Ma le marmotte fanno la cioccolata
Spetta/Le Redazione
15 Gennaio 2014
Cara Redazione
La pubblicità ormai ci martella continuamente, con spot che, grazie alle avanzate grafiche computerizzate, oggi possibili, crea delle scene fantastiche. Così, mentre a un adulto possono strappare un sorriso, confondono profondamente un bambino, che non riesce più a distinguere la realtà dalla fantasia. Purtroppo questa cattiva abitudine dei Media, non è neppure soggetta alle famose "fasce protette", anzi specialmente negli spot dei giocattoli, mostrano delle situazioni al limite della fantascienza, limitandosi a fare passare nei "sottopancia" scritte piccolissime e veloci in cui si dice che le scene sono cinematografiche.
L’altra mattina, seduto su una banchina dei giardini pubblici di Marina, mi stavo beatamente godendo il sole di una mattinata quasi primaverile, quando ho assistito ad una scenetta, che se da un lato era tenera e dolce, dall’altro era inquietante.
Alcuni bambini dall’apparente età di quattro o cinque anni, accompagnati dalle madri, si divertivano a lanciarsi in spericolate discese sugli scivoli del parco, accompagnando tutta la discesa con urla eccitate, dopo qualche tempo una delle madri richiamò il figlio per dargli una barretta di cioccolato. Il bambino dopo averla scartata ne offrì un poco al compagno dicendogli” ne vuoi? E’ quella che fanno le marmotte!”
Questo la dice lunga su l’influenza che ha sui bambini un messaggio lanciato dalla TV. Si parla tanto di bollini rossi, o gialli, di fasce protette, non pensando che non sono soltanto le scene truci, o erotiche, a potere turbare, o forviare un bambino. Una mia conoscente che è pedagoga, oltre che mamma, mi disse una volta, che è molto difficile dire ad un bambino molto piccolo, che non è vero che uno scoiattolo mangiando una caramella possa salvare una foresta dal fuoco, che gli orsi non pescano con le padelle, o che i gorilla non parlano, e non prendono l’aperitivo al bar, perché loro queste cose le hanno “viste con i propri occhi” perciò devono per forza essere vere. Questo rapporto distorto con gli animali, dovuto ad una scarsissima conoscenza della Natura, porta anche a drammi ben più gravi, come attacchi improvvisi di cani a bambini. Questo avviene perché il bambino non vede l’animale come una cosa viva, ma quasi come un oggetto di peluche, che si può toccare e stringere a proprio piacimento, innescando nel cane una reazione di difesa che spesso sfocia nel morso.
Altra grossa lacuna del bambino “moderno”è la totale ignoranza dell’origine dei principali alimenti. Molti pensano al Supermercato come ad una grossa “fabbrica,” che li produce in modo autonomo. Bisognerebbe spiegare ad un bambino che le uova non nascono dentro la confezione di plastica, e che il latte non si trova in cartoni quadrati.
Ma non sono soltanto i bambini di pochi anni ad avere grosse lacune in materia alimentare, durante una delle mie visite in una scuola elementare per parlare del dialetto carrarino, il discorso cadde, non ricordo neppure il motivo, sul riso allo zafferano. Io colsi al volo l’occasione e domandai se sapessero da cosa fosse estratto lo zafferano, e che colore avesse in origine; nessuno seppe darmi la risposta, e quando dissi loro che il fiore da cui era ricavato era di colore violetto intenso, mi guardarono come se fossi un povero matto, eppure era una quinta classe.
Ho sempre pensato, e molte volto l’ho anche proposto a Presidi e Insegnanti, purtroppo sempre inascoltato, di fare le famose gite scolastiche in qualche allevamento o fattoria, certamente più utile che in esclusive località alla moda, ma prive di contesti didattici.
Io ho avuto la fortuna di passare la totalità della mia fanciullezza in una fattoria, assistendo così da vicino ai cicli naturali.
