Un lupo per amico
Una Volta Invece
Cara Redazione
Visto che avete la fortuna di avere tra i vostri collaboratori anche un enologo, non sarebbe male che si aprisse una rubrica che insegnasse finalmente alle nuove leve come si deve gustare, e non tracannare, il vino. La conoscenza del significato di termini come "millesimato, barricato, DOGS ecc." credo che avvicinerebbe molti a rinunciare al superalcolico, per degustare la bevanda preferita del dio Bacco
Un lupo per amico
E' notizia di pochi giorni fa che l'Italia ha ampiamente superato la Francia nella produzione vinicola. L'Italia è stata da sempre vocata alla produzione e al consumo di vino, anche se, fino a ridosso degli anni sessanta, la produzione era orientata più sulla quantità che la qualità. Al tempo il vino imbottigliato era una raffinata rarità, a uso e consumo di una classe agiata, che frequentava ristoranti esclusivi, mentre la maggior parte della produzione vinicola era venduta sfusa, e consumata nelle innumerevoli cantine sparse sul territorio. Quando ero appena adolescente, pur non disdegnando un bicchiere di vino, non era la mia bevanda preferita, perché assieme agli amici seguivamo la moda del tempo, bevendo nelle nostre rare serate al bar, i primi nuovi aperitivi, come il Rosso Antico, o il Punt e Mes, o sorseggiando una semplice birretta, magari, come facevano vedere al cinematografo, direttamente dalla bottiglia. Ma è proprio grazie al vino, che ho avuto un amico fraterno che mi ha insegnato a gustare questo vero e proprio nettare degli dei. Io per lavoro ho preso la patente B appena diciottenne, cosa non comune ai miei tempi, e così, spesso, il gestore del bar che frequentavo, mi chiedeva di accompagnarlo”per vino” come si diceva un tempo. Si faceva prestare da un suo cliente uno sgangherato OM “leoncino”, e con me alla guida ci recavamo in una fattoria in Toscana, precisamente a S. Casciano in Val di Pesa. Romano, così si chiamava il barista, era già avanti con gli anni, e non era agevole per lui caricare le oltre trenta damigiane vuote e caricarne altrettanto di piene, così le ultime volte chiese a Giusè, un mio coetaneo anche lui frequentatore del bar, di accompagnarci. Era pacifico che tutto questo fosse svolto gratis, escluso la pantagruelica mangiata che ci offriva il fattore, oltre ad un pacchetto di Nazionali per lui che fumava, e due fiaschi di vino da portare a casa per me. Io e Giusè, eravamo amici da sempre, vicini di casa, eravamo compagni di scuola fin dalle elementari, e lo eravamo stati anche alle superiori, poi, mentre io avevo preso a lavorare, lui, non si decideva se continuare a studiare, cosa che non gli piaceva, o trovarsi un’occupazione, ma che non sapeva ancora in che campo. Era come si diceva al tempo un tipo” hippy, ” alto, con un gran ciuffo di capelli, che lui si scostava sempre dalla fronte, vestiva in modo eccentrico per quel tempo, simpatico e solare, piaceva molto alle ragazze, soprattutto per via della voce, che tutti trovavano calda e pastosa, simile a quella d’Alberto Lupo, da qui il sopranome in dialetto di 'l Lup. Quando arrivavamo alla fattoria, il fattore ci accoglieva come se fossimo figli suoi, questo non lo faceva per lucro, ma solo perché era il suo carattere. Esauriti i convenevoli ci si recava in cantina. Questa era immensa, condivideva un muro maestro con la stalla accanto, le spesse mura in pietra erano prive di finestre, la porta d’ingresso era enorme, ad arco, con un portone di legno massiccio chiuso da un’enorme chiavistello. All’interno, alla fievole luce di una lampadina piena di ragnatele, si scorgeva il soffitto basso, a volte, in mattoni rossi, posti con maestria a lisca di pesce, che scaricavano su delle tozze colonne quadre in pietra. Lungo le due pareti più lunghe dei giganteschi tini di legno poggiavano su una bassa e massiccia travatura, ogni tino recava una scritta in gesso con il nome del vino e il prezzo. In grandi nicchie ricavate nelle spesse mura, una moltitudine di