Tecnologia vs Natura
Attualità
Spetta/Le Redazione
Oggi, tutti noi siamo portati a credere che la
tecnologia di cui facciamo ampio uso anche nelle attività ludiche, possa
vincere in ogni momento, e facilmente le leggi della Natura. Ma sarà davvero
così?
Era
ancora buio, sulle cime dell’appenino toscano. Un rumore in lontananza, ruppe
il silenzio di quella gelida notte di novembre. Poi due fari squarciarono con
sciabolate di luce le tenebre, mentre divenne sempre più forte il catarroso
rombo di un motore, spinto al massimo dei giri, per vincere quell’impossibile
salita di quella mulattiera improvvisata, piena di fango e buche. Era una
sgangherata jeep, che aveva visto tempi migliori, ora adibita al trasporto dei canai,
e degli scaccini, della “Murtetto 1,” come si chiamava la squadra di cinghialai
del paese di Murtetto. Gli spartani sedili posteriori, erano stati sacrificati
per far posto a due cassoni di legno che ospitavano ognuno una coppia di cani.
Virgilio e Oreste, erano gli orgogliosi proprietari di quella muta di segugi
italiani che tutte le altre squadre di cinghialai gli invidiavano. In silenzio Francè,
che tutti consideravano il miglior scaccino della Toscana, dopo essersi alzato
il cappuccio del giubbotto termico ad alta visibilità che indossava, aiutò i
due uomini a far scendere i cani, legandoli a un vicino albero, poi dopo averli
muniti di collare GPS, gli sistemarono i leggerissimi ma resistenti corpetti
protettivi anti zanna in kevlar, erano pronti. Nel sottostante canale, Beppe,
il capo caccia, aiutandosi con una torcia ai LED schermata, stava seminando gli
uomini alle poste come faceva Pollicino con le briciole di pane. I tredici
uomini procedevano nel massimo silenzio, in fila indiana, senza fumare, e
soprattutto stando ben attenti a non fare rumore calpestando rami secchi o
fronde. In pochi minuti l’intero canalone in fondo al monte era punteggiato dagli
sgargianti gilet arancioni che risaltavano come fari, tra le spoglie fronde del
sottobosco, ma invisibili agli occhi del cinghiale. Intanto, le tenebre
lottavano strenuamente per non lasciare campo libero alla luce del giorno, che
già stava schiarendo la cima del monte Sagro. Il freddo era intenso, e le pareti
del canalone erano ricoperte da una gelida e delicata trapunta di ghiaccio.
Virgì, Orè e Francè, si erano rifugiati all’interno della macchina in attesa
che venisse giorno, approfittando di quel momento di pausa per consumare una
frugale colazione composta di pane e salsiccia nostrale. Francè, dopo aver
bevuto un sorso di caffè bollente versato dal termos elettrico collegato
all’auto, disse, “oggi mi sento che sarà la volta buona!” “Speriamolo” rispose
Virgì, “ormai è troppo tempo che il Nero ci frega!” Il Nero era un verro
gigantesco, che loro tre avevano intravisto tre o quattro volte durante le
battute precedenti. Quello che non potevano sapere era che questo Solengo, era,
per una serie di circostanze fortuite, davvero speciale. Unico sopravvissuto di
una cucciolata di appena tre individui, aveva potuto godere a sazietà del latte
materno, crescendo sano e forte. Appena svezzato, la madre era stata uccisa da
un branco di lupi, e lui non essendo stato accettato dal resto del branco,
aveva imparato a cavarsela da solo in modo anomalo. Pur nutrendosi di vegetali,
per una serie di circostanze era venuto spesso a contatto con carcasse di
animali morti, ed essendo per sua natura un onnivoro, aveva imparato a cibarsi
di carogne, ma anche di carne fresca a discapito di rane, topi o serpenti.
