Orè l'zop
Nulla è come appare
Spetta/Le Redazione
L'avarizia è considerata uno dei sette peccati capitali, se a questa si aggiunge anche la cattiveria, e l'ignoranza, si ottiene una miscela esplosiva, che può trasformare un essere umano in un mostro.
Orè ‘l zop, com’era chiamato in dialetto, abitava in una casa colonica di due piani proprio accanto al cimitero del paese. Figlio unico, con il padre morto nella seconda guerra mondiale, e la madre deceduta poco dopo, a causa di un’infezione da tetano, causata da un taglio a una mano subito mentre falciava l’erba nel piccolo podere di loro proprietà. Questa era costituita oltre all’enorme casa, anche da un vasto appezzamento di terra ormai abbandonato alla vorace, e veloce invasione di sterpi, ed erbacce. Questo grosso rettangolo di terreno, era interamente circondato da un alto muro di pietra, con uno dei lati minori, confinante con il cimitero del paese. Quando i genitori di Orè erano vivi, molti, paragonavano questo luogo al Paradiso Terrestre, perché, sapientemente coltivato, forniva una gran varietà di verdura, oltre a grandi quantità di deliziosa frutta, in particolare susine, pesche, cachi, e le gustosissime mele Annurca. Oggi, ormai solo il frutteto si salvava da quell’imponente massa di rovi, che lo aveva invaso. Oreste, reso zoppo dalla Poliomielite in età scolare, aveva avuto, proprio grazie alla sua invalidità, un posto come usciere, in Municipio, e a lui, di coltivare il suo terreno, non ne aveva mai avuta voglia, oltre a non potere materialmente farlo. Era un tipo alto e segaligno, quasi emaciato, con la barba perennemente lunga e incolta, perché, come malignamente qualcuno affermava, voleva risparmiare anche sulle lamette. Infatti, Oreste, era noto per la sua avarizia quasi patologica, che lo faceva vestire perennemente con la triste cappa grigia che gli passava il Comune, per non consumare i vestiti propri. Era talmente taccagno che non aveva voluto neppure l’allaccio, né alle fogne, né alla rete idrica comunale, preferendo servirsi del vecchio pozzo, e del decrepito e fatiscente “luogo comodo,” a prelievo posto in fondo al podere. Aveva rifiutato anche l’allaccio all’energia elettrica, anche se uno dei pali di legno della linea elettrica, era posto a pochi metri da casa sua, preferendo continuare a usare le decrepite lucerne a petrolio. Parco anche nel mangiare, misurava attentamente i generi alimentari che comprava nella bottega del paese, per non essere costretto a gettare via nulla. Era anche gelosissimo della frutta che il vecchio frutteto elargiva in ogni stagione ormai sempre in minor quantità. Ma lo strano era che non la raccoglieva, né per suo uso, né per vendere, semplicemente lasciava che la frutta maturasse fino a marcire, per poi cadere ai piedi degli alberi. Ma era terribilmente determinato a difenderla da chiunque volesse prenderla, magari proprio perché spinto dalla fame. Si diceva che anche gli uccelli evitassero di posarsi sulle sue piante da frutto, per non rischiare qualche fucilata, indipendentemente che la caccia fosse aperta o chiusa. Alcuni anni fa, una piccola schiera di giovani del paese, spinti dalla goliardia, ma soprattutto dalla fame, tentarono un’incursione notturna, con il risultato, che uno di essi, finì sul tavolo del Dott. Bertoloni Fabio, detto Berton, il farmacista, che dovette levargli dal posto dove non batte il sole, una decina di pallini di piombo. Da allora nessuno tentò più di sfidare la doppietta di Orè. Alla fine degli anni cinquanta, Oreste poté sfruttare una normativa che grazie alla sua invalidità, gli permetteva di andare in pensione in anticipo, così poté dedicarsi anima e corpo, a proteggere la sua frutta da chiunque volesse a suo dire “farlo passare per fesso” e rubarla. A tal proposito un giorno un grosso gatto soriano di proprietà della Sig.ra Fedora, moglie di Berton, cui teneva più del figlio che non aveva mai avuto, forse per inseguire qualche uccello, si arrampicò sopra un albero di mele. Appena Orè lo vide, senza porre tempo in mezzo, gli sparò una fucilata, causandogli la perdita di un occhio, la frattura di una zampa, e una grave ferita al