Il figlio di papà
Racconti
Spetta/Le Redazione
L'arroganza
del potere fa uscire il peggio dall'animo umano, e spesso mostra chi lo
esercita per quello che è veramente: un povero di spirito. Voglio
raccontare una storia cui molti anni fa assistetti personalmente. Il suo
epilogo fu motivo della mia ilarità per decenni, e in questo momento
una sana risata non può fare che bene.
Luciano era nato è cresciuto in quell’immensa casa colonica in pietra, costruita quasi sulla sommità di un orrido strapiombo, sulle aspre montagne della Garfagnana. Uno stretto sentiero s’inerpicava, scivolando tra macchie di corbezzoli, e rovi impenetrabili, sinuoso come un serpente, dal fondovalle, fino a una piccola aia, che, nelle mattine nebbiose, sembrava sospesa tra le nubi. Non era il massimo della praticità, ma era l’unica cosa, insieme a quasi quaranta ettari d’impervie boscaglie, che gli avevano lasciato i genitori, morti quando lui era appena diciottenne. Aveva passato momenti difficili, senza mezzi economici, isolato in quella secolare cascina, che nonostante tutto lui amava. Poi circa dieci anni fa, un colpo di fortuna. Un ricco “commenda” del Nord, lo aveva contattato per chiedergli se gli vendesse la proprietà, per trasformarla in un’azienda faunistica. E qui l’arguzia dei “garfagnini” come diceva sempre sua madre, gli fece fare la scelta giusta. Riuscì a convincere l’imprenditore lombardo a diventare socio alla pari, stabilendo che lui avrebbe messo il capitale, mentre Luciano, oltre al terreno ne avrebbe curato e diretto l’attività. Fu la scelta vincente. Dopo meno di un anno l’azienda cominciò a fruttare economicamente, e a farsi un nome nel ristretto numero delle “riserve di caccia” per Vip. La sua in particolar modo, si era fatta un nome nella caccia al cinghiale. Sotto la guida di un veterinario, aveva costruito un piccolo allevamento di questi ungulati, che quando erano in grado di sostentarsi in autonomia, erano liberati nella riserva, che nel frattempo era stata in gran parte recintata. Grazie alle conoscenze altolocate del socio milionario, quasi ogni settimana, durante la stagione venatoria, riceveva circa quaranta persone, che oltre a una divertente battuta di caccia, potevano usufruire di un gustoso pranzo, composto esclusivamente da prodotti locali. Aveva dovuto assumere quattro persone per aiutarlo nel lavoro, tra cui una cuoca, la stessa che dopo poco tempo sarebbe diventata sua moglie. Luciano le diceva spesso, che era stato molto fortunato nella vita, perché poteva permettersi di svolgere come lavoro, la passione della sua vita: la caccia. Era, infatti, lui che gestiva le battute. Aveva passato mesi per studiare al meglio la posizione delle “poste, ” ossia dei luoghi dove, su un piccolo palchetto di legno, si appostavano i cacciatori, cercando di coniugare la possibilità di sparare al selvatico, con l’incolumità delle persone. Quell’uggiosa domenica di novembre, sembra una battuta come molte altre. Il tempo era nuvoloso, e minacciava pioggia, ma anche se fosse caduta, non sarebbe bastata a spegnere la passione venatoria delle trentacinque persone che si erano radunata in quella fredda mattina. Dopo aver controllato a ognuno il porto d’armi, e preso le generalità, Luciano li fece accomodare nell’antica stalla, ora riconvertita in salone, e offrì loro una gustosa colazione di pane casereccio, con salume nostrale annaffiato da un aromatico caffè, il vino prima della battuta non era permesso. La comitiva era composta di dipendenti di una grossa Società che si occupava d’investimenti, accompagnati dal figlio del principale, che era il più esagitato. Era un biondino molto giovane, con fare strafottente e spavaldo da sfiorare la cafonaggine, era letteralmente fasciato in un completo mimetico grifato, pieno di scritte tasche e taschini. Sul fianco sinistro una cartuccera in cordura nera mostrava un numero impressionante di luccicanti proiettili per carabina, mentre al fianco destro, era appeso un grosso coltello con il manico di corno con inserzioni in argento. Luciano consegnò, e fece indossare una pettorina di plastica arancione, e dette le indicazioni riguardante lo sparo, per salvaguardare la sicurezza dei cani e dei battitori. Durante le sue raccomandazioni fu spesso interrotto dalle battute ironiche e sarcastiche del giovane “figlio di papà,” che provocarono le imbarazzate risate dei presenti. Sforzandosi di essere gentile, Luciano li fece salire sui fuori strada e si avviarono. Seminava gli uomini come Pollicino le molliche di pane, ma a ogni fermata il biondino aveva qualcosa di dire. Alla fine Luciano perse la pazienza, e rivolgendosi al giovane disse” scusa ma hai qualche problema? Cosa c’è? Se vuoi qualche cosa dillo pure!” Il giovane con fare spavaldo mostrò la grossa e costosissima carabina con cui era armato, che montava una mostruosa ottica, e rispose “mettimi in un posto che possa usare questa per fare una strage, o non hai abbastanza cinghiali?” “Non preoccuparti” rispose Luciano con un sorriso, “sarai accontentato.” Quando tutti gli uomini furono in posizione, Luciano chiamò con la radio il capo battitore dicendo che si poteva iniziare. La riserva comprendeva i fianchi di due montagne, e il canale posto in fondo alla valle era usato come luogo per le poste. I battitori sciolsero i cani e cominciarono a inoltrarsi nella boscaglia. Un grosso branco di cinghiali dopo la pastura notturna, si era fermato dentro a una fitta macchia di saggina, e sonnecchiava tranquillo, quando il guaito di un cane li mise in allarme. Una grossa femmina si alzò in piedi, ma così facendo il suo forte odore arrivò alle eccitate narici di un segugio, che con un latrato si lanciò nella macchia. Fu un secondo. Mentre il latrare della canizza si faceva assordante, i battitori, cominciarono a urlare e sparare in aria, per impedire al branco di tornare indietro. “Vai, vai” urlavano i battitori “ dai! Dai! Attenti alle poste!” Il grosso branco scattò in piedi, e si lanciò in discesa in una corsa disperata, con i cani a pochi metri di distanza che li incalzavano senza pietà. Il rumore che facevano, era terribile, le frasche si muovevano come mosse da un uragano, mentre l’istinto spingeva gli animali terrorizzati a usare la propria massa come un ariete. Nella loro folle corsa, bucavano macchie impenetrabili, troncando selci e giovani castagni, mentre il sottobosco era quasi arato dai loro potenti zoccoli. Luciano si aspettava le fucilate dalle poste, ma non accade nulla, e dopo un secondo udì chiaramente la canizza salire il monte dalla parte opposta. Preoccupato, si diresse verso il canale, cosa poteva essere successo? Poi cominciò a sentire uno strano odore, e infine lo vide. La costosissima carabina abbandonata in terra tra il fogliame, e il biondino penzoloni su un castagno lì vicino, era ancora tremante, ma soprattutto, puzzava … se l’era fatta sotto.
Mario Volpi
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