Il mostro
Racconti
Spetta/Le Redazione
La fuga dal mostro, un breve racconto, dove ogni riferimento a luoghi, fatti, o persone è puramente casuale ... Forse!
Stefano non fu mai respinto…, continuò a salire in solitario verso la cima fino a diventarne una parte di ciò che lo attorniava, il silenzio delle vette, quello della neve e il silenzio eterno, quello che non esiste in nessun altro luogo se non lassù.
Il mostro cercava disperatamente di lacerargli i polmoni, ma egli, strinse i denti, e dopo aver riposato un minuto, pur con il fiato corto, riprese a salire. Ormai era in quota, il freddo era insopportabile, e gli infilava le sue lunghe e diafane dita gelide lungo la schiena, mentre un maligno vento di Tramontana gli sputava in faccia acuminati aghi di ghiaccio. Stefano, fece una smorfia, che voleva somigliare a un sorriso, e pensò a come fosse strana, e spesso crudele la vita degli uomini. Era nato quarantacinque anni prima ad Avenza, una tranquilla frazione del comune di Carrara. Tra lui e la montagna si era instaurato subito un amore che a tutt’oggi ancora non riusciva a spiegare. Ricordava che quando era molto piccolo, sua madre la mattina, apriva gli scuri della finestra per svegliarlo, e lui dal suo lettino, poteva vedere il Monte Sagro. Nella sua ingenuità fanciullesca, credeva che solo Fate o Folletti alati, potessero arrivare sulla cima di quell’enorme montagna. Negli anni a seguire, avrebbe visitato le Montagne della Luna, come le chiamavano i Liguri Apuani, in lungo e largo. Per lui, da Pizzo delle Saette, al Grandilice, passando magari per il Monte Sella, fino all’imponente monte Pisanino, non vi erano più segreti. Erano stati gli anni dell’Università, in cui aveva capito di possedere quest’amore viscerale per la montagna. Con una smorfia di dolore, si tolse il guanto della mano sinistra, e cominciò a massaggiarla energicamente, era diventata diafana e fredda, gli faceva molto male, anche se al tatto era insensibile. Dopo essersi rimesso il guanto, cambiò mano alla piccozza, e riprese la faticosa salita, con la neve che ora, gli arrivava quasi alle cosce, e si rituffò nei ricordi. Gli piaceva rammentare i pomeriggi estivi, passati sulle Apuane, con l’assordante silenzio delle aride pietraie, la verde coltre impenetrabile dei boschi di castagni, o il camminare all’interno delle maestose faggete, immaginando che lo stormire degli alberi, fosse dovuto alle storie raccontate in paesi lontani, che il vento raccoglieva, e sussurrava alle foglie, e che solo loro potevano capire. Era piacevole stare sdraiati supini sull’erba dei prati, ammirando il turchino del cielo, ad ascoltare il monotono e argentino chiacchiericcio dei ruscelli di montagna. Come poteva dimenticarsi poi, del mistico odore d’incenso che si respirava nelle secolari cattedrali di abeti, mentre, nelle smeraldine vallate, le narici erano accarezzate dai voluttuosi profumi dei fiori di montagna. L’inverno poi, ammantava la montagna dell’immacolato candore della neve, dove, solo il camminarvi sopra pareva un sacrilegio. Si laureò, in Geologia, con il massimo dei voti all’Università di Pisa, e dopo poco fu assunto da un’importante cava di marmo cittadina. Una violenta stilettata alla gamba sinistra lo fece cadere sulle ginocchia con un urlo di dolore, il mostro questo pomeriggio non voleva dargli tregua, ma aveva da spadroneggiare con il suo corpo ancora per poco, pensò Stefano. Si alzò con immensa fatica, mentre il muscolo della coscia, si contraeva spasmodicamente, provocandogli ondate di dolore simili a crampi. Uno stridio acuto gli fece alzare gli occhi, e ciò che vide, lo lasciò incredulo e stupito. Una gigantesca aquila reale era posata su una roccia innevata, a pochissimi metri di distanza, e lo fissava con i suoi grandi occhi gialli. Stefano poteva distinguere perfettamente il possente becco ricurvo, e i micidiali artigli, affilati come rasoi. L’uccello lo fissò per qualche secondo, poi, con un grido aprì le enormi ali, e con una grazia insospettabile per un uccello di quelle dimensioni, guadagnò l’immensità del cielo azzurro. Stefano interpretò quell’insolito evento come un messaggio della montagna, che aveva inviato la Regina delle cime, per dargli la forza e il coraggio