aria, i manufatti passavano al forno a legna, dove restavano a cuocere anche per sessanta ore, comprese altrettante per il raffreddamento. Queste fornaci erano molto grandi, quindi consumavano grandi quantità di legna, che doveva essere comprata e pagata con mesi d’anticipo, perché si seccasse, e spesso trasportata anche da grandi distanze. Verso la metà del 1400, poi, si scopri la cosiddetta “invetriatura.” Quest’ operazione era eseguita applicando sul manufatto una speciale vernice costituita da ossidi di stagno, o piombo, mescolati con sabbia silicea, che rendeva la terracotta, durante la cottura, completamente impermeabile, lucida, e molto resistente alla corrosione. Questo metodo di lavorazione dell’argilla ha prodotto anche mattonelle da rivestimento, di pregiata fattura, alcune, delle vere e proprie opere d’arte, che fanno ancora bella mostra di se in diversi Musei Italiani. Intanto, verso la fine del 1400, la lavorazione della terracotta, subì un forte incremento, sopratutto nella produzione di piane, e tegole, usate ormai comunemente per i tetti anche delle case comuni, al posto delle poco affidabili, e pesanti, lastre di ardesia. Benché grandi produttori di marmo, anche le genti Apuane basarono il vivere quotidiano sull’uso di vasellame in terracotta. A conferma di ciò, vi è anche la tradizione, giunta fino ai nostri giorni, del consumo di cibi poveri, come i Panigacci, i Testaroli, e i Castagnacci. Composti d’ingredienti molto semplici, come farina, acqua e sale, queste specie di “frittelle” venivano fatte cuocere in “testi” di terracotta, di forma rotonda, fatti prima arroventare sul fuoco del camino. Nel corso dei secoli, però, complice anche la grande disponibilità di “magnan” (fabbri) nel paese di Castelpoggio prima, e nella valle di Carrara poi, si passò all’adozione di testi di ferro per la cottura di Testaroli e Castagnacci, sicuramente meno fragili, e più affidabili dei loro predecessori. A proposito dei testi di ferro, è doverosa una precisazione; i testi per essere veramente efficaci, hanno bisogno di essere martellati, questo è necessario per due motivi; il primo, perché così facendo si chiudono i pori del metallo evitando che i Testaroli vi si attacchino, e il secondo, perché battendo, si creano dei microscopici avallamenti, che favoriscono la permanenza dell’olio spalmato con la mezza patata. Nella vicina Lunigiana invece, per la cottura del Panigaccio continua la tradizione del testo in terracotta, da sempre prodotto nel paese di Iscioli. La terracotta è stata ben presente a Carrara fino a tutti gli anni sessanta, sia per il vasellame di casa, con casseruole e pentole chiamate “terrine” ma soprattutto con i famosi “catin,”impermeabilizzati con uno smalto verde, e bianco, che erano utilizzati soprattutto per lavare i piatti, e il più grosso “concon” utilissimo per fare il bucato. Nella piana di Avenza poi, erano attive le famose Fornaci Saudino Erredibi, ormai chiuse da decenni, che sfornavano tegole e mattoni, sfruttando l’argilla ricavata in loco, estrazione che aveva creato i “bozi” enormi buche che si erano riempite poi di acqua piovana. Così, ancora una volta il cosiddetto “progresso” ha cancellato in pochi anni, secoli di storia e di sapere, nella lavorazione e nell’uso di vasellame, costruiti con una materia umile ma utilissima, con impatto ambientale zero, rimpiazzandola con qualcosa, che rischia di soffocare l’intero Pianeta; la plastica
Mario Volpi
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