Il corsaro del Re Sole
Racconti
Mentre passeggiavo sul marciapiede, un bambino mascherato da pirata accompagnato dalla madre mi è corso incontro, e dopo avermi spruzzato di schiuma mi ha detto "sono il Corsaro Nero" Così mi è tornato in mente un racconto del nostro amico Mario Volpi.
Il racconto sarà a puntate, sperando che vi piaccia auguriamo una buona lettura a tutti.
La Redazione.
Da quando aveva la ragione, Brewal, era sempre vissuto a bordo di qualche nave. Suo padre, il Capitano Morel, aveva una “patente da corsa” avuta dal Re di Francia, che lo autorizzava ad attaccare e saccheggiare le navi britanniche, che dalle Indie Orientali, o dai Mari del Sud, portavano i loro tesori verso la madrepatria. Ovviamente il Re non lo faceva per bontà d’animo, e un quinto di tutto il bottino, levato le spese, era suo. La loro base di partenza era la citta Bretone di Saint Malo, o San Malò come qualcuno la chiamava, porto strategico per il controllo del canale della Manica. Per non essere spiati dalle numerose navi da guerra britanniche che incrociavano al largo, il Re francese permetteva loro di armare le proprie navi in segreto nei porti militari di Dunkerque, o di Le Havre. Il piccolo Brewal, aveva una gran massa di capelli rosso fuoco, che gli valse ovviamente l’appellativo di “petit rouge”, ossia piccolo rosso. Non conobbe mai la madre, e passò l’infanzia prima, e l’adolescenza poi, a bordo di vascelli comandati dal padre, imparando a fondo il mestiere del marinaio, ma soprattutto del corsaro, dalla lettura delle carte, a come si pulisce un ponte, a tirare di sciabola, a diventare un esperto artigliere. Così quando a causa di una polmonite suo padre morì, egli, poco più che ventenne, assunse il comando della “Viking, ” una piccola nave da carico simile a una fregata, che anni di esperienza nella “guerra da corsa” aveva modificato, alleggerendola di tutto il superfluo per renderla più agile e veloce. Il giovane capitano, ormai detto “il Rouge,” aveva chiesto udienza al nuovo monarca francese che tutti chiamavano Re Sole, chiedendo anche per lui una patente da corsa come il padre. Soprattutto gli domandò di sovvenzionare importanti lavori di ammodernamento e manutenzione al suo vascello, promettendo al sovrano, che se la sua vecchia nave avesse ricevuto le modifiche da lui richieste, in un cantiere navale militare francese, in poco tempo avrebbe potuto ripagarlo con il triplo da quello da lui speso. Il Re, riconoscendo i capitani-corsari della città di Malò, come i maggiori contribuenti delle ingenti somme di denaro versate nelle casse reali, accettò di buon grado. Così dopo meno di una settimana, al calar del sole, con i fanali spenti per non essere intercettata dai guardacoste inglesi, la Viking salpò, destinazione il cantiere navale di Le Havre. Il soggiorno nel cantiere francese durò quasi sei mesi, e la nave che uscì dal bacino di carenaggio, era irriconoscibile. Brewal aveva fatto rivestire tutta “l’opera viva, ” ossia il fasciame della chiglia, con una sottile lastra di rame, che, a causa della reazione chimica con l’acqua salata, impediva ai “denti di cane,” e ad altre creature marine, di attaccarvisi, consentendo così alla nave una maggiore velocità. All’interno della stiva, proprio lungo il dritto di chiglia, appena sotto i paramezzali, aveva fatto fissare quasi seicento libbre di “salmoni” di piombo, che avevano il compito di stabilizzare la nave, poiché aveva fatto aggiungere all’albero di maestra, e a quello di mezzana, un pennone in altezza, con una vela in più, che garantivano al vascello una velocità eccezionale. Ma il lavoro più importante lo fece fare sul ponte di coperta, e sui due casseri. Al tempo i cannoni erano enormi, e l’affusto era montato su ruote. Sulle navi quando si usava il