ventre, che dopo alcuni giorni lo portò alla morte. Lo sdegno dei paesani fu enorme, tanto che per più di una settimana Orè evitò di farsi vedere in paese, fino a quando la scarsità di generi alimentari lo costrinse a recarvisi. Il parroco Don Pietro, incontratolo sulla piazzetta, lo redarguì pesantemente, dicendogli che chi non rispettava gli animali non era degno di essere un figlio di Dio, predica che lasciò completamente indifferente Orè. Ma Berton meditò la sua vendetta. Come la maggior parte delle persone del tempo, Orè era semianalfabeta, e molto superstizioso, a tal punto, che non era mai neanche passato accanto al muro del cimitero, perché affermava che ci si “risentisse.” Così Berton decise di far scontare a quel vecchio avaro maligno, la morte del suo adorato micio in modo esemplare, sfruttando proprio la sua paura del soprannaturale. Abilmente, quasi in modo distratto, sparse la voce in farmacia e nella cantina del paese, che aveva saputo che il prossimo venerdì notte ci sarebbe stata un’incursione notturna al podere di Orè, con l’intento di rubare quei splendidi pomi-cachi, che sembravano grosse gemme dorate sui rami ormai spogli. Proprio come egli sperava, la notizia arrivò alle orecchie dell’interessato, che con un sorrisetto maligno, pregustò la sua notte di fuoco. Berton, anche se di una farmacia di periferia, era pur sempre un medico, che oltre ad avere mezzi economici, conosceva molto bene la chimica, oltre ed essere un grande appassionato delle ultime novità tecnologiche, come i primi magnetofoni a batteria Geloso. Il giorno fatidico, Orè non vedeva l’ora di poter sparare a chiunque osasse solo pensare di poterlo deridere, e derubarlo, sia pure di un solo caco. Aveva già caricato la doppietta ad avancarica con una buona dose di polvere nera, e piombo grosso, poi aveva messo i capelletti senza però alzare i cani, e si era appostato dietro il muro circolare del vecchio pozzo, era pronto a tutto, anche a uccidere pur di non passare da scemo. Il tempo passava e il buio avanzava sempre più, fino a quando uno spicchio di luna crescente illuminò debolmente quella fredda notte novembrina. La luna pareva giocare a nascondino tra le nubi, che a tratti la nascondevano completamente, il vecchio orologio del campanile della chiesa, batteva l’una del mattino, quando Orè sentì un rumore. Cautamente alzò la testa dal muretto e lo vide. Una nera sagoma si stava arrampicando sul muro del cimitero, proprio dal lato, dove le piante di cachi erano più numerose. Ma stranamente quella figura emetteva una luce verdastra, spaventato e sorpreso, con le mani che trenavano, Orè sollevò la doppietta, la puntò verso l’ombra luminosa e sollevò i cani. Berton udì distintamente il clic del cane che si armava, e velocemente premette il pulsante. Uno sferragliante rumore di catene ruppe il silenzio notturno, e lui alzò al massimo sia il volume, che il bastone, sulla cui sommità era fissato il manichino di tela nera. Dopo un secondo, un boato simile a un tuono lacerò il silenzio della notte, seguito da un secondo in rapida successione. Il colpo fu tale che per poco il bastone non gli fu strappato dalle mani. Orè, spaventatissimo, dopo le detonazioni, sentì un rumore di catene che non si aspettava, poi successe una cosa che lo terrorizzò fin quasi a farlo svenire. La figura sul muretto, anziché urlare e cadere, prese istantaneamente fuoco, e con una risata agghiacciante, che metteva i brividi, ballando, anche se in fiamme, si avvicinava a lui. Non poteva essere umano, così Orè, urlando come un pazzo, mollò il fucile, e scappò fin sulla piazza del paese, battendo i pugni contro la porta del Municipio perché lo facessero entrare. Il Sindaco, svegliato dal trambusto, lo trovò sdraiato in terra con la testa tra le mani che urlava e piangeva, mentre era completamente pieno di un prodotto fisiologico non proprio profumato. Da quella notte Oreste non volle più abitare nella sua vecchia casa, che dopo pochi anni cadde in rovina, proprio come il magnifico frutteto, e tutto per colpa di un pò di fosforo, e un magnetofono.
Mario Volpi 15.02.21
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