Un alimento millenario
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Un antico adagio recitava" Befana bianca lasagna", questo perchè essendo nel cuore dell'inverno, la campagna era spoglia di verdure, e quindi bisognava cominciare ad intaccare le riserve di farina. Per propiziare un buon raccolto però alla vigilia ci si concedeva i "testaroli" di farina gialla e bianca mescolata, e i" castagnacci" fatti con la farina di castagne
La pasta
Nonostante la globalizzazione più selvaggia, e la crisi economica a livello globale, l’Italia si conferma senza dubbio leader nel campo degli alimentari, come qualità, ma soprattutto come gusto. E’ certamente la pasta, il nostro cavallo di battaglia. Siamo al primo posto sia come produzione, con circa tre milioni di tonnellate, sia come consumo procapite, che si attesta attorno ai 28 Kg annui. La metà di questa produzione è riservata all’esportazione, a riprova di come anche negli altri Paesi, si vada affermando la famosa e salutare “dieta mediterranea” di cui la pasta è il pilastro fondante. Qualche anno fa, qualcuno, autodefinitosi “storico alimentare” aveva avanzato la teoria che gli spaghetti fossero stati portati in Italia da Marco Polo, e che quindi fosse un’invenzione cinese. A prescindere dalla futilità di questa eventuale diatriba, andrebbe ricordato ai sostenitori di questa tesi, che già gli Etruschi, e gli antichi Romani, conoscevano benissimo la pasta che chiamavano “Làgana” ed era molto simile alle nostre attuali lasagne, ma più nello specifico vi è un testamento databile attorno alla metà del 1200, in cui si lascia in eredità” un vaso pieno di maccheroni, ” quindi ben prima che Marco Polo tornasse dalla Cina. Ancora più antico poi, e il racconto di un cronista siciliano dell’890, quando la Sicilia era sotto la dominazione araba, che dice “ si mangiava un cibo di farina a forma di fili.” L’inventiva italiana poi, ha elevato questa vera e propria “arte bianca” ai massimi livelli, sia nei formati della pasta, che sono più di trecento, sia nelle specifiche qualitative, con l’uso esclusivo di semola di grano duro, per esaltare al massimo, sia le proprietà organolettiche, che la tenuta in cottura. Un tempo però, la pasta artigianale prima, e quella industriale poi, era consumata solo dai nobili, o dalle famiglie più abbienti, mentre nelle campagne, era prevalente l’uso della pasta fresca. Ed è proprio di quest’ultima che io vorrei raccontare, perché temo, che già ora, gran parte di quest’antico sapere secolare, sia irrimediabilmente andato perduto. Farina, sale, e acqua, questi sono i tre semplici ingredienti che permettevano alla massaia medievale di sostentare egregiamente la propria famiglia anche se numerosa, con una modica spesa. Per fare questo però, era necessario saper sfruttare al meglio le risorse che la Natura offriva nella propria stagionalità, e utilizzare anche gli scarti, e gli avanzi. Oggi una pasta al pomodoro, sembra, ed è, certamente un cibo talmente comune da essere quasi banale, ma va ricordato che Pomodori, Mais, Patate, Fagioli, Peperoni, e Zucche, solo per citare gli ortaggi più comuni, sono giunti in Europa, solo nel 1492, ossia dopo la scoperta dell’America, e che alcuni, come il pomodoro entrarono nell’uso alimentare corrente solo due secoli dopo. Erano veramente poche le verdure che erano a disposizione delle italiche popolazioni nel medioevo, che avevano imparato a servirsi per le proprie necessità alimentari delle erbe spontanee offerte dalla Natura. Il sale oggi comune, al tempo era più prezioso dell’oro, quindi, usato con parsimonia, o non usato per niente, così per insaporire i cibi, si usavano le erbe aromatiche tipiche del clima mediterraneo, e si faceva largo uso di bacche, oggi quasi sconosciute, come Biancospino, Olivello Spinoso, Ginepro, Alloro, Rosa canina e molte