Sapori perduti
Spetta/Le Redazione
4 nov 2013
Purtroppo anche in Italia sta prendendo sempre più piede la moda del Fast Food, con i suoi "cibi spazzatura" che tanti danni hanno già fatto nei paesi che gli hanno adottati prima di noi. Così la nostra cucina tradizionale, e la copiatissima dieta mediterranea fanno a farsi benedire, in nome di una globalizzazione selvaggia, e senza senso che livella tutto, al gradino più basso.
La televisione ha scoperto che la gastronomia porta ascolti, così non vi è canale che non trasmetta ricette, a volte anche bizzarre, proposte da cuochi improvvisati, o più o meno famosi.
La globalizzazione poi, complice una pubblicità martellante, ha esteso anche da noi i suoi nefandi effetti, così che le nuove generazioni non si scandalizzano più, di mangiare un pollo cotto in un sacchetto di plastica, o un panino con all’interno una “pressatina” di carne, dalla provenienza misteriosa, chiamata con un nome inglese.
Così, ricette antichissime, sono destinate a cadere nell’oblio.
Queste pietanze erano fatte con prodotti semplici, spesso addirittura riciclati, ma che la sapienza e l’esperienza millenaria di generazioni di massaie, trasformava in veri e propri manicaretti. Io non sono un cuoco, e non vi elencherò i loro ingredienti, mi limiterò a ricordare quelle pietanze ormai quasi scomparse, o relegate a “curiosità”, e fatte pagare a peso d’oro, da qualche ristorante alla moda. Prima di tutto bisogna sapere, che senza stare a scomodare il Medioevo, solo fino a circa settanta anni fa, la dieta della popolazione Carrarina era monotematica, fortemente influenzata dalla stagionalità dei prodotti, e solo nelle feste comandate, o in occasioni particolari, la dieta giornaliera veniva variata, allietata da queste pietanze, a tutti gli effetti giudicate delle vere e proprie leccornìe.
Cominciamo con l’alimento per eccellenza; il pane.
Questo era fatto prevalentemente in casa, con grano tenero, macinato in mulini a pietra che producevano una farina integrale di buona qualità. I formati erano solo due; il filone, e la pagnotta. Il pane per evidenti ragioni, veniva fatto circa due volte al mese, va da se che gli ultimi giorni, specialmente nel periodo estivo aveva la consistenza di un pezzo di legno, pressoché immangiabile.
Ecco allora scattare il riciclo, trasformando un prodotto quasi da buttare, in un gustoso manicaretto. Il pancotto, ottenuto da pane raffermo brodo e cipolla, è ancora oggi la mia zuppa preferita. Ricordo ancora con nostalgia le merende con il dolce di pane, fatto con il pane raffermo, impastato con pinoli, noci e nocciole tritate, e nel periodo Pre-Natalizio, con qualche chicco di uva sultanina. Erano gustosissime anche la “zupa del Bambin” (zuppa del Bambino) e la panzanella. La prima si mangiava la vigilia di Natale, con pane raffermo bollito insieme e tutte le verdure che ancora resistevano nell’orto, o in dispensa come, cavolo verza, patate, fagioli, sedano e cipolla, mentre la seconda era il piatto tipico estivo, fatta con pane raffermo, olio d’oliva, acqua, aceto, pomodori, origano, cipolla, e qualche foglia di basilico. Ma la ricetta più “salutare” era l’acqua pannata. Quando si aveva la febbre la mamma arrostiva il pane raffermo lo faceva ammollare in acqua per qualche ora poi lo filtrava e ci faceva bere l’acqua, devo dire che stranamente funzionava. Tutti noi conosciamo la polenta, bianca o gialla, che ha sfamato intere generazioni delle nostre genti, ma pochi conoscono la variante detta in dialetto”polenta ‘ncat’nata” (polenta incatenata). Questa veniva fatta all’inizio della primavera, quando cominciavano a nascere i primi “erbi” (erbette spontanee). Si facevano bollire ”zinestredi, castracan, rapo’nz’li, pori, f’noc selvatch, radic e fasulin da d’och” (nomi dialettali di erbe spontanee) tutti insieme, e nella loro acqua si faceva cuocere della farina bianca fino a raggiungere la consistenza di una polentina, si serviva caldissima con un filo d’olio a crudo. Un tempo molti contadini, con appezzamenti di terreno in collina, o in luoghi siccitosi, coltivavano i ceci, perché oltre ad adattarsi bene a quelle condizioni climatiche, potevano essere consumati, a differenza del mais, anche in chicchi. Se chiudo gli occhi risento ancora il sapore della gustosa pasta ai ceci, fatta con “i stingon fati ‘n ca” (tagliatelle fatte in casa) di mia madre. Con la farina di ceci si faceva, e si fa tutt’ora la gustosa “calda,calda” che a Livorno chiamano “cecina” tipica della nostra zona. Sono invece quasi scomparse le Panizze, una torta di ceci che, lasciata raffreddare, si tagliava a fette prima di essere fritta, una vera e propria delizia.
