La pasqua di una volta
Cara Redazione
Oggi tutto è consumismo, nei Supermercati già da febbraio montagne di dolci a forma di colombe, e tonnellate di uova di cioccolata fanno bella mostra di se, snaturando profondamente il senso di questa festa. Quando io ero bambino, tutto questo non esisteva, sarebbe da folli dire che si stava meglio allora, ma di sicuro, la felicità di gustare un "canestrello "a Pasqua , non era quantificabile, così forte da rimanere impresso nella mia memoria per tutta la vita.
Per chi come me, era ragazzino negli anni cinquanta, le festività Pasquali erano assai più importanti di quelle Natalizie, certamente non per il contesto religioso, ne tanto meno per quello consumistico, bensì essenzialmente pratico; si avvicinava la Primavera e con essa si poteva tornare a vivere per strada.
Infatti, questa è forse una delle poche festività Cristiane che non ha una data fissa, potendo essere “alta” o “ bassa,” distinzione che per noi bambini non era semplice da decifrare, perciò eravamo attentissimi a riconoscere quei segnali che ci rivelavano il suo approssimarsi.
Il primo di questi, era la visita a scuola del parroco don Giuseppe, che ci parlava di fine della Quaresima e di ritorno alla vita, ma quello che a noi interessava maggiormente era l’appuntamento che ci dava in Sacrestia per scegliere quelli di noi, che lo avrebbero accompagnato nella visita ai parrocchiani per la benedizioni delle case. Non era esattamente lo spirito cristiano che ci spingeva ad anelare a quell’incarico, ma una molto più terrena fame.
Come ho già detto molte volte, a quel tempo nella maggior parte della famiglie italiane, vi era un ospite fisso non invitato: la miseria, è evidente che ogni occasione si presentasse di poterci togliere una piccola voglia, nel nostro caso, solo alimentare, era da non perdere. Per questo il parroco, ma questo lo capirò molto più tardi, sceglieva accuratamente i quattro o cinque tra ragazzi, e ragazze, che dovevano accompagnarlo, ne prendeva uno per famiglia, scelte tra quelle più indigenti, ma lo faceva con diplomazia, per non offendere nessuno. Il rito della benedizione delle case, era al tempo molto sentito dalla popolazione, che aspettava con devozione questo momento, si faceva entrare il prete con i paramenti sacri, seguito dal codazzo di chierichetti, vestiti di bianco, questi pronunciava la formula di rito, e poi spargeva l’acqua benedetta, mentre gli abitanti della casa pregavano in ginocchio. Alla fine della cerimonia, la padrona di casa donava quello che poteva, due uova, qualche biscotto, un pezzo di pane, i più ricchi preparavano un buccellato che donavano tagliato a fette. Il frutto di questa questua, veniva alla fine della giornata distribuito fra i chierichetti, che il giorno dopo cambiavano. Altro segnale importante era la raccolta di carta colorata che le “femmine,”facevano dietro consiglio delle madri, era ricercatissima quella di colore rosso, veniva fatta bollire in una pentola d’acqua, fino a quando non cedeva tutta la sostanza colorante, in questa venivano a loro volta fatte bollire alcune uova, che così diventavano sode e colorate, utilizzate per portare in Chiesa in un paniere la domenica delle Palme. Ma erano soprattutto due gli indizi più importanti che ci facevano capire che l’evento era vicino, il cambio dei pantaloni, da quelli alla zuava, ai corti, e il ritaglio, e la loro applicazione sui vetri delle aule, di sagome di rondini ritagliate dalla foderina nera dei quaderni, oltre alla preparazione della prima gita. Oggi per gita scolastica si intendono viaggi all’estero, o settimane bianche in esclusivi luoghi di villeggiatura, un tempo se si era stati “buoni” si poteva sperare in una passeggiata nei boschi che circondavano la città, ma debbo dire che erano talmente anelate, e così incontenibile la nostra voglia di correre, che a distanza di più di cinquant’ anni me le rammento ancora. Appena giunti sul luogo che le maestre avevano scelto, e che avevamo raggiunto rigorosamente a piedi, e in fila per due, ci sfilavamo i grembiulini neri, che con le maniche annodate intorno al collo, diventavano degli splendidi mantelli, un bastone tra le gambe diventava un focoso destriero, mentre quello che si stringeva tra le mani una scintillante spada, così cinquanta “Ivanhoe”( serie televisiva cavalleresca famosa negli anni 1958) cavalcavano alla conquista di un fantomatico castello, mentre le bambine raccoglievano violette da donare alle maestre.
Si giungeva infine al sabato prima della domenica delle Palme; armati di “segacci e pennati,” si andava “per ulivi,” sotto la ferrea vigilanza dei padroni degli appezzamenti che temevano danni irreversibili. Nella nostra beata ingenuità, si faceva a gara a chi portasse a casa il ramo più grosso, senza pensare che eravamo noi poi, a doverne sopportare il peso nelle due ore di funzione religiosa.
Le mamme intanto preparavano i canestrelli, un dolce tradizionale di forma rotonda, abbellito con granella colorata, con al centro o un foro, oppure un uovo sodo. Era attaccato all’ulivo con dei nastrini colorati, più la famiglia era benestante, e più canestrelli vi erano su l’ulivo. Mi ricordo sempre, che una volta esagerai nella grandezza del ramo, così dopo più di un’ora di sforzi inauditi cedetti di schianto, regalando a l’uomo che mi stava davanti, una ramata sulla schiena, che a stento, visto il luogo dove ci trovavamo, non gli strappo una sonora bestemmia, ma che fruttò a me una riprovevole occhiata dal parroco, che tutto quel fracasso aveva interrotto.
La domenica di Pasqua, tutta la famiglia tirata a lucido si recava in Chiesa, erano presenti anche gli imbarazzatissimi “babbi” che di solito non partecipavano. Dopo la funzione religiosa ci aspettava il tradizionale pranzo, composto dagli immancabili carciofi fritti, “tordelli” o cappelletti per chi poteva permetterseli, e un pezzo magari minuscolo, di agnello per seguire la tradizione.
La Pasqua era per noi ragazzi un traguardo importante, perché si avvicinava la fine della scuola, ponendo fine a quella che, molti di noi, giudicavano una sorta di reclusione, avendo vissuto, per la maggior parte della nostra giovane vita, nei boschi, e nei campi, magari tra mille privazioni, ma completamente padroni di noi stessi.
Volpi Mario