Segreti animali
La civiltà animale
Spetta/Le Redazione
Oggi gli etologi cercano di carpire i segreti dei super sensi di molti animali, ma nonostante le sofisticate tecnologie moderne, riescono solo a fare ipotesi sul loro funzionamento.
In
questi ultimi anni, è aumentata nella gente la voglia di avere una animale in
casa. Fino a qui, non ci sarebbe nulla di male, perché gli umani hanno da
millenni interagito con il mondo animale. Ma oggi, vi è una vera e propria gara a chi ha
l’animale più esotico, più strano, o più raro. Non ha nessuna importanza la
specie, basta che sia “esclusivo.” Così vediamo genitori che regalano ai loro
figli, pesci, conigli, criceti, tartarughe, e perfino rettili, quasi fossero
giocattoli di peluche, salvo poi, quando si accorgono che i loro bambini non li
amano, o ne hanno addirittura paura, abbandonarli in natura, facendo un danno
ambientale enorme, o condannandoli a morte certa. Anche la scienza, visto che
l’argomento “animali” cattura l’interesse della gente, sta compiendo studi
sulla loro morfologia e comportamenti, scoprendo “segreti,” su di loro, che gli
antichi già sapevano da millenni, ma che si credeva fossero solo fantasie o
superstizioni. Si è scoperto che molti animali hanno dei “super sensi,”
qualcuno li chiama addirittura superpoteri, sviluppati certamente per la loro sopravvivenza,
ma che il loro funzionamento resta a tutt’oggi, anche per gli studiosi, un
mistero. Come ho detto spesso, io ho avuto la fortuna di vivere l’infanzia e
metà dell’adolescenza, in una fattoria, conoscendo da vicino gli animali che la
popolavano, dal cane ai numerosi gatti, per finire con mucche, asini, cavalli,
e tutti gli animali da cortile che un tempo facevano parte della vita
quotidiana. Alcuni dei loro comportamenti, sono rimasti scolpiti nella mia memoria,
come ricordi indelebili della vita rurale di un tempo. Vicino alla fattoria dove
abitavo vi era l’ovile di “Sandron, ’l pastor.”(Sandrone il pastore) Era un
uomo imponente, con il volto incorniciato da una barba bianco giallastra, con
l’eterno capello di lana in testa, e vestito sempre con calzoni e panciotto
di fustagno marrone. Abitava con la
moglie, in una modesta casetta accanto al “baracon” come lui chiamava il luogo,
in verità, male in arnese. dove rifugiava le pecore per la notte, e dove,
diviso da una semplice lamiera, vi era
anche il locale adibito alla lavorazione del latte per fare il pecorino. A me bambino però,
affascinava moltissimo il suo cane. Era un enorme cane lupo, di colore grigio e
nero, che oggi so essere della razza autoctona “lupo apuano,” ma che al tempo
mi incuteva solo un misto di paura e ammirazione. Lo trattava in apparenza con
rudezza, ma da come il cane lo seguiva passo, passo, stando attento anche al
suo più piccolo gesto, si vedeva che tra i due l’intesa era perfetta. Questo
splendido animale dormiva all’interno dell’ovile con le pecore, e la mattina,
quando Sandron andava a mungere, gli portava un grosso tegame pieno di siero di
latte colato dalle forme di formaggio, con qualche pezzo di pane raffermo. Il
cane con grande fantasia, lo aveva chiamato “Ner” (Nero) ed era in grado di
fare cose fantastiche. Prima della raccolta delle olive Sandron veniva chiamato
dai proprietari degli uliveti per far pulire da questi diserbanti naturali il
suolo, però spesso l’oliveto confinava con orti o campi coltivati in cui le
pecore non erano le benvenute. A raccontarlo sembra una favola ma bastava che
Sandron facesse con il cane il giro del perimetro dell’uliveto, e poi dicesse
in dialetto ”Ner a n dev’n surtir da chi” (Nero non devono uscire da qui) poi
poteva andare a casa a fare il formaggio, o a cambiare il “letto” nell’ovile,