I nostri paesi a monte, un tempo erano grandi produttori di castagne, che dopo essere state seccate nel “caniz” (metato), venivano macinate per fare la farina dolce. Nei miei ricordi di bambino vi sono ancore ben vive le serate passate dai parenti a Pulica. Davanti al forno casalingo, mia madre aiutava la padrona di casa a infornare le pattone, dopo aver posto l’impasto semiliquido su una base di una, o due, foglie di castagno. Quando venivano estratte calde e fumanti, mio padre vi metteva sopra una cucchiaiata di ricotta, prima di chiuderle e mezzaluna, una vera delizia. La vigilia della Befana invece era dedicato ai Testaroli. Su i“testi”(dischi piatti con manico) di ghisa scaldati sul camino, mia madre passava una mezza patata cruda intinta nell’olio, poi vi versava l’impasto di farina di grano, acqua, e sale, dopo pochi minuti il testarolo era pronto, e noi che aspettavamo con trepidazione, potevamo mangiarlo, condito con olio e formaggio grattato, o con il pesto verde. Era deliziosa anche la torta di castagnaccio, con pinoli e uvetta sultanina, oggi purtroppo introvabile. Le castagne si prestavano ad altre delizie quasi scomparse, o relegate a costosissimi cibi da strada, Tipico esempio sono le caldarroste; un tempo sancivano l’inizio dell’inverno, e venivano servite spessissimo come cena serale. Rigorosamente cotte con una vecchia padella forata attaccata alla catena del camino, necessitavano di una fiamma viva, possibilmente di legna di cerro, perche quasi senza fumo. La cottura delle stesse era simile a un rito, e aspettava al capo famiglia, quando si avvicinava il momento di levarle da fuoco, per “smorzare”, eventuali braci e dargli più sapore, il babbo prendeva una grossa boccata di vinella novella, e la spruzzava direttamente con la bocca sulle castagne, prima di avvolgerle per qualche minuto in un “bucarol”,(strofinaccio da cucina) e strofinandole per levar loro la scorza. Anche i “badoti” (le ballotte) erano diffusissimi, e usati spesso come cena. Sono invece pressoché scomparsi i “borgadei” (castagne bollite senza la buccia) forse perché pur essendo deliziosi la loro preparazione è molto laboriosa. Durante le vendemmie invece, per gratificare chi veniva ad aiutare il contadino, assolutamente gratis, la massaia preparava il famosissimo “polenta e stocafiss” (polenta e stoccafisso). Questo pesce era secco, e necessitava di un lungo periodo di ammollo in acqua, meglio se corrente. Ma questo procedimento spesso, anche per ragioni di tempo, non era possibile, così si faceva “pista e coza” (picchia e cuoci) pestando vigorosamente con un legno di castagno il pesce fino a sfibrarlo per poi cuocerlo. Il “bacalà ‘nmarinat”(baccalà marinato) era pressoché onnipresente nelle cantine, perché, si conservava per lungo tempo, e facilitava negli avventori la voglia del “bicer d vin” (bicchiere di vino) aumentando così i guadagni dell’oste. Per matrimonio cresime o comunioni, o per feste del patrono, era d’obbligo la “torta d ris” (torta di riso) dolce o salata a secondo delle località. Altre specialità, come “le lumache, i arnoc’li friti, o le aciughe sot’oli” (lumache, ranocchi fritti, e acciughe sott’olio) oggi sono scomparse, o prodotte in modo industriale, negando così, alle nuove generazione la conoscenza di gusti, che ignoreranno per sempre.
Volpi Mario