Un soggetto l'infatico
Talvolta una situazione, un gesto, o un pensiero, di una terza persona, può condizionare il corso della nostra vita, in bene o in male, com'è successo a me tanti anni fa.
Erano i primi anni cinquanta, non ricordo bene se frequentassi la prima, o la seconda elementare, ricordo soltanto che era già molto caldo, e che la scuola sarebbe finita da lì a poco, quindi deduco che dovevamo essere di maggio, quando il tam, tam, della scuola scosse i nostri giovani cuori, "ci fanno la visita medica!" Ora la cosa strapperebbe un sorriso, ma per quei tempi era una situazione molto seria, addirittura drammatica. Prima di tutto moltissimi di noi non avevano mai visto un medico in vita loro, quindi non avevano la minima idea di cosa li attendesse, e poi "visita medica" cosa voleva dire? In quel periodo quando si ricorreva alle cure di un dottore, era quasi certo che di lì a poco "a s sirèn cavati da pagar d'est'm" (ci si sarebbe levati da pagare l'estimo) come recitava un antico proverbio carrarino, che significava il passaggio a miglior vita. A poco o nulla servirono le rassicurazioni delle maestre, il terrore allo stato puro si era ormai impadronito di tutti noi. Quando venne la bidella a prendere i primi cinque della nostra classe, molti scoppiarono a piangere, e si dovette trascinarli via di peso, io nel mio banco vicino alla finestra, sentivo ondate di calore salirmi al viso, alternate a brividi gelati, mentre un milione di farfalle svolazzavano dentro il mio stomaco provocandomi la nausea, il sudore m'imperlava la fronte, zuppandomi la testa come se avessi fatto una corsa sfrenata. Quando venne il mio turno, mi sforzai di non piangere, e come un automa seguii la bidella nella stanza dove un signore, e una signora, vestiti di bianco, ci attendevano. Durante la visita ero terrorizzato, ebbi la sensazione che una mano ghiacciata mi serrasse le viscere, mentre il sudore aumentò considerevolmente diventando gelato, e inzuppandomi completamente anche la canottiera. Non riuscì neppure a pronunciare il mio nome, cosi fu la bidella a dirlo, poi si recò nella mia classe a prendere il mio quaderno, su cui il medico scrisse qualcosa. Quando poi a casa, mia madre lo lesse, la vidi impallidire, vi era scritto che il giorno dopo il medico l'attendeva in classe per importanti comunicazioni. Al tempo, la Tubercolosi o "mal sottile" com'era chiamata, per esorcizzare il terrore che incuteva, era ancora molto comune, quindi mia madre pensò che una convocazione del genere non promettesse nulla di buono.
L'indomani fuori della scuola erano molte le madri in attesa di parlare una alla volta con il medico, che per l'occasione aveva preso possesso dell'ufficio della segreteria. Quando tornai a casa nel pomeriggio, appresi che il dottore aveva detto che ero un soggetto "linfatico." Fino a pochi decenni fa, il termine linfatico, era usato spesso dai medici, per indicare un paziente molto magro, dall'incarnato diafano, soggetto ad abbondanti sudate, insomma il mio ritratto del tempo. Qui è doverosa una precisazione: come ho gia avuto modo di dire, io sono andato a scuola, per uno strano calcolo sulla mia data di nascita, a cinque anni e pochi mesi, quindi ero molto più gracile dei miei compagni, ma in compenso più alto della media, e, come mi è stato detto in un secondo tempo, per una carenza di melanina, ho sempre avuto l'incarnato molto chiaro. Se a tutti questi fattori aggiungiamo che dalla paura ero madido di sudore, non possiamo biasimare il medico se ha pensato che avessi una qualche forma di rachitismo, che al tempo chiamavano "linfatismo". Questa sua convinzione lo portò a prescrivermi una cura al tempo considerata, una specie di panacea; sole e bagni di mare. Senza quella diagnosi errata, probabilmente avrei dovuto aspettare anni non solo per vederlo, ma soprattutto per bagnarmi nel mare.
Così appena la scuola finì, mia madre mi portò al mare per la prima volta; fui svegliato la mattina molto presto, per usufruire della "corsa operaia"una sorta di biglietto andata e ritorno a prezzo agevolato, ci recammo sul viale XX Settembre alla fermata del tram, che ci portò in piazza a Marina, da lì a piedi, raggiungemmo "la piscina".