essendo sicuro che le trenta pecore strettamente sorvegliate dal cane non
sarebbero uscite dal perimetro di un solo centimetro. In fattoria invece vi era
un “cane da pagliaio,” tuttofare, usato nella caccia dal fattore, da cui non si
separava praticamente mai, e nella guardia notturna del pollaio contro volpi, faine,
e ” animali a due gambe,” in quegli anni particolarmente attivi. Era “un
bastard” (meticcio) come al tempo si chiamavano i cani di razza indefinita, con
il pelo lungo e arruffato bianco e nero, assomigliava a un setter, anche se era
di taglia molto più grossa. Una calda mattina di luglio, già dalle prime luci
dell’alba, quando il fattore era andato a mungere, il cane aveva cominciato a
strofinarsi contro le sue gambe uggiolando penosamente. Il fattore pensando che
l’animale stesse male cercò di portalo nella sua cuccia accanto al pollaio per
farlo stare tranquillo, ma il cane non si staccava da lui uggiolando sempre più
forte. Il pomeriggio il fattore andò come si faceva di solito in estate, a fare
il riposino pomeridiano per riprendere il lavoro nelle ore più fresche. Ma il
cane, dopo essersi sdraiato davanti alla porta d’ingresso della cucina,
cominciò a ululare lugubremente molto forte, senza soluzione di continuità,
fino a quando smise di colpo riprendendo a uggiolare con la testa appoggiata
tra le zampe. Solo a sera ci si accorse che il fattore era morto nel sonno,
forse a causa di un infarto. Anche il cavallo di” Domè ‘l barozzar,”(Domenico
il barocciaio) era unico. Era un cavallo enorme di “raza ‘nglesa”(razza
inglese) come affermava orgogliosamente il padrone. Era un baio “balzano da tre,”
che Domè usava quotidianamente per effettuare le consegne di ghiaia dal fiume
Magra ai vari cantieri edili. Ma vi era un problema, a Domè il vino piaceva
troppo e quasi tutti i giorni, dopo aver fatto l’ultimo viaggio si fermava a
farsi un “biceret” in qualche Cantina. Il problema era che i bicchieri non
erano mai solo uno, e anche a causa del poco cibo, andava incontro a sbornie
colossali. Così gli osti, lo caricavano di peso a cassetta, e dopo aver slegato
il cavallo davano una pacca sui quarti posteriori esclamando il classico “diuù.”
Il cavallo nel buio più fitto tornava a casa da solo, anche da luoghi diversi,
con il carrettiere addormentato. Lissan (Sandro in dialetto carrarese) invece,
mi incantava, ormai adolescente, con i suoi racconti al bar, dove narrava le
sue tristi avventure di alpino “conducente muli” nella Grande Guerra.
Richiamato a diciotto anni appena compiuti, fu destinato a un compito che
nessuno voleva fare; conduttore di mulo. Non sapeva che questa mansione gli
avrebbe salvato la vita. Era stato destinato a fare la spola quotidianamente
per rifornire di cibo e munizioni le truppe alpine sul Carso. Il suo mulo era
enorme, si chiamava Pippo, e lui lo accudiva con rispetto, così a poco a poco
tra i due nacque un attaccamento reciproco improntato sulla fiducia. Un giorno,
con il fido Pippo era alla testa di una colonna di tredici muli, quando
all’inizio di una valle il mulo s’impuntò di colpo. Nonostante gli incitamenti
di Lissan pareva murato con le zampe nella neve. Dopo pochi minuti però, con un
tremendo boato una gigantesca valanga si abbatté proprio sul sentiero che
avrebbero dovuto attraversare. Da quel giorno Pippo era sempre capo colonna,
fino alla fine del conflitto che li vide ambedue sani e salvi. Cani che fiutano
la morte, cavalli che vedono al buio, muli che sentono il pericolo di una
valanga, ma non eravamo noi la razza dominante sulla terra?
Mario Volpi 4.3.23
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