cannone, bisognava; caricare il pezzo dalla bocca, quindi dopo avere aperto il boccaporto, andava spinto in posizione. Il rinculo faceva arretrare il pezzo, che dopo essere stato ricaricato, doveva essere rimesso in posizione tramite delle carrucole, con un’enorme fatica e perdita di tempo. Il Rosso, fece montare venti modernissimi cannoni di ferro battuto, opera di artigiani Portoghesi, al tempo il meglio del meglio, dieci per murata, con l’affusto privo di ruote, saldamente fissato con grossi bulloni alle ordinate del ponte. La bocca era arretrata dalla murata di circa cinque spanne, spazio necessario per il suo caricamento. Il segmento di murata davanti alla bocca da fuoco, si poteva ribaltare verso il basso, ma quando era alzata i cannoni, erano invisibili. Sui castelli di poppa e di prora, fece montare con lo stesso sistema sei affusti per grosse “mezze colubrine” girevoli, che essendo molto maneggevoli, potevano essere montate al momento del bisogno. Tutto lo scafo fu dipinto di nero con diverse mani di catrame, che oltre a proteggerlo dagli elementi, lo rendeva invisibile di notte, e al crepuscolo. Le Marine da guerra di quel tempo, puntavano su vascelli mastodontici, come i possenti galeoni, che avevano un numero elevato di cannoni, posti su tre ponti, atti a sfondare le fiancate delle navi nemiche. Ma lui era un corsaro, e come gli diceva sempre il padre, ” la nave e tutto quello che contiene, è il nostro guadagno, ” quindi non la si doveva danneggiare, perché “erano gli uomini che uccidevano, non la nave, ” perciò dovevano solo neutralizzare gli uomini. E qui che il genio e l’esperienza gli fecero adottare delle tattiche che lo avrebbero visto dominare i mari per decenni. Le spiagge di Malò, erano tutte sassose, con i ciottoli di duro granito, che l’azione millenaria delle onde aveva reso ovoidali. Ebbene perché non usare quelli come proiettili, anziché palle di piombo o rottami di ferro che danneggiavano la nave? Oltretutto erano a costo zero, e praticamente illimitati. Cosi rientrato a Malò, selezionò i futuri artiglieri a gruppi di tre; Un capo- pezzo, un caricatore e un puntatore. Sapeva che dal loro addestramento e dalla velocità nello sparo, dipendeva la vita o la morte dell’intero equipaggio, quindi per quasi tre mesi, li fece provare e riprovare, prima in bianco, e poi con colpi veri, fino a quando la loro preparazione fu giudicata ottima. Per velocizzare ancora di più le operazioni, ed eliminare eventuali errori, che nella concitazione della battaglia potevano essere inevitabili, ma fatali, pensò di standardizzare al massimo le operazioni. Così fece preparare dei sacchetti di iuta pieni di ciottoli, già pesati, che dovevano essere usati per il tiro a “mitraglia”, fece imbarcare grandi quantità di stoppa, che divisa in batuffoli, serviva per comprimere la polvere dentro la culata, e infine, fece confezionare centinaia di sacchetti di tela cerata per contenere il quantitativo esatto di polvere da sparo necessario per un colpo, così che era pressoché impossibile fare errori. Per quello che comportava l’alzo, fece costruire dal carpentiere di bordo, due tipi di zeppe di legno, di diverso colore e altezza, così bastava dire il colore della zeppa perché il cannone fosse puntato con la giusta inclinazione. Anche alcune palle di cannone furono modificate. Due palle di ferro di calibro molto più piccolo, furono saldate tra loro con una robusta catena di ferro. Quando erano sparate, uscivano roteando e tranciavano tutto ciò che incontravano, dal sartiame alle vele, dagli uomini, ai pennoni. Dopo quasi un anno dalla morte del padre, con la nave completamente rimessa a nuovo, il Rosso, si preparava a salpare per la sua prima caccia come comandante, era il 6 marzo 1640.
Mario Volpi
Continua...
