Autunno
Spetta/le Redazione
Sempre più spesso quando vengo chiamato nelle scuole a raccontare dei tempi andati, i ragazzi mi guardano come se stessi raccontando loro una favola, o peggio ancora come fossi colpito da un attacco fulminate di demenza senile, da tanto questi fatti sono lontani dal loro vivere quotidiano. Al contrario io mi sento un privilegiato, per aver vissuto gli ultimi scampoli di un mondo perduto, duro, aspro, ma sicuramente più a misura di bambino.
Volpi Mario
10 11 2012
Autunno: una stagione perduta
Nel nostro mondo, industriale e globalizzato, le stagioni hanno scarsa importanza. Ci si accorge di loro solo perche cambia il modo di vestirsi, anche questo, aimè, condizionato più dalla moda del momento, che dal clima. Oggi il periodo dell’anno più amato è senza dubbio quello estivo, portatore di riposo e di vacanze, spesso in posti esotici dall’altra parte del mondo, ma un tempo, e sto parlando degli anni cinquanta, il periodo più atteso era certamente l’autunno. Era in autunno che a Carrara, e nei paesi limitrofi, un tempo prevalentemente agricoli, si raccoglievano i frutti di un intero anno di fatiche e sacrifici. Si cominciava con la vendemmia che, secondo le zone, iniziava a metà settembre per proseguire fino alla fine di ottobre. Quest’ avvenimento era, in quel mondo rurale, un vero e proprio volano, che metteva in moto un’economia piccola ma vitale per una miriade di famiglie. Lavoravano così a tempo pieno i “omi e le done ‘n zornata” (gli uomini e le donne a giornata) impiegati a staccare, selezionare, e a portare l’uva dai vigneti alle cantine, i mulattieri, e per finire i barocciai. La vendemmia era caratterizzata da dei veri e propri riti, ormai codificati, tanto da essere considerati essenziali per la sua esecuzione. Uno di questi era il pagamento dei partecipanti; mentre quelli a giornata erano pagati con la moneta corrente, gli “aiutanti” occasionali lo erano con i “rizzoli” (grappoli di uva pregiata staccati con un pezzo del proprio tralcio) che messi a passire appesi alle travi del soffitto, sarebbero stati consumati come dolce nel periodo Natalizio. Era però compreso per tutti i partecipanti, il pranzo a carico del padrone del fondo, di solito composto da polenta e stoccafisso, annaffiato dall’ultimo vino dell’anno. Spesso questo era annacquato dal fattore, che non voleva che nelle ore pomeridiane qualcuno si addormentasse nelle ”piane” (terrazzamenti) in preda ai fumi dell’alcool.
Dai primi di ottobre il lavoro si spostava verso Fontia e Monteverde. Sui loro dolci declivi, colorati di un verde argenteo, cominciava la raccolta delle olive. Qui la manodopera era costituita in maggioranza da donne, che piegate a gamba tesa, in un innaturale angolo di novanta gradi, raccoglievano le olive dal terreno per metterle in una specie di marsupio ricavato dal grembiule. Questo lavoro, al contrario delle apparenze, era molto duro, in primo luogo per l’asperità dei terreni, che le costringevano a lunghe camminate in salita per raggiungerli, e non ultimo per il freddo, che spesso faceva diventare le dita “gronce” (intorpidite). Gli ulivi, spesso secolari, erano al tempo mantenuti molto alti, così si era formato una sorta di piccolo esercito di specialisti della battitura. Questi agili giovanotti, con l’ausilio di lunghe scale, si arrampicavano fino ad altezze vertiginose, percuotendo i rami con canne di bambù per fare cadere le olive. Il pagamento delle persone impegnate nella raccolta delle olive, avveniva in olio, perché, tolto il consumo personale era possibile rivenderlo a terze persone, ma sopratutto perchè da sempre, nella cultura contadina, questo alimento era considerato molto prezioso, quasi sacro. Non a caso nella religione Cristiana l’olio d’oliva accompagna il fedele dal Battesimo, all’Estrema Unzione, ma era usato anche in alcuni riti sciamanici antichissimi, come per esempio quello di “segnare la paura.” La raccolta delle olive, era usata dalla maggior parte dei proprietari terrieri, anche come un modo per fare beneficenza. Questo avveniva con la concessione, di solito accordata a vedove, o a famiglie molto indigenti, del permesso “d rast’dar” (di rastrellare) dopo il raccolto, alla ricerca di qualche oliva sfuggita alle raccoglitrici.
Ma quello che a me piaceva di più era senza dubbio la raccolta delle castagne. Questa cominciava a metà di ottobre, e durava fino alla fine di novembre. I miei genitori avevano dei parenti in quel di Pulica, e così durante il periodo della raccolta, io ero spesso con loro in mezzo al bosco. Ma mentre i grandi raccoglievano, e a dorso di mulo, trasportavano le castagne nel”canizz” (metato), io e gli altri bambini del paese scarrozzavamo nel bosco, alla ricerca dei dolcissimi “marmo’tli” ( corbezzoli) che con il loro rosso vivo, e giallo carico, rallegravano la monotonia del bosco, o delle gigantesche “porpode” ( fungo mazza di tamburo) che sarebbero state mangiate alla sera.
E’ proprio di quelle sere che ho un nostalgico ricordo! Dopo una gustosa cena a base di “badoti” e “borgadei” (castagne bollite, castagne bollite prive della scorza), salumi e formaggi, ci si riuniva tutti “a vegia ‘nt’el canizz” (a veglia nel metato). Alla luce tremolante di una vecchia lucerna a petrolio, seduti in cerchio attorno al piccolo fuoco che seccava le castagne nella stanza di sopra, i grandi parlavano dei fatti della giornata, mentre noi bambini restavamo incantati a sentire le storie dei vecchi, che si divertivano a terrorizzarci con racconti di streghe e di orchi, mentre le nonne sferruzzavano interminabili scialli. Le mamme facevano “le mu’ndine” (caldarroste) che noi mangiavamo avidamente, scottandoci spesso le dita, e arrostivano le porpode, per poi servircele condite con un filo d’olio d’oliva, un vero manicaretto da re. Gli occhi, resi lacrimosi dal fumo, diventavano sempre più pesanti, perché “al passav i pisani” (modo di dire dialettale per indicare la sonnolenza nei più piccoli) come dicevano i grandi sorridendo, e mentre fuori una gelida tramontana giocava ululando con le imposte sgangherate, noi cadevamo nelle braccia di Morfeo. Autunno!.. Ormai di questa splendida stagione non è rimasto che questo nostalgico e infantile ricordo.
Volpi Mario