E fu la luce
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Molte persone credono che gli agi e le comodità di
oggi siano sempre esistite, e non pensano che meno di settanta anni fa....
Quando racconto questa storia, spesso i miei interlocutori, specialmente i più piccoli, mi guardano in modo strano, come di solito si guarda chi ci sta raccontando, come si dice in dialetto ” na bala” (una bugia.) In effetti per le nuove generazioni, è difficile pensare che meno di settanta anni fa, solo una piccolissima parte della popolazione italiana usufruisse della corrente elettrica. Io ero molto piccolo, quando ho assistito all’accensione della lampadina nell’immensa cucina della fattoria dove vivevo. I preparativi per questo evento eccezionale però, andarono avanti per mesi, tra lo scetticismo dei nonni e delle nonne, molto arrabbiati per quei grossi camion che entravano nel podere, carichi di lunghi pali di legno, e quel tipo vestito in “mutatura,” che dopo aver guardato in una specie di binocolo su un treppiede, decideva dove piantarlo, infischiandosene di non schiacciare l’erba medica. La linea elettrica principale, costeggiava il Viale XX Settembre, quindi si dovette creare una nuova linea per servire il piccolo borgo dove abitavo. La C.I.E.L.I, così al tempo si chiamava la Compagnia Elettrica che serviva la nostra zona, portava la corrente solo fino all’aia del borgo, era poi compito degli abitanti chiamare un elettricista per fare i lavori in casa. E qui, ciò che succedeva, oggi sarebbe da denuncia, ma al tempo era più che normale. Gli operai della Compagnia, infatti, erano gli stessi che “sopra sera” ossia quando smettevano di lavorare, oltre ai sabati e nelle domeniche, facevano il lavoro nelle case private. Al tempo, trovare un elettricista non era semplice, perché oltre che pochissimi, erano ammantati da un alone di diffidenza, perché la gente, non capendo appieno cosa facessero, credeva che il loro compenso sarebbe stato esorbitante. Gli operai della Compagnia invece, si accontentavano spesso del vitto, e di qualche bene in natura, come olio, farina, polli o conigli, e in più molto spesso, portavano anche un pò di cavo elettrico, proveniente da scarti di lavorazione della giornata. Il vantaggio era che il lavoro era fatto a regola d’arte, o almeno con gli standard voluti dalla Compagnia. Si cominciava con il murare su una facciata della casa colonica da illuminare, due grossi isolatori di vetro o ceramica, che avevano il compito di sostenere i due cavi di rame nudo che arrivavano dal palo più vicino. Da qui, da un foro fatto a scalpello attraverso il muro, si faceva passare un pezzo di cavo isolato fino all’interno della casa, dove, dopo aver assicurato al muro una tavola quadrata in legno, su questa era fissato il contatore. Questo marchingegno era talmente enorme da essere quasi inquietante. Era composto di una scatola di metallo nero, con una finestrella sul davanti, protetta da un vetro, dove si poteva scorgere un numeratore, e un disco di alluminio posto in orizzontale, con una tacca verniciata di rosso, che quando vi era consumo di corrente girava. Subito sotto il contatore, troneggiava la “valvola.” Questa era l’inizio dell’impianto elettrico domestico. Era costituita di una piccola scatoletta in ceramica, che al suo interno aveva quattro morsetti a vite sormontati da delle linguette in ottone che formavano come delle piccole molle, il coperchio, sempre in ceramica aveva gli stessi morsetti, ma le linguette erano “maschi” che s’inserivano a pressione su quelle sottostanti. Tra i morsetti era inserito un piccolissimo filo di piombo, che al minimo sovraccarico, fondeva, togliendo così la corrente. Questo rudimentale salvavita, era spesso manomesso, sostituendo il piombo con un filo in rame, per evitare, specialmente la sera, di restare improvvisamente al buio, manomissione che ha provocato negli anni numerosi incidenti anche mortali. Dalla valvola partiva la “piattina” verso il centro della stanza, dove era messo il “lampadario” ossia la nuda lampadina attaccata al filo penzoloni. Questo conduttore, messo rigorosamente all’esterno delle mura, era costituito da due fili posti in piatto, con un piccolo spazio tra loro, isolati con celluloide di colore bianco, dove era piantato il chiodino per tenerlo ancorato o al muro, o alle travature il legno. Spesso per qualche motivo il chiodino toccava uno dei due conduttori, regalando una piccola scarica a chi lo toccava o rischiando qualche corto circuito. Una derivazione, ottenuta aggiuntando un altro pezzo dello stesso filo fasciato con nastro telato isolante, andava fissata a uno stipite della porta, dove un enorme interruttore in ceramica con un nottolino girevole permetteva l’accensione. Al tempo la tensione era di 125 V. portata poi dopo qualche decennio a 220V. per trasportare più energia con lo stesso diametro dei conduttori. Sembrerà impossibile ma per molto tempo, in parecchi “impianti” di case private, erano totalmente assenti le prese, perché non vi era alcun apparecchio elettrico da collegarvi. Prima che l’elettricista mostrasse come funzionava l’interruttore, la nonna pensava che la lampadina dovesse essere accesa con il fiammifero come la lampada a carburo che aveva prima. Nella stanza da letto invece, la piattina era sostituita da un “elegante” filo dorato intrecciato, fissato a dei piccoli isolatori inchiodati sulle travature del tetto, prima di scendere al centro per sorreggere, oltre alla lampadina, un piccolo piatto di vetro rosa. Frequentavo la quinta elementare, quando in una sera primaverile, mezza Carrara si riversò sul Viale XX Settembre per assistere alla prima accensione della nuova illuminazione a “vapori di mercurio” che andava a sostituire le ormai inefficienti e singole lampadine a incandescenza che tentavano di illuminare le notti del tempo. Non potrò mai dimenticare il rombo dell’”Hooo” di meraviglia scaturito da mille bocche, quando la bianca luce inondò il viale gremito di gente. Quella notte per molti carrarini si aprì veramente una nuova Era, cancellando per sempre l’oscurità della notte nei luoghi pubblici, e finalmente … fu la luce!
Mario Volpi
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