Il Comandante Sir Charles Holland, era seduto nella sua cabina a bordo del “HMS Royal, ” un poderoso galeone della Royal Navy. Era un uomo basso e corpulento, tanto che l’elegante divisa tagliata su misura, non riusciva a nascondere la pinguedine. La feluca, bordata da un nastro dorato, copriva l’incipiente calvizie, mentre la barba ormai bianca, gli incorniciava completamente il volto, alla moda del tempo. L’arroganza, tipica dei Comandanti militari, e il frequente uso del “gatto a nove code” lo aveva fatto odiare dall’equipaggio, e temere dai suoi ufficiali, ma a lui questo importava poco, la sua preoccupazione era volta solo a essere ciecamente ubbidito per accumulare più denaro possibile, prima della sua messa a riposo. Fumava una pipa, con un lungo bocchino, ricavata da una pannocchia di mais, regalo del capo indigeno del villaggio. Il forte aroma di tabacco aveva impregnato la cabina, e il Comandante pensò soddisfatto che poche persone al mondo avevano la possibilità di gustare quella assoluta, e costosa novità. Un discreto bussare alla porta, lo distolse dai suoi pensieri, e gli fece grugnire un “avanti, ” brusco come sua abitudine. Il Sig. Jhonson, il primo ufficiale, entrò e dopo essere scattato sull’attenti, si tolse la feluca e disse che tutto era pronto per la partenza. Il Comandante bofonchiò un grazie, e dopo essersi alzato, si diresse verso il ponte comando sul cassero di poppa. La giornata si annunciava splendida come sempre, dalla riva poco distante, le verdi palme, ondeggiavano appena, sotto la lieve brezza mattutina. Il sole si affacciava quasi con timidezza, da dietro le alte montagne, che la distanza, e la bruma mattutina sfocavano, addolcendone le aguzze cime. Un chiassoso e colorato volo di pappagalli, passò radente su quell’oceano verde, per poi sparire all’improvviso al suo interno. L’alba era satura dell’intenso profumo delle fioriture, giunte al loro culmine, che la tiepida brezza portava fino a loro. Alcune canoe d’indigeni partirono dalla riva e arrivate sotto bordo, porsero agli uomini che si sporgevano dalle murate, caschi di banane, cocchi, ananas, e alcune capre vive, che i marinai si affrettarono a imbarcare. Il Capitano disse qualcosa al primo ufficiale, che subito, ordinò “ pronti alla manovra, pronti a mollare.” Con un rullo di tamburi, un giovane tamburino chiamò al “pronti” l’equipaggio. Dopo essersi sporto dalla murata di babordo, il primo urlò “molla a poppa!” Il nostromo soffiò dentro a un fischietto, e subito una squadra di marinai si precipitò a poppa, e cominciarono a girare a mano in gigantesco argano. Con un cigolio, la grossa catena si tese, e la pesante ancora di poppa cominciò lentamente a sollevarsi dal fondo melmoso. “Molla a prora” ordinò ancora il primo e la stessa manovra fu ripetuta al castello di prua. Quando le due pesanti ancore furono issate a bordo e fissate nei loro alloggi, il primo ordinò “gabbieri a riva, molla il parrocchetto, sbroglia il pappafico.” Al fischio del nostromo, agili come scoiattoli, i gabbieri s’inerpicavano velocemente sulle scalette di corda del sartiame e raggiunsero la cima dell’albero di trinchetto. Dopo aver sciolto le cime che le trattenevano, fecero cadere verso il basso le grosse vele di tela olona, che si distesero con uno schiocco, per poi subito dopo gonfiarsi sotto il leggero vento di ponente. Il pesante e goffo galeone cominciò a muoversi, da principio quasi impercettibilmente, poi sempre più forte. Il Capitano rivolgendosi ai timonieri accanto a lui disse “trenta a dritta” “ trenta a dritta, ” ripeté il timoniere-capo, girando, aiutato dal secondo nocchiere il gigantesco doppio timone. Il primo ufficiale prese il megafono e rivolto al secondo ufficiale sul castello di prora, urlò “scandaglio” dopo un minuto l’uomo cominciò a rispondere, mentre srotolava la cima piombata con i nodi di riferimento ”tre braccia … quattro