Tecnologia
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Un tempo lo stagnin ossia l'idraulico, era un praticone, più
avezzo a montare canale di ferro zincato che impianti sanitari. Oggi, la
maggior parte di loro, è un professionista preparato con corsi
specifici addirittura dalle case costruttrici degli apparecchi che
andranno a montare. Ma nonostante questo salto tecnologico, la
"mala-politica" spesso invalida la loro sapienza artigianale.
Tecnologia … del tubo!
Fino alla fine degli anni cinquanta, la maggior parte della popolazione italiana, non aveva acqua potabile in casa, e men che meno i servizi igienici. Nella zona di Carrara poi, la situazione era disastrosa, completamente priva di una rete fognaria che potesse chiamarsi tale. Questo comportava un grosso handicap per lo sviluppo socio economico del Paese, ma soprattutto era un reale pericolo per la salute pubblica. Il tifo, era endemico, così com’erano molto frequenti le malattie gastroenteriche, causate dalle fognature a cielo aperto che inquinavano le falde acquifere dei pozzi. Con il boom economico degli anni sessanta tutto cambiò, quasi di colpo. I Comuni, cominciarono la costruzione delle prime reti di distribuzione dell’acqua. Queste avvenivano interrando grossi tubi in ghisa, ricoperti all’esterno di un rivestimento bitumoso, lungo le strade a forte concentrazione abitativa, per diramarsi poi in tubi di acciaio più piccoli, verso le abitazioni. Vennero anche costruite le prime fogne sotterranee, con tubi in cemento precompresso, o in Eternit, materiale a quel tempo innovativo, ma che avrebbe dato nel futuro. grossi problemi, dove ogni abitazione privata poteva allacciare il proprio impianto di scarico. In quegli anni si assistette a un vero e proprio boom edilizio, sia di case private, sia di abitazioni popolari. Era necessario che ogni casa avesse un impianto idrico moderno, sia di carico sia di scarico. Fecero così la loro apparizione dei tubi di acciaio zincato, lunghi sei metri, che ‘l stagnin (l’idraulico) con una attrezzatura al tempo all’avanguardia, costituita da un cavalletto a tre piedi, e una serie di filiere, poteva installare. I tubi erano disponibili in diversi diametri, ma per una vecchia convenzione internazionale la misura era espressa in pollici. La loro messa in opera era alquanto laboriosa, dopo avere tagliato il tubo della lunghezza necessaria, l’idraulico lo fissava in un’apposita morsa posta sul cavalletto, quindi vi praticava con la filiera la filettatura. Dopo averla avvolta con della canapa, la spennellava di vernice al minio, che oltre a preservarla dalla ruggine, quando seccava, assicurava che la giunzione non perdesse, poi provvedeva ad avvitarvi il pezzo necessario, fosse questo un gomito, un manicotto, o un altro accessorio. La tubatura così costruita era murata in una traccia dentro la parete, protetta da carta, per evitare che la calce la corrodesse. Si pensi che i carrarini maschi più anziani, chiamavano ancora il rubinetto, “chiavetta,” come nei luoghi, soprattutto nell’Italia settentrionale, dove quest’accessorio era già più diffuso, e dove queste persone li avevano visti, perché vi avevano svolto il servizio militare. Per gli scarichi il procedimento era diverso. Si usava tubo di piombo, ad esempio per lo scarico di un lavandino, ma questo aveva bisogno di un processo di saldatura abbastanza laborioso che lo collegasse alla piletta di scarico, di solito di bronzo o ottone. L’idraulico usava per saldare una torcia a benzina. Quest’attrezzo era costituito da un contenitore con la chiusura a vite, su cui era montato un cannello ossidrico. Dopo aver riempito il contenitore di benzina, se ne versava un pò in un apposito incavo del serbatoio stesso, e si appiccava il fuoco. Il calore prodotto faceva evaporare la benzina all’interno, che fuoriusciva dal beccuccio producendo una fiamma ad alta temperatura. Dopo aver ben scaldato la piletta, si passava la stearina per disossidarla, quindi la si poneva all’imboccatura del tubo di piombo precedentemente pulito, e si cominciava a saldare con lo stagno. Per rendere il tutto più omogeneo, si usava un pezzo di giornale bagnato ripiegato più volte, per lisciare e rendere gradevole alla vista la saldatura. Per il water era usato un pezzo di piombo sagomato chiamato “braga” che permetteva lo scarico dentro a un pozzetto collegato alla fognatura. I primissimi impianti di riscaldamento, erano delle vere e proprie opere d’arte. Se si pensa che il termosifone fu inventato alla fine dell’ottocento da un ingegnere russo, ci si rende conto di quanto fosse ancora semisconosciuto, e primitivo questo sistema di riscaldamento, considerato al tempo quasi come un’eccentricità da ricconi. Usato prevalentemente nei condomini, o nelle grandi ville signorili, quest’impianto era molto costoso, soprattutto per la complessità del lavoro. Si cominciava con l’istallazione della caldaia. Queste erano monumentali, in ghisa e pesantissime, le prime alimentate solo a legna o carbone, erano di solito piazzate nelle cantine. Necessitavano per prima cosa di un efficiente sistema di scarico, fatto con tubi di acciaio, alcune volte, se visibili, smaltati in bianco o in marrone, che doveva arrivare fin oltre il tetto dell’abitazione, di solito dentro un camino in muratura. Poi era la volta delle tubature. Queste erano in ferro nero, di grosso diametro, cui erano fissati tramite saldatura autogena, tubi di diametro più piccolo avvitati a giganteschi termosifoni in ghisa. Queste tubature, erano installate in pendenza, per sfruttare al meglio la circolazione naturale dell’acqua, non essendo ancora disponibili, a quel tempo alcun tipo di circolatore. Date le loro dimensioni, queste tubature erano spesso a vista, mascherate con qualche mano di smalto del colore simile al muro, che con il calore tendeva invariabilmente a staccarsi o a scolorire. In pochi decenni, la tecnologia idraulica ha fatto un balzo in avanti gigantesco, sia come tecnica, ma soprattutto come qualità dei materiali. Tubi in rame, polipropilene e multistrato hanno ormai sostituito del tutto i vecchi tubi di ferro, soggetti a corrosione per ruggine, e correnti galvaniche, o a otturazioni per il calcare. Caldaie a gas a condensazione, oltre a produrre un inquinamento atmosferico vicino allo zero, sono di dimensioni ridotte, e hanno un’altissima efficienza termica. L’unico neo che ancora si riscontra nelle città, è la scarsa, se non la totale assenza di depurazione delle acque nere e reflue, che provoca un gravissimo degrado ambientale. Questo avviene non per la mancanza di nuove tecnologie, ma per la cronica penuria di risorse finanziarie delle Amministrazioni, ma anche, purtroppo, sempre più spesso, per la malafede interessata di alcuni amministratori della cosa pubblica. Così si assiste al paradosso che nel terzo millennio, la salute pubblica in alcune città, è a rischio, forse di più che negli anni cinquanta, nonostante i progressi della tecnologia … del tubo.
Mario Volpi
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