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Sezione a cura di Mario Volpi
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Selvaggi da povertà

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Questa  situazione economica rischia di diventare mortale più del virus.  Sopratutto perchè la Società moderna ha perduto per sempre le abilità  che avevano i nostri nonni nell'arte del sopravvivere in povertà, con  azioni quasi da selvaggi.

La profonda crisi economica che si delinea all’orizzonte a causa della pandemia da coronavirus, rischia di assomigliare moltissimo a quella vissuta dagli italiani negli anni cinquanta, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Questa però, sarebbe ancora più devastante, perché la popolazione odierna non è “allenata” alla miseria, e quindi non sarebbe in grado di trarre sostentamento dalla Natura come si faceva una volta. Al tempo l’ambiente era letteralmente saccheggiato, spremuto come un limone, per trarne il massimo dei benefici, con azioni che oggi oltre che vietate per legge, sarebbero moralmente inaccettabili, ma che a quei tempi erano considerate normali. Tutta la famiglia, ognuno in base alle proprie capacità, era chiamato ad apportare il suo aiuto economico, magari anche piccolo, ma che unito a quello degli altri, faceva la differenza. Così ai bambini erano assegnati compiti che per loro erano quasi un gioco, ma che potevano portare un valido aiuto alla famiglia, come ad esempio l’allevamento della Camola, o tarma della farina. Vedremo poi a cosa servivano queste larve, ma prima spiegherò come avveniva l’allevamento. Ci si procurava un barattolo della conserva di pomodoro vuoto da cinque litri, o qualsiasi altro contenitore abbastanza capiente, poi si riempiva per un po’ più della meta, con carta gialla spiegazzata e compressa, crusca, tutoli di granoturco, e quando possibile un poco di farina gialla o bianca, il tipo non aveva importanza. Poi ci si faceva dare da qualche amico una ventina di queste larve, e si mettevano dentro il barattolo che si portava in casa, o in un posto riparato dalla luce e dal calore. Il barattolo era chiuso da un foglio di giornale bucherellato per impedire eventuali fughe. Il tutto era dimenticato per mesi, fino alla primavera o autunno successivi, quando si andava a fare la raccolta. La tarma della farina ha un ciclo vitale di quattro fasi, che comprende uova, larva, pupa, poi l’adulto che si accoppia, depone le uova e il ciclo ricomincia. La Camola è una vera e propria macchina divora tutto, mangia qualsiasi cosa, e depone un numero impressionante di uova, era perciò l’ideale per chi come noi, doveva trarre il massimo profitto con la minima spesa. Quando era il momento del “raccolto”, prendevo in prestito il catino di terracotta della mamma e il suo setaccio. Quindi, mettevo il contenuto del barattolo nel setaccio e scuotevo. Le feci e le uova cadevano nel catino, mentre le larve, le pupe, e gli adulti restavano in bella vista. Anche qui si faceva una cernita. Siccome gli adulti sono facilmente distinguibili, si tenevano tutte le femmine e pochi maschi, perché questi si mangiano tra di loro per avere il diritto alle femmine. Così mettevo in un barattolo più piccolo le larve, mentre il resto degli adulti, pupe, e qualche larva, la rimettevo nel grosso contenitore dove avevo rinnovato il substrato. Le larve così ottenute erano un piccolo tesoro, perché si potevano vendere, anche per cinquanta lire l’etto al “Consorzio Agrario” una specie d’emporio nato per sostenere le attività agricole semidistrutte dalla guerra. Erano molto richieste come esche per pescare, o per dare in pasto agli uccelli canterini o da richiamo, ma soprattutto servivano a noi per un’azione che oggi io stesso giudico vile, ma che a quel tempo era normale; tendere le trappole agli uccelli. Anche a quel tempo esisteva la caccia, anche se i fucili nati per questo scopo come le doppiette, erano pochi, perché requisiti durante la guerra. La maggior parte erano improvvisati, ricavati dalla tornitura artigianale dei moschetti Mauser lasciati dai tedeschi in ritirata, che diventavano carabine a un colpo in calibro trentasei. Per ovviare alla scarsa potenza di queste armi autarchiche, ma soprattutto per lesinare sulle cartucce, giudicate un bene prezioso, i cacciatori del tempo facevano largo uso del capanno. Per attirare gli uccelli, e farli posare sulla “frasca,” ossia un ramo d’albero messo vicino al nascondiglio, e sparare così quasi a colpo sicuro, erano necessari i richiami vivi, ed era qui che entravamo in scena noi bambini. Nel mese di ottobre, o in primavera, si partiva con il barattolo delle Camole, e un mazzo di trappole per uccelli, anche quelle autarchiche, fatte con fil di ferro e acciaio armonico dai nostri padri. Piazzavamo le trappole nel sottobosco, in prossimità delle siepi di “peri cotti” come noi chiamavamo un tipo di bacca rossa che attirava tordi e merli. Avevamo però l’accortezza di fissare due pezzi di bastoncino sulla tagliola in modo che non potesse chiudersi completamente, salvando così la vita allo sventurato uccello. Dopo aver piazzato la trappola, la legavamo con un crine di cavallo a un piccolo picchetto piantato al suolo in modo che l’uccello prigioniero non potesse portarla via, poi si metteva la Camola viva in uno speciale gancetto fatto a pinzetta per farla contorcere continuamente, infine, delicatamente si ricopriva il tutto con alcune foglie. La camola così esposta, nelle fredde giornate autunnali, o in primavera era un richiamo troppo forte per ogni tipo di uccello. Ma proprio qui era la crudeltà. Noi tenevamo vivi solo gli uccelli destinati a diventare richiami, come tordi, merli, fringuelli, e peppole, che poi vendevamo al solito Consorzio, mentre capinere, pettirossi, e una vasta gamma di altri insettivori, si trasformavano in un gustoso contorno da abbinare alla polenta. Stessa sorte era destinata ai nidiacei della battuta primaverile sul tetto della fattoria, dove centinaia di passerotti finivano la loro breve esistenza in casseruola. Un’altra strage di passerotti avveniva i primi giorni di autunno, proprio lungo il Viale XX Settembre, ma questa era fatta dagli adulti. Quando arrivava l’autunno, gli uccelli per ripararsi dai primi freddi, si radunavano a migliaia per il riposo notturno sugli altissimi Platani che a quel tempo ombreggiavano il Viale. Quando le tenebre erano fitte, decine di persone con gli “scaldini” pieni di braci fissati a lunghe pertiche si radunavano sotto di essi, e a un segnale gettavano grosse manciate di zolfo nelle braci ardenti, alzando poi verso i rami più alti gli improvvisati braccieri. Il fumo tossico provocava una vera e propria pioggia di uccelli, mezzi asfissiati, che mani impietose arraffavano e infilavano nei sacchi, dove avveniva la morte per schiacciamento. La polenta collettiva era la ricompensa di questa caccia stagionale. In primavera poi vi era un’altra pratica che per noi bambini era poco più di un gioco, ma che era sicuramente deleterio pe l’ambiente. Si andava “per nidi, ” e anche qui si faceva una cernita, Averle, e Passeri erano destinati alla polenta, mentre Cardellini, Prispole e altri uccelli canori, si tentava di allevarli a mano, tentativi che solo uno su tre riusciva, per vendere l’uccello canterino al solito Consorzio, magari proprio per cinque kilogrammi di crusca, necessaria per fare un nuovo allevamento di camole.

02.04.2020 Mario Volpi
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