Tradizioni…culinarie
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Le recenti festività ci hanno raccontato di un mondo gastronomico
"alieno" fatto di ingredienti esotici, confezionati spesso da cuochi
super stellati, che badano più alla presentazione che alla tradizione.
Io penso che bisognerebbe fare un passo indietro, e tornare a "quel
c'era una volta..." ora più che mai necessario.
Le recenti festività hanno proposto in molte famiglie, purtroppo ormai sempre meno, il tradizionale menù Natalizio. Questo menù varia molto da Regione a Regione, e tra poco ne spiegheremo il motivo, anche se è ormai, la globalizzazione, e la forte immigrazione di questi ultimi anni, hanno fatto quasi dimenticare le tradizioni alimentari secolari, per ripiegare su quelle più “moderne”. La civiltà contadina italiana di un tempo, era afflitta da una cronica miseria, che faceva sì, che le potenzialità dell’agricoltura fossero sfruttate al massimo. Per fare ciò, è stato necessario apprendere, e perfezionare, le tecniche di conservazione degli alimenti, per poterne usufruire durante i periodi di magra come l’inverno. Alcuni di questi cibi conservati, erano considerati così preziosi, da potere essere consumati solo in giorni particolari, o in occasione di grandi festività religiose, come il Natale. Gli ingredienti di questo menù tradizionale erano quelli che quelle determinate comunità, avevano a disposizione. Ecco così nascere, mille menù diversi, non solo da Regione a Regione, ma spesso da paese, a paese, anche vicinissimi, che però potevano contare su risorse alimentari diverse. Guardiamo ad esempio il tipico menù della vigilia di Natale della zona di Carrara, e Paesi a monte. Il piatto principale era chiamato in dialetto “zupa del Bambin” (zuppa del Bambino inteso come Gesù.) Questo era un cibo “povero” realizzato con avanzi, e ciò che in questo periodo di clima particolarmente rigido si poteva ancora trovare nell’orto, con l’aggiunta delle verdure precedentemente conservate. Questa zuppa è composta di pane raffermo, fagioli bianchi e cavolo verza, oltre a un soffritto di verdure, come sedano, carote, prezzemolo e aglio. Le persone più benestanti, poiché dicembre e gennaio, erano il periodo dell’uccisione del maiale, per insaporire maggiormente aggiungevano un cotechino, che doveva essere cotto per ore a parte. Oggi, ogni tipo di verdura è disponibile tutto l’anno, ma un tempo questo era impensabile, quindi si ricorreva alla conservazione. Nel periodo, primavera-estate, la produzione di verdura era al culmine, come quella della frutta, ecco che la sapienza contadina ha sviluppato, nel corso dei secoli, metodi, che, in un mondo senza frigoriferi e congelatori, permettevano di sfruttare più a lungo quest’abbondanza, almeno in particolari occasioni. Alcune verdure erano, per la facilità di produzione e conservazione, i capisaldi di questa cucina. I piselli, ad esempio erano conservati in salamoia. Si procedeva così: dopo avere sgusciato i piselli, si sceglieva i più belli e sani, per poi, dopo averli sbollentati, erano posti in vasetti di vetro, con acqua salata, quindi tappati e messi in un pentolone con acqua bollente per circa mezz’ora. Stessa cosa si faceva per le olive. Verdure come bieta, cavoli estivi, finocchi, e alcuni tipi d’insalata, erano conservate sotto sale. Dopo essere lavata e messa ad asciugare al sole per un giorno, la verdura tagliata a tocchetti non troppo piccoli, era posta in un orcio di terracotta a strati, con abbondante sale. Sulla sommità era posto un foglio di carta oleata con il coperchio di pesante marmo, che aveva la funzione di tenerla compatta, facendo passare meno ossigeno possibile. I pomodori, i fichi, e le prugne, erano semplicemente fatti seccare al sole, e poi riposti al buio in vasetti di vetro. Al tempo era importantissima anche la produzione di aceto, perché usato per conservare alcuni tipi di verdura, come carote, cipolle, le rosette del cavolfiore, e i fagiolini verdi, ma anche utilizzato come detergente-disinfettante. Altri tipi di verdura come melanzane, peperoni, e cetrioli, erano messi sott’olio. Per noi” piccoli” poi le festività Natalizie erano attese con ansia per gustare delle vere e proprie leccornie, come ad esempio l’uva. A ottobre durante la vendemmia il fattore aveva cura di scegliere un particolare tipo d’uva bianca, che in dialetto chiamavano “regina.” Questi grappoli oltre che scelti con cura, erano tagliati insieme a un tralcio di vite, tolti meticolosamente eventuali chicchi non sani, si portavano nel granaio, e dopo aver stesso del filo di ferro per tutta la lunghezza della stanza, si appendevano. A Natale l’uva, diventata leggermente passa, ma acquisiva un gusto e una dolcezza che a distanza di oltre mezzo secolo ancora ricordo. In segno augurale, ma probabilmente per risparmiare, c’erano dati tanti acini quanti erano i nostri anni d’età, e ricordo con nostalgia che il nonno, “barava,” passandomi sottobanco buona parte dei suoi. Il giorno di Natale, il menù comprendeva, per primo i cappelletti cotti nel brodo del cappone allevato apposta per quel giorno, seguiti da un secondo piatto che era il cotechino, appena fatto con un impasto speciale, che comportava la totale assenza di spezie e poco sale. Il contorno era composto di un’insalata russa, fatta con la maionese artigianale, e tutte le verdure che erano state conservate nell’aceto. Per finire un particolare “buccellato,” pieno di fichi secchi, noci, nocciole, e uva passa, un vero pranzo da re. A Marina di Carrara invece, il piatto tipico era il baccalà con i ceci, a dimostrazione di come la gente sapesse sfruttare al meglio ciò che possedeva. Ecco perché queste tradizioni sono importanti da mantenere, perché oltre la gustosa genuinità delle pietanze, raccontano una parte importante della nostra storia millenaria.
Mario Volpi
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