braccia” e dopo un poco ” fondo libero.” Il Capitano ordinò al primo “tutte le vele al vento” l’ufficiale urlò nel megafono, “molla bonaventura, molla mezzana, molla maestra” i gabbieri come un sol uomo eseguirono l’ordine, e il possente galeone, con tutte le vele spiegate su i suoi cinque alberi, prese gradatemene velocità uscendo dalla tranquilla baia. Dopo poco il Capitano disse” Sig. Jhonson, faccia issare la bandiera di San Giorgio, e vada per Nord, Nord Ovest, ci porti a casa” quindi rientrò in cabina. Con tutte le vele al vento, il galeone filava veloce, disegnando, in quel mare di cobalto, una grossa scia, che il sole ancora basso, faceva luccicare come fosse un nastro d’argento. Un vigoroso Aliseo lo feceva inclinare leggermente a tribordo, mentre lasciava quei luoghi paradisiaci per dirigersi verso la fredda terra di Albione. Nelle sue stive erano ammassate più di 1000 balle di tabacco, cinquanta casse di spezie, oltre a trenta casse d’oro, e centoquarantasette d’argento. In un forziere custodito dentro la cabina del Comandante, vi erano trenta libre di bianchissime perle, e quasi quattordici libbre di pietre preziose provenienti dal Perù, non si poteva certo dire che il suo quinto viaggio alle Indie non fosse stato redditizio, pensò tra se, e se, il vecchio Capitano. Facendo due rapidi calcoli, sapendo che 1/50 esimo del valore del carico era per lui, Sir Charles, pensò che senza dubbio, questo sarebbe stato il suo ultimo viaggio alle Indie. Aprì la sua cassetta personale, e ne cavò un luccicante sestante, dall’ampia finestra della sua cabina misurò l’altezza del sole che, con un compasso a punte, riportò su una carta che aveva spiegato sul massiccio tavolo davanti a se. Soddisfatto, pensò che se gli Alisei avessero continuato a soffiare nella direzione giusta, e il dio Nettuno non ci avesse messo il tridente, tra meno di due mesi sarebbe arrivato a Londra. Il Capitano si lasciò cadere pesantemente sulla sedia, e con una smorfia di dolore si massaggiò una gamba. Cominciava a sentire il peso dell’età, e dopo più di quaranta anni per mare pensava di meritarsi un posto all’Ammiragliato, magari, perché no? Con un avanzamento di grado. Per quello aveva rifiutato il consiglio del Governatore delle Indie che gli aveva detto di aspettare il resto della flotta per partire in convoglio, e non rischiare brutti incontri. Sulla sua faccia bruciata dal sole, si disegnò un lieve sorriso, ma chi sarebbe stato tanto pazzo da attaccare un galeone con settanta cannoni, e cinquecento uomini di equipaggio, di cui duecento fucilieri di marina? Che poi, tutto sommato, sperava quasi in un attacco, per potersi vantare al Circolo Ufficiali di Londra, della sua certa e immancabile vittoria, che gli avrebbe magari fruttato anche una medaglia al valore. In tanti viaggi negli oceani di tutto il mondo non aveva mai subito attacchi di pirati o corsari, solo da giovane cadetto quando era imbarcato su una fregata, c’era stato un piccolo scontro con un galeone spagnolo, conclusosi senza spargimenti di sangue, con la fuga della fregata inglese. Cavò dalla tasca del panciotto, un sacchetto di pelle, e dopo aver caricato la pipa con del tabacco fortemente aromatico, l’accese, allo stoppino della lucerna, per poi riprendere il filo dei suoi pensieri. Aveva fretta di arrivare prima che finisse la primavera, perché era in quel periodo che si facevano le nuove nomine all’Ammiragliato, e portando un simile tesoro, voleva proprio vedere chi aveva il coraggio di opporsi a una sua eventuale promozione. Con la sua parte, e quello già accumulato nei precedenti viaggi, contava di comprare quella grossa tenuta che tanto gli piaceva alla periferia di Londra, dove terminare in pace gli ultimi anni della sua vita. La campana che suonava il terzo quarto, lo distolse dai suoi pensieri, e zoppicando lievemente si diresse verso il Ponte di Comando.