L’apporto smodato di proteine lo aveva fatto diventare gigantesco, possente, e
vigoroso. Pesava oltre 160 kg, con una testa enorme, pesantemente armata di
zanne, di cui le due inferiori lunghe più di quindici centimetri, si auto affilavano
continuamente sfregando su quelle superiori. Era nel pieno della forza e
dell’età, e nella passata stagione riproduttiva, molti maschi portavano ancora
le cicatrici delle sue violente sgrugnate, combattimenti vittoriosi che lo
avevano premiato facendolo diventare padre di numerose cucciolate. In più la Natura
forse per un eccesso di melanina, gli aveva donato un pelo totalmente nero, che
nella penombra del sottobosco lo rendeva pressoché invisibile. Questa notte,
dopo essersi saziato a poca distanza da lì con la carogna di un capriolo, il
Nero si era acciambellato nella sua buca preferita sotto una fittissima macchia
di biancospino. Le spine della pianta per lui non erano un problema, protetto
com’era da quella vera e propria corazza di setole e sottopelo. La luce
dell’alba, anche se a fatica, cancellava gradatamente il buio della notte, e
già s’intravedevano nella bruma mattutina, le scheletriche cime dei faggi, che
pareva volessero strapparla per svettare verso il cielo. “E’ ora” disse Virgì.
Scesero dalla macchina, indossarono i gambali in cordura antistrappo, e tirarono
fuori dalle custodie le corte doppiette da cinghiale cal. 12, di cui tutti e
tre erano armati, poi preso al guinzaglio i cani, si distanziarono di circa
cento metri lì uni dagli altri. Orè accese la radiolina VHF e dopo aver premuto
il tasto di chiamata disse” occhio alle poste, partiamo!” Dopo un attimo Beppe
rispose “Roger!” poi con il passaparola avvisò gli uomini. Cercando di fare il
minor rumore possibile, i cacciatori caricarono silenziosamente le micidiali
carabine semiautomatiche in cal. 308 di cui erano armati, e rimasero in attesa.
Orè e Virgì liberarono i cani. Zury, un segugio maschio italiano di tre anni,
era il capo muta e conosceva quei boschi a menadito per le innumerevoli volte
in cui vi aveva cacciato, seguito da Dik e gli altri due si lanciò naso a terra
alla ricerca di quell’odore che ben conosceva. Uno dei cani più giovani, Toby
in preda all’eccitazione si lasciò sfuggire un guaito. L’udito sensibilissimo
del Nero lo sentì, e subito scattò in piedi. Questo fu un errore, perché il suo
afrore arrivò alle narici di Zury, che latrando partì di gran carriera, seguito
dall’intera muta in piena canizza. ”Dai, dai” li incitava Virgì, seguito da Orè
che urlava “attenti alle poste!” Intanto Francè, si precipitava alla sua desta
scendendo verso il basso urlando ”vai, vai” e sparando in aria, per evitare che
il cinghiale tagliasse il monte diagonalmente, anziché dirigersi verso le poste
piazzate nel canalone. Il Nero, dapprima aveva tentato di difendersi dagli
attacchi della muta, caricandoli e sgrugnando violentemente, ma i cani si
ritraevano di colpo per poi tornare all’attacco, dopo un’ultima inutile carica,
partì verso il canalone seguito dalla muta latrante. Il cinghiale volava
letteralmente lungo la china del monte, forando macchie spinose, e cespugli,
come fossero paraventi di carta, il rumore che faceva era paragonabile a quello
di un autocarro quando scarica con la ribalta un carico di mattoni. Romeo era
considerato il “cecchino,” della squadra, e sotto i suoi colpi erano già
diventati salsicce sei cinghiali. Il Nero si stava dirigendo proprio verso la sua
posta, era spacciato! Sentendo i colpi dello scaccino, le urla e la canizza,
Romeo con calma olimpica, dopo aver acceso l’ottica a Punto Rosso, aveva
imbracciato la carabina, puntandola verso il piccolo guado seminascosto nella
fitta macchia dove immaginava sarebbe passato l’animale, e ora aspettava con calma
il bersaglio. Il cinghiale arrivò alla velocità di un treno merci, lungo quasi
due metri si distendeva completamente nella corsa, filando a oltre quaranta
all’ora, Romeo lo vide, e il punto rosso si spostò di colpo nel mezzo della
fronte del gigante che stava arrivando. Fu un secondo, proprio nell’attimo in
cui Romeo premeva il grilletto, il Nero scartò improvvisamente di lato per
caricare Zury che gli correva accanto. La grossa palla blindata a naso molle, passò
miagolando a un centimetro dalla testa del colosso, per poi disintegrarsi con
uno sbuffo di polvere su una roccia affiorante. Il bestione si arrestò di colpo,
si piegò di lato e tornò al coperto nel bosco, per poi fuggire sulla sinistra
sguarnita. Anche questa volta il Nero, con un pizzico di fortuna, li aveva
fregati! La Natura, ancora una volta aveva vinto contro la tecnologia.
Mario Volpi 19.2.22
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