I coltelli di una volta - carraraonline.com

Sezione a cura di Mario Volpi
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I coltelli di una volta

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Nella Società moderna è imperante il consumismo, che letteralmente "divora" qualunque oggetto, alla disperata ricerca di quello più nuovo e più performante, ma per quanto il Pianeta potrà sopportare questo scempio?
Spesso, quando mi reco nelle scuole elementari per insegnare il dialetto, mi capita di raccontare come si viveva in Italia nel primo dopoguerra. Vi confesso, che spesso i bambini con le loro risatine, mi mettono in imbarazzo. Non lo fanno per deridermi, ma solo perché pensano che gli racconti delle “storie,” o come ebbe a dirmi una volta una bambina di quarta elementare, “una bella favola, ma che loro sono già troppo grandi per crederci.” Purtroppo non sono favole, ma la pura verità, e, se da un lato rimango ferito dal loro scetticismo, dall’altro sono immensamente felice che la pensino così, perché vuol dire, che nonostante, crisi economiche e sociali, oggi in Italia queste “favole” non esistono più. E’ chiaro, che essendo bambini delle elementari, io gli racconto le cose semplici della vita del tempo, e come fosse imperante la necessità del riciclo di ogni cosa, ma anche questa quotidianità, ai loro occhi appare, e per fortuna lo è, distante anni luce dal mondo odierno. Voglio farvi un esempio. Cosa c’è di più semplice di un coltello da cucina? Ebbene negli anni cinquanta anche questo era “un lusso,” e  spesso esisteva un solo coltello per tutta la famiglia. A tal proposito io conservo ancora un bel ricordo proprio di un coltello da cucina. La mia casa era praticamente confinante con quella di Giuspin ‘l magnan, (Giuseppino il fabbro.) Questa persona era un vecchietto, o almeno a me pareva tale, magro e rinsecchito, senza la gamba sinistra, “la gamba matta” come la chiamava lui, strappatagli da una scheggia di bomba alla Spezia, quando lavorava come fabbro ribattino in Arsenale, sostituita da una protesi in legno. Era vedovo, e abitava in una catapecchia che gli aveva lasciato la buonanima della moglie. Per arrotondare la magra pensione da invalido di guerra, continuava a fare, ora in proprio, quello che aveva fatto da tutta una vita; il fabbro. Aveva costruito una baracchetta di legno, coperta alla meno peggio con delle lamiere ricavate da bidoni della benzina aperti per il lungo, che a malapena riparavano dalle intemperie una forgia male in arnese, una gigantesca mola, e una grossa incudine. Sulla parete di legno del fondo, facevano bella mostra di se una serie di pinze e tenaglie di ogni forma e dimensione, assieme a tre o quattro martelli delle fogge più strane. I suoi “prodotti” tutti derivati dal riciclo di pezzi metallici presi dal “Mao” (stracciaio) erano per uso domestico, o agricolo, come zappe, asce e forconi, ma la sua specialità erano i coltelli da cucina. Per forgiarli usava subbie, scartate perché diventate troppo corte, o lime da ferro “fruste” ossia ormai consunte, che le numerose officine del tempo gli regalavano conoscendo le sue condizioni economiche. Io al tempo era un ragazzino di otto o nove anni, e rimanevo incantato a sentire il ritmico battere del martello sull’incudine. Nelle giornate invernali, quando non vi era scuola, era piacevole, stare al calduccio accanto alla forgia, che lui spesso mi faceva girare con una grossa e consunta manovella. Le faville si alzavano per poi scomparire nel buio della rudimentale cappa che vi era al disopra, mentre Giuspin, afferrava con una lunga pinza il pezzo di ferro incandescente al colore giallo brillante, per “stirarlo” come diceva lui, a forza di martellate. Nonostante la sua condizione era sempre allegro e gioviale, e a me piaceva molto andare nella sua baracchetta, anche se mia madre si arrabbiava perché rientravo pieno di fuliggine come uno spazzacamino. Nella mia ingenuità infantile ero affascinato dal suo modo di estrarre da un pezzo di ferro magari rotondo e rugginoso, un’elegante coltello da cucina lungo il doppio e sottile come un foglio di carta, e pensavo che vi fosse già “dentro” e che solo lui riuscisse a vederlo. Un giorno, ricordo perfettamente che era una domenica, perché avrei dovuto andare alla messa per via del Catechismo, Giuspin chiese a mia madre se poteva “prestarmi” a lui per mezza giornata perché aveva un sacco di lavoro da fare per la festa di San Ceccardo, e ci voleva qualcuno che gli girasse la forgia e la mola, che ogni tanto gli spaccasse un po di carbone. Anche se a malincuore mia madre acconsentì, perché il buon vicinato al tempo era una vera e propria regola ferrea, anche se non scritta, e io fui semplicemente entusiasta di “salarmi” la noiosa messa, e soprattutto orgoglioso di questa mia investitura a ”bagash del magnan” (apprendista del fabbro) anche se solo provvisoria. Quel giorno fece cinque coltelli, tre zappe e un’ascia, e dopo l’affilatura disse che mi avrebbe fatto vedere come faceva a temprare l’acciaio. Dopo averlo scaldato fino a “doventar ross com na ciresa” (a diventare rosso come una ciliegia) lo immergeva per pochi secondi nell’acqua, poi lo estraeva e mi fece vedere come “al montav la tempra” ossia un colore bluastro che risaliva lentamente dal filo verso l’alto, e l’immergeva completamente fino al completo raffreddamento. Poi faceva la prova per vedere se l’attrezzo era abbastanza duro, colpendo di taglio uno dei quattro piedi dell’incudine. Se il filo rimaneva integro era perfetto, altrimenti l’operazione doveva essere ripetuta. Pur soddisfatto, quella sera oltre ad avere il braccio destro indolenzito dal troppo girare, ero stanchissimo, e sprofondai in un sonno profondo. Dopo alcuni giorni verso sera udimmo bussare alla porta, era Giuspin che era venuto a “pagarmi,” per il mio aiuto con un magnifico coltello da cucina con il manico in legno d’ulivo che ancora conservo. Quei coltelli anche se sapientemente forgiati, e affilati come rasoi, avevano un grosso difetto, ossia, sapevano “d fer” (di ferro) perché l’acciaio ricco di carbonio era soggetto a trasferire ai cibi il cosiddetto “gusto di citrino.” Oggi l’acciaio inossidabile ha completamente sostituito il ferro, ma i coltelli odierni, con i loro manici di plastica colorata, e la loro lucentezza, non potranno mai eguagliare il fascino di un coltello di quei tempi, magari unico in tutta la casa, con il tipico sapore di ferro, ma fatto con grande sapienza, e adatto per essere tramandato come un prezioso cimelio alle prossime generazioni.
Mario Volpi 9.06.23
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