Il nome non deve trarre in inganno, non si trattava di una vera piscina, ma di un pezzo di mare, che un tempo si trovava di fianco alla Porto, lato Massa, parallelo alla diga di levante. Era protetto da una scogliera, cosa che permetteva all'acqua al suo interno, di restare sempre calma, vi era anche una piccolissima spiaggia sassosa subito sotto la sede stradale, che lo faceva un luogo ideale per la balneazione dei più piccoli.
Mia madre mi spogliò, nascondendo le mie grazie con un asciugamano, e mi fece indossare un costume di lana blu, identico a quello di Fantozziana memoria, ma che al tempo era l'unico disponibile, in testa mi mise il tipico cappello da mare, modello cuffietta di Nonna Papera, in cotone bianco con la tesa circolare molto flaccida. Così agghindato, saltellando sui sassi resi roventi dal sole, potei immergere i piedi nell'acqua di mare per la prima volta. Purtroppo di questa mia prima volta, non mi rimase un buon ricordo. Restai troppo tempo esposto al sole, anche a causa della totale assenza di ombrelloni, la qual cosa non risultò molto gradita alla mia pelle sensibile, così alla sera oltre ad avere la febbre, sembravo un pomodoro maturo da tanto ero rosso, ustioni che furono curate con il doposole del tempo: olio di oliva mescolato con acqua e sbattuto.
Nonostante questa brutta esperienza la "cura" doveva continuare, anzi, dovendo essere di lunga durata, mia madre si organizzò con le vicine, i cui figli avevano anch'essi, bisogno di mare, e dopo aver convenuto che sarebbe stato impossibile per loro portarci tutti i giorni, stabilirono che a turno, ognuna di loro portasse al mare i figli di tutte, ottenendo così un notevole risparmio di tempo e di denaro. Per noi bambini la cosa si rivelò ancora più divertente, avendo dei coetanei conosciuti per giocare, unica nota negativa era quando era il turno di Otà, il nonno di Luciano. Questi era un vecchietto simpatico, cui piaceva molto raccontarci favole e storie di ogni tipo, che noi ascoltavamo incantati, ma soffriva di reumatismi, questo lo portava a dover fare le "sabbiature", cosa che influiva negativamente sulla nostra giornata.
Prima di tutto non si andava alla piscina, ma alla spiaggia libera sotto il faro, lì la mattina dovevamo preparare la buca, che sarebbe servita per la sua cura. Alle due pomeridiane, con il sole che pareva piombo fuso, si sdraiava dentro a quella fornace, e noi dovevamo ricoprirlo fino al collo con la sabbia rovente, poi dovevamo restare nelle vicinanze, perché "se avessi bisogno!" Questo limitava di molto i nostri movimenti. Non potevamo ad esempio, allontanarci per andare strisciando di nascosto sotto le cabine dei bagni vicini, al tempo interamente di legno, per "vedere qualcosa"dalle fessure del pavimento, o a caccia di granchi, al tempo numerosissimi sulle scogliere. L'unico fatto positivo era che, siccome usciva disidratato da quella sauna infernale, verso le quattro, quando si tornava in piazza per prendere il tram, ci fermavamo al casottino delle granite. A distanza di più di mezzo secolo ho ancora vivo nella mente la sensazione di gioia che noi bambini provavamo solo al pensiero di una semplice granita. Spiavamo ogni mossa che la Anita, così si chiamava la titolare, faceva, con il "pialletto" contando addirittura le piallate. Raschiava il ghiaccio da un grosso blocco tenuto fresco fasciandolo con stracci bagnati, più erano numerose le passate, più era la quantità di ghiaccio che sarebbe poi andata nel bicchiere, quando questo era pieno fino all'orlo di ghiaccio la domanda fatidica"che gusto?" E qui ci si poteva sbizzarrire! In ben tre gusti, menta, fragola, o cedrata.
Sul tram che ci riportava verso casa, qualche volta qualcuno di noi si addormentava, provato da quella giornata, che nella nostra ingenuità infantile, giudicavamo "da ammalati ricchi".
Volpi Mario