Un tempo la conoscenza della Natura, era fondamentale, perché la sopravvivenza di molte famiglie dipendeva esclusivamente da essa. Ai più piccoli si insegnavano le basi di questa convivenza, con piccole incombenze prese spesso come un gioco, ma che li preparavano alla dura vita del contadino. Si aiutava la mamma a “far d’erba p’ri cunigi” (fare l’erba per dare ai conigli) così si imparava a riconoscere e a raccogliere gli “erbi,” piante spontanee che specialmente in primavera nascevano abbondanti nei campi, e che servivano a fare la gustosissima “polenta incatenata”. Per le chiocce intente a covare, si raccoglieva la “verdiola” (parietaria) perché ne andavano particolarmente ghiotte, e si evitava così che stessero troppo tempo fuori dal nido di cova. Si raccoglievano poi, proprio in questo periodo, gli asparagi selvatici, indispensabili per cucinare delle prelibate frittate. Usando alcuni pezzi di carta gialla, per proteggerci le mani, si raccoglievano le cime dell’ortica, utile per un ottimo antiforfora, o per fare le lasagne verdi. Anche i cicli vitali degli animali erano rispettati e naturali, non forzati come lo sono adesso per trarne il massimo profitto, a scapito della qualità. E pur vero che le mucche oltre a fornire il latte venivano anche usate per il lavoro nei campi, trainando erpici, per livellare i campi dopo l’aratura, o “trage,” una specie di slitta che serviva per il trasporto del foraggio o del letame. Le uniche forzature praticate, erano la “capponatura” di alcuni giovanissimi galletti, operazione in cui la “fattora” era maestra tanto da arrivare a quasi il 99% dei successi nelle operazioni compiute, e l’ingrasso forzato a oche e “piti” (tacchini) ma solo su pochi esemplari da consumarsi durante le feste Natalizie. Il pollame era tenuto allo stato brado, libero di alimentarsi nei campi, solo d’inverno venivano somministrati pastoni con crusca e fioretto, impastatati con acqua tiepida, per aiutarli a sopportare il freddo. I conigli erano tenuti liberi all’interno dei fienili, nutrendoli con frasche e erba fresca, si riproducevano in modo autonomo, dando vita a delle vere e proprie colonie. I piccioni volavano liberi, formavano dei giganteschi stormi, e a noi bambini divertiva molto la buffa danza, e il gutturale verso, che il maschio usava per corteggiare la femmina. A l’inizio della primavera, era uno spettacolo vedere le chiocce seguite da decine di pulcini a cui insegnavano a razzolare, e a cibarsi nei campi. La lavorazione che io preferivo era la preparazione del burro. Questa avveniva di solito con la mungitura serale, il latte veniva fatto riposare per qualche ora, poi la panna superficiale veniva asportata con un mestolino di legno, e travasata in un fiasco senza veste a bocca larga, e qui entravo in azione io. Con vigorosi scuotimenti facevo addensare questa massa, fino quando la fattora giudicava che fosse sufficiente, allora si faceva uscire dal fiasco e si metteva in un apposita forma a parallelepipedo di legno, dove veniva pressato e poi messo al fresco in un bacile di acqua fuori della finestra. Anche la mietitura che avveniva di solito ai primi di luglio era molto divertente per noi bambini, unica nota stonata era l’alzarsi a l’alba, dopo però si poteva guidare le trage trainate dalle giovenche che portavano i covoni in fattoria. Si lavorava fino quasi a mezzogiorno, si pranzava assieme ai vicini che erano venuti ad aiutarci, dopo, noi piccoli, facevamo un riposino, mentre i grandi, al fresco sotto il pergolato, chiacchieravano fino verso le sette di sera, quando il caldo era ormai diminuito e si poteva riprendere il lavoro. E come non parlare della vendemmia, operazione che coinvolgeva tutti. I giovani del vicinato, uomini e donne, approfittavano di questo momento per corteggiarsi, e farsi scherzi giocosi, come la “maschera,” che consisteva nello strofinare nel viso della vittima il “Tintoretto,” un tipo di uva dai chicchi piccolissimi e di un viola acceso. Capisco bene che questi avvenimenti possano ormai essere classificati come archeologia rurale, e che non possano più essere rivissuti, ma penso che qualcuno prima o poi debba informare i più piccoli che, le mucche viola non esistono.
Volpi Mario