Andar p’r labrone
Una Volta Invece
Spetta/Le
Redazione
Miseria ed
Ecologia sono due linee di "pensiero" che non vanno troppo d'accordo.
I motivi credo siano più che ovvi ...
Per
Carrara, il mare ha da sempre rappresentato il mezzo per combattere la fame, lavorare,
e anche per il divertimento, quest’ultimo però sempre e comunque orientato a
cercare di contribuire nel mettere insieme il pranzo con la cena. Nei secoli
medievali, per eludere l’odiata tassa sul sale, i carrarini avevano trovato il
modo di contrabbandarlo verso le ricche terre Emiliane, nascondendolo in barili
pieni, ma solo di un sottilissimo strato, di acciughe sotto sale. I fornai,
eludevano i ferrei controlli dei dazieri ducali, facendo finta di andare ad
approvvigionarsi d’acqua alle fonti pubbliche, mentre in realtà riempivano gli
otri di acqua salata di mare, per poter panificare senza sale. Stessa cosa
facevano le massaie nelle varie cascine, dove vi era l’abitudine di fare il
pane una volta ogni quindici giorni per l’intera comunità. Del resto, il sale,
questo vero e proprio “oro bianco” per i marinelli, come i carrarini chiamavano
gli abitanti della costa, era praticamente a costo zero. Bastava far bollire
l’acqua di mare dentro grosse marmitte, su fuochi alimentati spesso con fascine
di falaschi che un tempo ricoprivano quasi per intero l’intera pianura.
Nell’Ottocento, il mare era molto più arretrato, e meno profondo di oggi, tanto
che si diceva Porto di Marina d’Avenza, la pianura era paludosa e malsana ma la
sua importanza per le genti Apuane, è sempre stata fondamentale per riuscire in
qualche modo a sopravvivere alla galoppante miseria. La pesca, non
professionale, era considerata oltre a un divertimento, un modo economico e
piacevole di procurarsi delle proteine, senza dover aprire il portafoglio,
oltretutto, sempre desolatamente vuoto. Togliendo la tradizionale pesca delle
rane, e la raccolta delle chiocciole, alcuni metodi di pesca del tempo, erano
alquanto bizzarri e certamente dannosi per l’ambiente, che di sicuro farebbero
inorridire gli ambientalisti odierni, ma in quei tristi anni, la parola
“ecologia,” forse non era neppure stata inventata, mentre era ben conosciuto il
vocabolo “fame.” Nei mesi primaverili, avviene l’accoppiamento delle seppie, e
la deposizione delle uova. Era questo il periodo atteso con ansia dai pescatori
di quegli anni, per un metodo di pesca tutto “toscano,” che aveva un nome
particolare, ma che ben descrive la sua tipologia. Per andare a pescare seppie
“alla ruffiana,” era necessario procurarsi una seppia viva di sesso femminile.
E già qui entrava in gioco l’esperienza del pescatore, visto che distinguere i
due sessi, in questa specie non è per nulla facile. Avute due o tre femmine le
si tenevano immerse in una gabbietta in mare, per tenerle in ottima forma
fisica, quindi dopo essersi allontanati in barca dalla costa di qualche
centinaio di metri, si procedeva così. Si prendeva la seppia viva e con un ago
grosso, si passava un sottile spago di lino nella parte terminale del mantello,
cercando di traumatizzare l’animale il meno possibile. Poi la si metteva in
acqua, legata al guinzaglio a un leggero spago di canapa. I maschi nelle
vicinanze si avvinghiavano a lei e il pescatore, sentendo cambiare il peso
provvedeva a catturarli con un retino. Anche se sembra impossibile vi sono
antichi documenti che attestano la cattura di “interi secchi” di seppie pescate
in poche ore. Sempre per la cattura delle seppie, e nello stesso periodo, si
era usi mettere all’interno di grandi nasse di giunchi, grosse fascine di
“orbach,” (alloro) per attirare all’interno delle stesse le seppie femmine che
vi deponevano le uova, rimanendovi poi prigioniere. Nei mesi invernali, con
mare calmo, si andava “p’r totani” (per totani.) Di solito questo tipo di pesca era fatto
nelle notti buie e senza luna, meglio se nuvolose, sulle murate della barca si
montavano due grosse lampade a acetilene, poi si legava una cotenna di lardo
con la parte bianca in fuori, sulla totanara, una specie di cilindro di piombo
irto di punte ad ombrello rivolte verso l’alto, e ci si armava di pazienza,
sfidando il freddo feroce che attanagliava le mani sempre bagnate. Si gettava
l’attrezzo in profondità, e lentamente a piccoli strappi, lo si recuperava
lentamente, mentre la barca scarrocciava liberamente. Quando si avvertiva un
cambio di peso, si accelerava il recupero, ma senza fretta o eccessivi strappi,
pena la perdita del bottino. Appena salpato, la preda era immersa lestamente in
una tinozza con tre dita d’acqua per evitare il potente getto d’inchiostro.
Negli anni cinquanta era in uso la pesca alla “labrona” come in dialetto si
chiamava il cefalo, o muggine. Questo tipo di pesca era effettuata
esclusivamente sul lato esterno della diga di Levante del Porto di Marina di
Carrara. In quei tempi, per combattere l’erosione, era presente un’altra
scogliera perpendicolare a questa diga, che arrivava fino alla foce del
Carrione, oggi questo spazio, chiamato allora “la piscina,” non esiste più.
Questa diga deviava le acque del Carrione, al tempo piene di rifiuti fognari
della città verso la diga del Porto per tutta la sua lunghezza, favorendo la
crescita di una flora sottomarina estremamente rigogliosa. Questo era l’habitat
naturale del cefalo di porto, che qui raggiungeva dimensioni mostruose. Vi era
una vera e propria legione di pescatori, solitamente molto anziani, che lo
insidiavano con l’ancoretta a strappo usando come esca il pene francese misto a
formaggio. Il galleggiante era costituito da un tappo di damigiana con inserita
su di un lato una penna di gallina che segnalava al pescatore quando il pesce
si avvicinava all’esca per “succhiarla.” Lo strappo spesso era inutile, ma
qualche volta il pesce veniva infilzato, non solo dal labbro, ma anche su varie
parti del corpo, che impegnava il fortunato in una feroce lotta, mentre tutti i
pescatori presenti muniti di retino cercavano di aiutare per il recupero. Oggi
queste pesche sono state abbandonate perché obsolete o illegali, ma la loro
pratica per decenni ha rappresentato l’unica fonte di proteine per intere
famiglie, e meritano di essere ricordate, a testimonianza, come l’ingegno umano
abbia sempre combattuto per sconfiggere un nemico subdolo e mortale; la fame.
Mario Volpi 2.6.22
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