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Sezione a cura di Mario Volpi
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Pescatori estivi

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Le "nostre estati" di sessant'anni fa erano molto diverse da quelle odierne, ma per certi versi assai più divertenti!

Quando ero bambino, il periodo estivo, era atteso con trepidazione, e questo per due motivi validissimi, il primo, e il più importante, era che l’odiata scuola era finita, e il secondo perché si poteva finalmente dare inizio alla “pesca estiva.” I preparativi cominciavano mesi prima, con il taglio della canna d’india, che sarebbe diventata la canna da pesca. Prima era necessario procurarsi da qualche “stagnin” (idraulico) un pezzo di tubo lungo un palmo, e dal diametro congruo, che sarebbe diventato l’innesto dei due pezzi della canna. Era fondamentale trovare una canna con il diametro il più possibile vicino al pezzo di tubo. Trovata, la canna adatta veniva accuratamente privata dei rami e posta a seccare sul tetto della stalla o del fienile. Quando era giudicata pronta veniva tagliata in due, e si passava a fissare il famoso pezzo di tubo che avrebbe permesso il suo facile montaggio. Il pezzo che doveva restare fisso, era incollato con il mastice, usato per riparare la camera d’aria della bicicletta, mentre il pezzo di canna che doveva essere incastrato nel tubo, era accuratamente lisciato usando lo spigolo tagliente di un coccio di vetro. Altro problema di difficile soluzione era trovare il filo di nylon, al tempo non così comune. Spesso si ovviava usando un robusto pezzo di spago per legare i salumi, e solo l’ultimo metro era in nylon. Il galleggiante era fatto con mezzo tappo di sughero, e un pezzo sottile di “torch, ” (salice) privato della scorza, mentre per l’amo eravamo costretti a fare una colletta e comprarne una decina da usare in collettività. I primi di maggio la nostra “stagione di pesca” poteva cominciare. Legate le canne sotto il “cannone” della bici si partiva, spesso anche in sei con tre bici. Il luogo preferito era “la piscina” come si chiamava al tempo quel pezzo di mare, a ridosso della diga foranea di levante, che arrivava fino alla foce del fiume Carrione. Le nostre prede preferite erano le “boghe, ” che al tempo erano facilissime da pescare, insidiandole con un’esca fatta di pezzi di cozze prese sugli stessi scogli. Ma pescavamo anche saraghi, salpe, ghiozzi, e se fortunati, qualche bella tracina, gustosa da mangiare ma pericolosa da maneggiare per via dei tre pungiglioni velenosi. Un’intera mattinata di pesca fruttava una decina di pesci, oltretutto di bassa qualità, ma per noi bambini era un bottino che ci riempiva di orgoglio. Quando eravamo più grandicelli, la nostra pesca preferita era quella delle cozze. Su un pezzo di lama di telaio di segheria usurata, e quindi scartata, si praticava con una lama da seghetto, e un’immensa fatica, una serie di denti, che poi provvedevamo con un martello a piegare leggermente in fuori.  Dopo averla torta o mo’ di cestino, si fissava un pezzo di rete metallica sul fondo, e si muniva questo cestino dentato di un lungo manico di canna d’india, poi si poteva cominciare la pesca. Al tempo non era proibita la raccolta dei mitili dagli scogli della diga foranea, o se lo era, nessuno di noi lo sapeva, e nessuno controllava. Quando giudicavamo che il pescato era sufficiente, per una “merenda,” si tornava a casa. Nell’aia si accendeva un fuoco, tra due sassi, e vi si poneva sopra una vecchia lamiera: quando cominciava a scaldare si gettava sopra di essa le cozze, che con un leggero sfrigolio si aprivano. Si mangiavano così, condite con un paio di limoni colti direttamente dalla pianta, in barba a Salmonella e Vibrioni vari. Altro sistema, più redditizio, ma che spesso comportava, il furto di tutta l’attrezzatura, era la posa delle nasse. Queste erano fatte artigianalmente costruite con un cestone di vimini, e la veste del collo di una damigiana con l’imbuto al contrario. Si riempivano di pane raffermo, e se disponibili, con teste di pesce, poi si gettavano legate a una cordicella dalla parte esterna della diga foranea. Quest’ operazione era effettuata di solito all’imbrunire, stando molto attenti che qualche ragazzo “Marinello” non ci vedesse, perché altrimenti il furto di nassa e pesce era assicurato. Per evitare i furti, avevamo escogitato il sistema di non mettere il galleggiante che ne segnava la posizione. Fissavamo la nassa a una cordicella di almeno cinque o sei metri, con il capo zavorrato da un grosso bullone. Al centro della corda, fissavamo un tappo di damigiana. La corda così si poneva orizzontale al fondo del mare, sollevata da essa quel tanto che bastava per il recupero effettuato pescandola, lanciando alla cieca, un rampino di filo di ferro legato a un’altra cordicella. Da adolescenti anche per fare colpo sulle ragazze, “bagnanti,” usavamo dalla spiaggia la sciabica. Questa era una lunga rete, che con l’ausilio di un “pattino” (pedalò) gettavamo dal bagnasciuga, e dopo un giro al largo ritornava sulla battigia, distanziando i due capi di circa cento metri. Con l’ausilio di una trentina di persone, la rete era trainata lentamente verso riva, cercando anche di chiuderla, fino a sovrapporre i due capi. Alcune pescate fortunate fruttavano anche trenta o quaranta chilogrammi di pesce, che poi consumavamo tutti insieme, cuocendolo direttamente su di un fuoco sulla spiaggia. Oggi, queste pratiche, oltre che vietate, non sarebbero neppure apprezzate dalla maggior parte dei ragazzi, nati nel mondo moderno, dove la manualità è scarsa, mentre l’igiene e le comodità, sono talmente comuni, da fargli credere che fossero presenti da sempre. Forse sarà a causa del ricordo di quel tempo ormai lontano, ma vi posso assicurare, che un semplice cefalo, appena pescato e arrostito sulla spiaggia, gustato con le mani, magari non perfettamente pulite, ha un sapore che neppure il più grande chef del mondo potrà mai eguagliare.
Mario Volpi 20.8.22
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