CONTINUA
Una gelida alba stava sorgendo sulla Baia di Saint Aubin. La Viking con la velatura ridotta al minimo sembrava un vascello fantasma, nella foschia mattutina. Bordeggiava a poche leghe dall’isola di Jersey, incrociando sulla rotta obbligata per qualsiasi nave volesse andare verso l’Inghilterra. Il mare in bonaccia, rifletteva l’uggioso colore del cielo, simile al piombo, mentre un maligno e freddo Aliseo che ne accarezzava la superfice, increspandola. Chiamandosi l’una con l’altra, con il loro caratteristico stridio, un branco di Sterne, passò a volo radente sfiorando l’alberatura, tanto basse, da mostrare chiaramente l’elegante “cappello” nero, che gli è valso il nome di rondine di mare. Il Rosso pensò che fosse ora di mandare una vedetta in coffa sull’albero di maestra, e ordinò al fido Norbert di trasmettere l’ordine. Il Guercio, che aveva servito come Nostromo anche sotto il comando del padre del Rosso, abbaiò l’ordine verso l’equipaggio sul ponte. Lo chiamavano “Guercio,” per via di una sciabolata che gli aveva deturpato il viso, accecandolo da un occhio, il Capitano lo considerava da sempre come un secondo padre, avendo passato gran parte della vita in sua compagnia. Un giovane mozzo, salì agilmente fino alla cima dell’alto pennone di maestra, rincantucciandosi rapidamente nella coffa, e coprendosi con uno spesso telo cerato, per ripararsi dal vento gelido. La strategia della Viking era chiara. Essendo un guscio di noce, nei confronti delle poderose navi da guerra come i galeoni inglesi, doveva giocare d’astuzia. Questo era il piano che Brewal aveva elaborato, ben sapendo che si giocava tutto sulla preparazione e l’addestramento del suo esiguo equipaggio. Il Rosso sapeva che la primavera era il periodo giusto, perché, complici gli Alisei favorevoli, che spiravano dall’Atlantico verso il mare del Nord, un gran numero di navi tornava dalle Indie, o dai Mari del Sud, con le stive cariche di tesori. Molte viaggiavano in convoglio, ed erano quindi impossibili da attaccare, ma vi era sempre qualche nave solitaria, e proprio su queste puntava per far bottino. Mentre stava per rientrare nella sua cabina nel Cassero, dalla coffa giunse il tanto atteso grido” vele a babordo.” Brewal si precipitò alla murata di sinistra puntando il cannocchiale nella direzione indicata, che gli rimandò un’immagine offuscata dalla bruma mattutina di una minuscola vela in lontananza. Il giovane capitano radunò tutti sul ponte e disse. “Ciurma, il momento è arrivato, se questa sarà una nave inglese, facciamo tutti quello per cui ci siamo allenati per mesi, e diventeremo ricchi, e ora forza, tutti ai vostri posti.” Come un meccanismo ben oliato, ognuno si preparava a fare la propria parte. Il piano era stato provato per lungo tempo, e ora era arrivato il momento di metterlo alla prova nella realtà. Due grosse marmitte da cucina, furono poste una nel boccaporto di prora, e l’altra ben celata alla base dell’albero di maestra. Erano colme d’olio di balena e pece, impastati con stoppa. La velatura fu ulteriormente ridotta, lasciando solo i fiocchi sul bompresso che facevano appena muovere il vascello. Dopo quasi un’ora, la possente velatura del cinque alberi in arrivo, era visibile anche a occhio nudo. Sul pennone di maestra, il vento faceva garrire la bandiera inglese. Non sarebbe stata una preda facile pensò Brewal, quello era un galeone potentemente armato. Ormai però, erano stati avvistati, e si doveva rischiare, il Capitano disse, “issate le due bandiere, fuoco alle marmitte.” La bandiera inglese con la croce di San Giorgio, fu issata sull’albero di maestra, mentre quella rossa di pericolo si spiegò al vento sul pennone di mezzana. Il HMS Royal, navigava con il vento in poppa, gli Alisei erano stati favorevoli, e la traversata del mare oceano, (come un tempo si chiamava) si era svolta senza problemi, e ora, fra meno di due giorni sarebbe arrivato a Londra. Sir Charles Holland, era appena stato svegliato dal suono della campana che annunciava il primo quarto di guardia, quando un furioso bussare alla porta lo fece trasalire. Irritato, grugnì un furioso “avanti,” che fece raggelare sull’attenti il giovane terzo ufficiale, che quasi balbettando disse” Signore