Riconoscere le stagioni
Una Volta Invece
Cara Redazione
Come dico spesso il progresso è certamente importantissimo per la vita quotidiana di tutti noi, ma spesso priva le nuove generazioni di vivere esperienze uniche e irripetibili, che purtroppo non conosceranno mai.
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Riconoscere le stagioni
Un giorno, mi trovavo in una scuola elementare cittadina per parlare di dialetto, la giornata era splendida, e di colpo, un gruppo di passerotti cinguettando chiassosamente, si posò sul davanzale della finestra, per poi volare via. Io dissi ai bambini che a causa della primavera in arrivo, quei passerotti lottavano per trovarsi una fidanzata. Mi aspettavo una domanda, magari scabrosa sull’argomento, invece, una bambina, dopo avere alzato timidamente la mano, mi chiese candidamente ” scusi! Ma come si fa a sapere quando arriva la primavera”?
Questa domanda può sembrare ingenua, invece non lo è per nulla. Per un bambino dei nostri giorni che vive in città, è impossibile imparare a conoscere quei segnali inequivocabili che indicano l’imminente cambio di stagione. Segnali che invece chi, come me era bambino sessanta anni fa, conosceva benissimo. La vita rurale del tempo, era fortemente influenzata dalle stagioni, soprattutto nel campo alimentare, dove in inverno, la dieta giornaliera era assai monotona, composta quasi esclusivamente da prodotti come la farina, conservati l’anno prima, con pochissima verdura, naturalmente di stagione, come cavoli e cardi, in verità poco appetibili per un bambino. Uno dei primi segni che annunciavano l’arrivo della primavera, era il portare, e spargere il letame nei campi, poco prima della loro aratura e semina. Quest’attività, certamente faticosa per i “grandi” era molto divertente per noi piccoli. Il letame era caricato a mano con il forcone sulla “tragia” una slitta rudimentale, composta di una grossa cesta rettangolare in vimini, montata su dei pali che strusciavano il terreno. Alla tragia si aggiogavano due vacche, e quando il carico era completo, il bambino di turno guidava la slitta, mentre l’adulto in piedi sulla slitta spargeva il letame. Anche il “portare la vacca al toro” era un inequivocabile segnale di primavera. Al tempo la fecondazione artificiale era aldilà da venire, ma esistevano le stazioni di monta taurina. La mattina arrivava una manbruca trainata da un cavallo, e su di essa, non senza qualche difficoltà, si faceva salire la vacca”in calore” tra i sorrisini imbarazzati di noi bambini, che sapevamo il “perché”, ma non il “come” questo misterioso rito avvenisse. I primi messaggeri in assoluto dell’arrivo della bella stagione erano certamente i piccioni. Al tempo ogni fattoria, o casa colonica, possedeva un grosso stormo di piccioni, animali che erano considerati una risorsa alimentare quasi a costo zero, perche liberi, e in grado di procurarsi da soli la maggior parte del cibo. Così quando una mattina ti svegliavi, e dalla finestra vedevi, magari sul tetto del granaio, il piccione maschio girare tutto gonfio, e tubare attorno alla femmina, capivi che presto, non solo si sarebbe potuto smettere di andare a scuola, ma soprattutto si preparava anche un periodo alimentare pieno di deliziose leccornie.
Da una coppia di piccioni nascono di solito due pulcini, che dopo circa un mese prendono il volo, ma secondo la saggezza contadina, la prima nidiata dopo l’inverno, non si doveva tenere, perché i piccioni nati nel periodo freddo avrebbero avuto problemi di salute, quindi erano destinati alla casseruola. Prima che s’involassero, erano presi, e posti in una grande gabbia per “piumars” come si diceva in dialetto, cioè per dare loro il tempo di finire di mettere le piume. Il loro governo era affidato a noi bambini, si dava loro l’acqua, e una volta il giorno, si preparava il pastone. Questo era composto di fioretto, farina, crusca, e abbondante erba parietaria tritata fine. Non era infrequente che in questa gabbia vi fossero anche un centinaio d’individui, alcuni erano barattati con i vicini in cambio di qualcosa, ma la maggior parte finiva nella casseruola, di solito nel forno dopo aver fatto il pane, e vi posso assicurare che erano una vera delizia. Anche il pollaio era in fermento. Molte delle galline lasciate l’anno precedente cominciavano a “chiocciare” ossia a covare le uova, prime fra tutte le cosiddette “Americanine” galline della minuscola razza bantam tenute solo a questo scopo. Queste vere e proprie incubatrici viventi covavano di tutto, il solo limite era la quantità, e la grossezza delle uova, e non era infrequente vedere queste piccole chiocce con un seguito di pulcini, anatroccoli, e perfino tacchini. Quelle galline che erano poco produttive, o un pò “anzianotte,” venivano eliminate, con gran sollazzo per le nostre papille gustative, provate da mesi di polente e broccoli, anche se cucinati in mille modi. Dopo avere fatto il proprio dovere anche il gallo, finiva la propria carriera a Pasqua, rimpiazzato dal più prestante degli ultimi nati. Anche nella conigliera le nascite avvenivano a ritmo serrato, mentre si poteva cominciare a gustare la prima frutta di stagione, come le fragoline selvatiche, che andavamo a cercare al limitare del bosco, o sul ciglio dei poggi. Poi tutto avveniva come in un film visto più volte, la fine della scuola, i primi caldi, e infine l’estate. Questa era certamente la stagione preferita da noi bambini, ricordo ancora con struggente nostalgia i caldi tramonti estivi, quando finalmente le cicale tacevano, i dopo cena nell’aia sotto il pergolato, e le innumerevoli corse per acchiappare le lucciole. Alla fine, sfiniti, era bello raggomitolarsi tra le protettive braccia della mamma, e mentre la tiepida brezza serale ci accarezzava i visi accaldati, abbandonarsi al sonno, sotto un cielo stellato, e cullati dalla melodia di un milione di grilli.
Volpi Mario
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