altre. Per un uomo del nostro tempo i cibi di allora sarebbero immangiabili, ma al tempo gli ingredienti a disposizione, e l’estrema povertà, non offrivano altra scelta. Anche la nobiltà, che aveva possibilità economiche, mangiava male, e legava il cibo a superstizioni, o assurde credenze, come ad esempio il cosiddetto Biancomangiare. Cominciamo dai cereali; disponibili in quantità più, o meno, sufficiente vi erano, grano tenero, farro, sorgo, segale, miglio, panico, orzo e avena, e nei paesi montani le castagne. Con tutti questi prodotti si faceva la farina, che da sola o mescolata con altre, era la base dell’alimentazione quotidiana delle popolazioni di basso ceto. Così, negli sperduti paesini di montagna, con la farina di castagne miscelata con quella di segale, per rendere l’impasto lavorabile, e qualche uovo, erano preparati gli “stringoni, ” delle fettuccine da condire con olio e formaggio, ovino o caprino, oppure con ricotta. Altro piatto molto comune erano una specie di lasagne al forno, composte dalle foglie esterne, le costole dure, e il gambo del cavolfiore, perché la testa centrale era destinata al signore. Si procedeva così: in una casseruola di terracotta si ungeva il fondo con dello strutto, e si copriva con un disco di pasta, su cui erano messe alcune foglie di cavolo intere, pezzi di coste e gambo duro tagliato a pezzi, si condiva con ricotta insaporita con erbe aromatiche e bacche, e si metteva un altro disco di pasta, altro cavolo, e così via, il tutto era messo a cuocere nel forno prima di fare il pane. Erano comuni anche dei tortelli, fatti con farina di farro, sorgo, o segale, con un ripieno di erbe selvatiche come ortica, tarassaco, e cicorie varie, impastate con uova e formaggio grattugiato, insaporite con bacche, erano conditi con strutto, o burro, secondo la disponibilità. Si hanno notizie poi, di una non meglio specificata “focaccia piena, ” che dalle descrizioni, doveva essere molto simile alla nostra pizza-calzone, usata soprattutto dai pastori transumanti. Fatta di pasta non lievitata di segale, grano o orzo, impastata anche con semi di panico e miglio interi, riempita con un ripieno di ricotta, uova, erbette stagionali, olive, e noci, insaporita con timo, origano, e bacche secondo la stagionalità, fritta nello strutto, o cotta al forno. Pare ne esistesse anche una versione dolce con miele, fichi secchi, e noci. Senza scomodare le ere antiche, io mi ricordo perfettamente che mia madre quasi ogni giorno, preparava una “minestra” diversa, ma sempre composta di pasta fresca fatta in casa. Nelle feste comandate ad esempio, con il brodo erano di prammatica i “cap’deti” (cappelletti) fatti rigorosamente “al dito” e piccolissimi, oppure i “fid’lin” una specie di spaghetto sottilissimo, che lei tagliava con il coltello a velocità supersonica. I “tordedi” (tortelli), sia vegetali sia di carne, conditi al ragù, o al burro, salvia, e parmigiano, erano irrinunciabili per Natale, o il Santo Patrono. I “taiarin” (bavette) erano cotti in un brodo di fagioli e cotiche di maiale, così denso che il cucchiaio doveva rimanervi ritto, in posizione verticale. In primavera erano immancabili le lasagne verdi, impastate con l’ortica, e le cicorie spontanee, o gli “stringon” verdi, con le bietole e gli spinaci nell’impasto, conditi con pecorino grattugiato e pepe nero. Oggi purtroppo queste antiche prelibatezze sono sempre più rare, giudicate troppo difficili, o troppo laboriose da preparare dalle nuove generazioni, che preferiscono andare a gustare delle improponibili imitazioni, in locali spesso immeritatamente stellati. Così un sapere secolare scompare in meno di una generazione, un vero peccato, sopratutto per un Paese che basa anche sulla buona cucina la propria identità culturale.
Mario Volpi
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