necessari a continuare, per portare a termine ciò che si era promesso di fare. Facendo un enorme sforzo di volontà, riprese la salita. Ripercorse mentalmente, pentendosene, le innumerevoli volte che aveva fatto stare in pensiero i genitori, perché tornava a notte fonda dalle sue escursioni sulle Apuane, montagne che aveva sempre nel cuore, e che non avrebbe mai più rivisto. Un artiglio all’interno del suo corpo gli strinse un polmone, la respirazione diventò affannosa, e Stefano si appoggiò sfinito a uno spuntone di roccia. Tossì sangue, si pulì con il dorso della mano guantata, e poi riprese l’ascesa. Ansimando, ricordò il giorno in cui gli fu offerto quel nuovo lavoro come geologo in una delle cave della Valle D’Aosta. Con un mesto sorriso, ripensò alla sua gioia quasi infantile, perché avrebbe avuto la possibilità di vedere le montagne “vere,” quelle alte fin quasi alla casa di Dio. Si trasferì pieno di gioia. Ripensò con una punta di commozione al giorno che arrivò nel comune di Alania Valsesia, proprio di fronte al massiccio del Monte Rosa. Oltre a trovarsi bene sul lavoro, incontrò anche l’amore. Gisella era una splendida ragazza, che gestiva il rifugio alpino della sua famiglia, Stefano, la conobbe durante una delle sue frequenti uscite in montagna e fra i due fu amore a prima vista, che dopo un anno li portò al matrimonio. Ora la sua vita era veramente felice. Un violento colpo di tosse lo costrinse ancora a fermarsi, l’attacco durò più di un minuto, e lasciò Stefano stremato, con la sensazione che un braciere ardesse nei suoi polmoni. Dopo alcuni minuti, caparbiamente, riprese il cammino, ormai mancava poco. Ma la felicità non è di questo mondo. Un giorno di appena un mese fa, Stefano sentì difficoltà a respirare, e le gambe che parevano di legno. Anche mani e braccia avevano strani formicolii, e tremavano in modo incontrollabile. Preoccupato, si recò dal medico, che lo spedì immediatamente da un neurologo. Dopo gli esami del caso, il medico lo fece accomodare nel suo studio, e con il viso funereo, gli comunicò la notizia. Era affetto dalla Sindrome di Guillan-Barrè, una terribile malattia, un “mostro” che in pochissimo tempo gli avrebbe paralizzato gli arti, e mozzato il respiro, rendendolo un vegetale. Gli ci vollero parecchi giorni per digerire la notizia, poi Stefano prese una decisione. Non avrebbe consegnato la sua vita al mostro supinamente. Scelse con cura il luogo, e soprattutto il giorno in cui le condizioni meteo fossero favorevoli per ciò che aveva in mente. Quel giorno era giunto; era oggi, il meteo aveva previsto che sarebbe stata una freddissima e chiara giornata invernale. Non disse nulla a nessuno, né alla moglie che amava più della sua stessa vita, né ai suoi datori di lavoro, e ora finalmente era arrivato alla meta. Aveva scelto Punta Gnifetti, perché era proprio davanti al magnifico e maestoso Monte Rosa. Con uno sforzo infinito, si tolse la giacca a vento, il pesante maglione e il berretto, il gelo, come un cane rabbioso, affondò le sue lucide zanne nelle carni, ma lui con un brivido lo ignorò. Si tolse anche gli scarponi e i calzettoni, poi si sedette appoggiando la schiena alla roccia gelida. In quel punto vi era come una piccola nicchia, che interrompeva la salita, e Stefano lo aveva scelto proprio per quello. Le stallatiti, pendevano dalla grigia roccia come dei preziosi candelabri di cristallo di Boemia, e riflettevano la calda luce del crepuscolo, mentre la valle sottostante era già immersa nelle tenebre. I muscoli dorsali, erano già insensibili per il freddo, ed egli, fece uno sforzo indicibile per vincere lo spirito di sopravvivenza che gli urlava di alzarsi. Poi, quasi di colpo ciò che aspettava, avvenne. Il sole, incendiò l’imponente montagna di rosso, trasformando le sue nevi eterne, in braci ardenti, lo spettacolo era maestoso e magnifico. A Stefano gli occhi s’inumidirono per la commozione, e per un secondo quasi non sentì il mostro dentro di lui dilaniargli le carni. Come tutte le cose belle però, durò solo un minuto, poi, mentre il sole calava, quel fuoco lentamente si spense proprio come la vita nei suoi occhi … ormai vitrei!
Mario Volpi 3.8.2020
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