abbiamo avvistato quella che sembra una nave in fiamme” “arrivo” disse di malagrazia. Dopo essersi infilato la giacca dell’uniforme, prese la feluca e il potente cannocchiale e si diresse alla murata. Un denso fumo si alzava da una piccola nave da carico, vide la bandiera inglese, e quella rossa di pericolo, e per un secondo fu tentato di tirare diritto, tanta era la sua fretta di arrivare in porto, ma poi pensò che al limite, poteva incrementare ancor di più il suo bottino, salvando e incamerando quanto possibile dalla nave in fiamme. Il primo ufficiale scattò sugli attenti e disse ”Signore, io consiglierei prudenza, e manderei in avanscoperta una lancia!” Il Comandante lo gelò rispondendogli piccato” Sig. Jhonson quando vorrò il suo consiglio sarà il primo a saperlo! Non vede che è una piccola baleniera cui il carico ha preso fuoco?” Poi rivolto al terzo disse “Signor Watson, accosti sottovento, e prepari due lance, faccia mettere un plotone di fucilieri sul ponte.” “signorsì” rispose scattando sull’attenti il giovane ufficiale. Sulla nave in fiamme la situazione pareva disperata, un denso fumo nero nascondeva a tratti il ponte, dove gli uomini correvano all’impazzata agitando le braccia, dal pennone di maestra, un pezzo di vela stracciata, mezza bruciacchiata sventolava, mentre alcuni gabbieri cercavano di recuperarla, Sir Holland, ordinò, di serrare le vele, mentre si accostava a quel povero relitto. Il gigantesco vascello con le vele serrate aveva rallentato, fin quasi a fermarsi sottovento a quella piccola imbarcazione, le cui murate arrivavano a stento al suo ponte di batteria, ben sotto la coperta. Il Rosso aveva calcolato tutto, il fumo spirava nella direzione del galeone accecando l’equipaggio, lui era pronto. I cannoni nascosti dalla murata di babordo erano stati caricati con palle di ghisa, mentre quelli di tribordo, erano caricati a mitraglia. Ben nascosti sui due casseri, gli artiglieri erano pronti a piazzare e fare fuoco con le colubrine. Tutto si svolse in un attimo. Quando l’enorme fiancata del galeone si trovava a meno di cinquanta yard dalla Viking, il Rosso urlò “issa la Jolly Roger … giù le murate … fuoco di bordata.” Mentre la bandiera nera con le tibie incrociate occupava il posto di quella inglese, un immenso boato simile al tuono dell’apocalisse colse completamente di sorpresa l’equipaggio del galeone. Gli infallibili cannonieri del Rosso avevano mirato tutti all’unico punto debole del gigantesco vascello; il timone. Colpito in pieno da quella micidiale grandinata di ferro, il timone con buona parte della poppa volò in pezzi, ora il galeone non poteva più governare. In un secondo, i gabbieri, mollarono le vele, e come un purosangue, la Viking scattò in avanti mettendosi di poppa al grosso veliero. Con manovre a otto, la nave corsara, cominciò bordeggiando di bolina, una mortale danza, stando ben attenta a non incrociare le murate irte di cannoni del galeone. “Cannonieri, zeppa verde! Fuoco al mio ordine” urlò il comandante. A ogni passaggio a tribordo sulla congiunzione dell’immaginaria “otto,” partiva una bordata di mitraglia che prendeva d’infilata il grosso vascello immobilizzato, spazzando gli uomini in coperta, mentre il passaggio a babordo le palle incatenate facevano scempio dei gabbieri e dell’alberatura. Le colubrine intanto martellavano con colpi incessanti il ponte Comando, che già con la prima salva posero fine all’esistenza terrena di Sir Holland. Dopo quasi quattro ore di bombardamento, i pochi superstiti del galeone si arresero. Il Rosso li fece scendere nelle lance e li abbandonò al loro destino, certo che sarebbero stati salvati da qualche nave di passaggio. I corsari ebbero appena un morto e quindici feriti. Il relitto del galeone, fu trainato dentro il porto di San Malò, e spogliato del suo prezioso carico, e di tutto quello che avrebbe potuto servire. Lo scafo ormai nudo fu messo in una zona marginale del porto, certi che sarebbe potuto servire come brulotto, in caso di attacco. Questa fu la prima d’innumerevoli vittorie che il Rosso di Malò, come sarebbe stato chiamato, conseguirà, nella sua trentennale carriera di … Corsaro del Re Sole.
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