Da Felì
Cara Redazione
Oggi molti acquisti si fanno in Rete, un po per moda, un po ,per un vero, o presunto risparmio. Lasciando perdere le sempre più frequenti truffe che colpiscono gli acquirenti spesso incauti o ingenui, così facendo si va a distruggere completamente quella rete secolare di piccoli commerci tipica della nostra gente. Un tempo tra il commerciante, o l'artigiano, e il consumatore, si instaurava un rapporto che andava al di la di quello tra venditore e compratore, e che spesso comprendeva un articolo oggi quasi scomparso: la solidarietà.
Alcuni giorni fa mi sono trovato a passare, non ne ricordo neppure più il motivo, per la strada del quartiere, dove sono nato, e con mia grande sorpresa, ho visto un gigantesco escavatore, demolire la casa di Felì il calzolaio. Devo dire che quella casa era fatiscente e abbandonata da tempo, perché il proprietario era morto nei primi anni settanta, ma nonostante ciò ho provato una sensazione tra il dolore e la nostalgia. Quella casa, non aveva nulla di particolare, non era di rilevanza storica, com’era un uomo comune il suo proprietario ma...
Fin da quando ho avuto la ragione, Felì è sempre stato un punto fermo, nella vita del mio rione. Felice, era il suo nome di battesimo, che in dialetto carrarino divenne Felì, non ho mai saputo il suo cognome, né il nome della moglie, morta di parto insieme al figlio neonato, dopo appena un anno dal loro matrimonio. I vecchi raccontavano che, anche se zoppo, a causa della poliomelite che lo aveva colpito da bambino, Felì da giovane era stato un bel giovanotto, alto, biondo, con gli occhi azzurri, sembrava un attore, e non il figlio di un calzolaio qual era. Suo padre gli insegnò il mestiere, e lo forzò a fare il calzolaio, perché diceva in dialetto, “che avrebbe avuto il pane assicurato, perché tutti gli uomini avrebbero sempre avuto bisogno delle scarpe, e poi così avrebbe potuto lavorare da seduto”.
Felì lo aveva preso alla lettera. Era sempre “al pezzo” come diceva lui, in quella bottega situata nel fondo sotto casa sua. Sia d’estate sia d’inverno, compreso le domeniche, lo si poteva trovare, sempre con la porta rigorosamente spalancata sulla strada, seduto al suo basso tavolinetto, intento a cucire o risuolare scarpe, così malconce che oggi si faticherebbe a trovarle perfino in una discarica, ma che al tempo erano la norma. Il suo lavoro però, non si limitava a questo, costruiva anche gli zoccoli, e faceva anche il sellaio. Era l’equivalente di una stazione di servizio moderna, anche se nella maggior parte dei suoi interventi si limitava a raggiuntare un paio di briglie rotte, o a rifare un pettorale spezzato, o il sottopancia di un basto strappato. Io al tempo ero molto piccolo, e ricordo che la madre di un mio compagno di giochi, appena più grande di me, mandava spesso il figlio “da Felì” a prelevare i “regalini” che i cavalli e i muli lasciavano, quando erano legati fuori dalla porta ad aspettare il proprio turno, per usarli come concime, così io spesso lo seguivo e mi fermavo sulla porta a vederlo lavorare. Rimanevo incantato dalla sua velocità con la lesina, e dalla sua abilità con il lungo ago per cucire, o a prendere i chiodi che teneva in bocca, prima di piantarli nella suola di una scarpa, infilata in una forma di ferro che teneva stretta tra le gambe. Era già molto anziano, o almeno a me pareva tale, il viso era rugoso, anche se sempre sorridente, e dei suoi biondi capelli ne erano rimasti pochissimi, ormai completamente bianchi, solo gli occhi erano ancora vivaci, e non acquosi e spenti come quelli dei vecchi. Un giorno d’estate, mentre come al solito ero sulla porta a guardarlo lavorare, mi chiese con un sorriso se gli potessi riempire d’acqua fresca il fiasco che teneva vicino al deschetto. Una volta quando un anziano ordinava qualcosa a un ragazzo non ci si pensava due volte a eseguire, così io non solo riempì il fiasco alla fontana quella volta, ma spesso lo facevo di mia iniziativa. Andare scalzi in estate era la regola per noi bambini, e io non facevo certo eccezione, ma un pomeriggio, Felì mi chiamò, e dopo avermi guardato i piedi prese una forma di legno dallo scaffale posto dietro di lui mi disse in dialetto” ti piacciono di più gli indiani o i cow boy?” Io naturalmente gli risposi che parteggiavo per questi ultimi, al che lui fece una risatina e mi disse di tornare l’indomani. Nella mia ingenuità infantile non capii le sue intenzioni, e l’indomani mi scordai di passare dalla bottega. Lo feci alcuni giorni dopo, e lui quando mi vide mi chiamò, e mi disse sempre in dialetto” questi sono per te” e mi porse un paio di zoccoli che non immaginavo neppure che potessero esistere. Erano verniciati di marrone scuro, con la pelle della tomaia color camoscio tutta a frange, fissata con una fila di chiodi dorati dalla testa grossa, una stella di pelle nera, con un rivetto argentato sulla fiocca della tomaia completava quel capolavoro. Io rimasi letteralmente senza parole, li presi e senza neppure ringraziare, corsi a casa a farli vedere a mia madre, che andò di corsa da Felì, credendo che li avessi magari rubati. Al tempo non si andava spesso a comprare le scarpe, solo i cavatori vi si recavano con un “bono” come si diceva una volta, rilasciato dal padrone della ditta, che permetteva loro di pagare solo la metà, un paio di scarponi da lavoro. Ma prima di indossarli si portavano da Felì che provvedeva a fornirli di parecchie file di chiodi a testa grossa sulla suola, per limitarne il consumo, rinforzava dove possibile le cuciture, ma soprattutto vi passava una bella mano di “sunza” (sugna) per renderli impermeabili. Per tutto ciò che comportava il cuoio o la pelle, il riferimento della borgata era unico: “va da Felì!” Per i pagamenti non c’erano problemi, si assisteva spesso al via vai di gente che entrava nella bottega, con piatti e canestri, portando frutta di stagione, come le gustose fiorone, o salumi e salsicce al tempo dell’uccisione del maiale, oppure pane appena sfornato, vino, e perfino olio. Lui a tutti diceva “ti nà p’r te?” (ne hai per te) quindi dopo la risposta affermativa, ringraziava con un sorriso. Ora di tutto questo non vi è più traccia, se non nella mia memoria.
Per questo ho voluto mettere per iscritto questo mio ricordo, con la segreta speranza che qualcuno delle nuove generazioni, lo legga, e possa apprezzare, l’altruismo, e la generosità di un cosiddetto “uomo comune”, in quei tempi duri, dove, queste virtù, spesso rappresentavano per molte persone, la differenza tra una vita, appena dignitosa, o la miseria più nera.
Volpi Mario
22 luglio 2014