bottiglie con la ceralacca sul tappo, riposavano in posizione orizzontale, e, a giudicare dalla polvere, dovevano essere lì da una vita. Un gigantesco torchio troneggiava sulla parete di fondo, mentre una piramide fatta da damigiane impilate con maestria occupava la parete opposta. Noi “garzoni” per un po’ potevamo rilassarci mentre loro trattavano sul prezzo, e facevano mille assaggi. Quel giorno uscimmo nell’aia, e una bella e giovane ragazza ci venne incontro con un vassoio con del pane e del salume, dicendo che era per noi. Io non ci feci molto caso, l’avevo già vista altre volte, e sapevo che era la figlia del fattore, ma per ‘l Lup, fu come se qualcuno gli avesse dato una botta in testa. Dopo un attimo di smarrimento le si fece incontro e la salutò. Appena la ragazza udì la sua voce, vidi il suo volto illuminarsi, e capì con un sorrisino che ‘l Lup aveva colpito ancora. Mi ricordo che diverse volte gli prestai i soldi per prendere il treno per andare a trovarla, soldi che mi ha sempre restituito, fino a quando, un bel giorno, mi disse che aveva trovato lavoro in una cantina, e che si sarebbe trasferito a S. Casciano. Per quasi due anni non ne seppi più nulla, fino a quando una domenica d’agosto me lo vidi arrivare a casa insieme a Gina, la figlia del fattore, si erano fidanzati, e stavano per sposarsi e mi volevano come testimone alle loro nozze. Si sposarono l’anno dopo e, causa la morte del padre di lei, si trasferirono nei pressi di Siena. Dopo circa tre anni lo rividi, e mi disse che ora lui lavorava in una grossa azienda vinicola, aveva fatto uno dei primi corsi di “assaggiatore,” come si chiamavano al tempo i Sommelier, e si occupava delle vendite come “rappresentante,”in una zona che comprendeva oltre la Toscana, la Liguria, e l’Emilia. Gli avevano dato una Fiat 1100 aziendale, e spesso, durante i suoi giri per lavoro, passava da casa mia, dove si fermava a pranzo o a cena. Spesso quando arrivava, mi dava delle bottiglie di vino, cosa cui io non davo grande importanza. Una volta mi disse se volevo partecipare a una “degustazione” (io non sapevo neppure cosa fosse) in un notissimo ristorante genovese, chiaramente come suo ospite. Io accettai non avendo la minima idea di cosa si trattasse. Arrivammo a Genova nel pomeriggio e ci recammo in un albergo. Qui lui si cambiò d’abito, mettendo un elegante smoking, mi prestò anche una giacca nera e un paio di pantaloni dello stesso colore, poi ci recammo al ristorante. La manifestazione si svolgeva in un immenso salone, con le pareti ricoperte da una preziosa carta da parati dorata, illuminato da elaborati lampadari di scintillante cristallo. Diverse persone vestite elegantemente erano sedute attorno a dei tavoli ricoperti da candide tovaglie orlate di pizzo, e apparecchiati con innumerevoli bicchieri a calice di svariate dimensioni. Mi fece sedere a uno di questi, e dopo essersi allontanato, si legò in vita una specie di corto grembiule, e si mise al collo una specie di buffo pentolino, quindi fra gli applausi dei presenti si recò su una specie di piattaforma in fondo al salone. Qui su di un elegante tavolo vi era una file interminabile di bottiglie, diversi camerieri in divisa e guanti bianchi attendevano in piedi i suoi ordini. Quella sera accompagnato dal suadente suono della sua voce, “assaggiai” e non bevvi, per la prima volta il vino; senti sapori e profumi che non pensavo si potessero trovare in un bicchiere, fu per me un vero e proprio battesimo, che mi avrebbe iniziato alla mia scoperta del vino che dura tutt’oggi. Negli anni che seguirono, partecipai svariate volte con Giusè a eventi enologici, fino a quando lui divenne una personalità nel suo settore, e non si occupò più della vendita. Oggi, ormai tutti e due in pensione, ci ritroviamo duo o tre volte l’anno, ma la mia gratitudine nei suoi confronti non verrà mai meno, per avermi insegnato come gustare uno dei piaceri della vita.
Mario Volpi
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