I forzati del riciclo
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Ecologia e riciclo oggi sono quasi un mantra. Ma siamo
sicuri che tutti capiscono cosa vogliono significare?
Alcuni giorni fa ho assistito a una trasmissione televisiva in cui una ragazza si autoincensava quasi come un’antica eroina medievale perché aveva deciso di riciclare il telefonino del modello precedente a quello attuale. Oggi, le parole “riciclo” e “ecologia,” sono sulla bocca di tutti, forse addirittura abusate, ma siamo sicuri che chi le pronuncia così spesso, sia consapevole del loro significato? E’ chiaro che io sto parlando non di quello linguistico, ma quello comportamentale. Senza paura di essere smentito, io penso che questa “ignoranza” delle nuove generazioni sia una cosa più che positiva, perché vuol dire che la fame, e la miseria, i veri “insegnanti” del riciclo, non sono più tra noi. Per meglio far capire di cosa sto parlando, descriverò una tipica giornata dedicata al “riciclo-forzato” negli anni cinquanta. Secondo le stagioni, i contadini, e fortunati loro, potevano dedicarsi ad alcune attività di riciclo, che avrebbero avuto il merito di rendere la loro vita meno dura. Cominciamo con la raccolta del mais, meglio conosciuto come granoturco. Qualcuno al tempo soprattutto in Lunigiana, diceva in dialetto” ‘l f’rmenton iè com ‘l porco a s buta nient” (il mais è come il maiale non si butta niente.) Questo è vero, ma la fatica per ottenere ciò era notevole. Per prima cosa si raccoglievano le pannocchie, e dopo alcuni giorni si provvedeva ad estirpare tagliandoli alla base col “penat” (roncola) anche i fusti. Dopo essere state poste nell’aia ad asciugarsi al sole per almeno tre giorni, si procedeva alla “scartozzera” ossia si spogliava la pannocchia del suo involucro di foglie, le brattee. Queste non erano gettate, essendo il primo riciclo, ma usate per riempire le “scod’rze” ossia i materassi. Con l’aiuto di tutto il vicinato, e dopo che ogni pannocchia era stata privata di una fila di chicchi dal nonno passandolo sull’angolo della zappa, per permettere di farlo in modo più agevole, si passava alla sgranatura. Questa operazione era svolta la sera “a veglia” dopo i normali lavori giornalieri, nella stalla o nel fienile, ed era anche un’occasione di stare insieme, e per gli adolescenti di provare i primi turbamenti per l’altro sesso, accompagnati spesso dalle scherzose e salaci battute degli adulti. Il secondo riciclo erano i tutoli, destinati al poco edificante destino di … carta igienica. Ma non finiva qui, perché i fusti tagliati in pezzi più corti erano usati come “letto” per il bestiame, rientrando l’anno dopo nel campo come letame. Anche la mietitura del grano forniva materiale per il riciclo. Un tempo era molto usata in tutti gli spacci alimentari la “carta gialla” fatta proprio con la paglia. Anche nel nostro territorio esisteva una cartiera dedita a questa lavorazione, oggi chiusa. Anche noi ragazzini eravamo dediti al riciclo della carta, e lo facevamo esclusivamente a “scopo di lucro.” Si agiva così. Un tempo le edicole erano numerosissime sul territorio e tutte avevano un problema di spazio, così alle copie di giornali, o rotocalchi invendute, tagliavano solo l’intestazione che rispedivano all’editore, mentre il resto finiva nelle nostre avide mani, Ogni quindici giorni la “banda” composta di circa venti ragazzini tra gli otto e i dodici anni, con il carrettino faceva il giro delle edicole per ritirare i giornali da macero. Qualche volta eravamo fortunati e capitava anche qualche grosso scatolone, che una volta conteneva libri. Arrivati nel nostro quartiere, la carta era messa ben pressata in un sacco di juta e poi immersa nel “b’tal” (canale d’irrigazione comunale) per due giorni. Quando la si estraeva era una morbida pappa che noi modellavamo con le mani in palle grosse come arance, che poi mettevamo a seccare al sole. Venti palle di carta pressata le facevamo pagare 150£ guarda caso il costo dell’ingresso al cinema di Fossola. Anche se sembra irreale le nostre palle erano ricercatissime per accendere la stufa, tanto che non riuscivamo, anche per mancanza di materia prima, a soddisfare la richiesta. Maestri nell’arte del riciclo erano certamente i boscaioli. La legna, o il carbone da essa derivato, erano a quel tempo gli unici combustibili per uso domestico, quindi i proprietari di boschi, erano paragonabili ad avere oggi un pozzo petrolifero. Il bosco era venduto “in piedi” ossia con gli alberi ancora da tagliare, e aspettava al boscaiolo, cercare di ricavare dalla vendita di legna e derivati, il denaro non solo necessario per pagare il proprietario, ma anche il suo guadagno. Per fare ciò nulla era sprecato. Dopo il taglio dell’albero, si passava al suo sfrondamento, quindi alla legna di prima, seconda e terza categoria. Le fronde dopo una leggera essicazione erano vendute ai panifici, insieme alla legna di terza categoria cioè sottile e lunga adatta però ad essere infilata nel forno. La seconda categoria era legno di solito di cerro, ontano, e frassino, tagliato a misura per le stufe, mentre la prima era esclusivamente composta da grosse travi di castagno, non adatte ad essere bruciate, ma ottime per diventare travi da tetto, pali da vigna o infissi. Anche le scaglie fatte dell’accetta chiamate “tacchete” erano vendute, di solito per poche lire al” lattone” (grosso barattolo) ai meno abbienti. Nel bel mezzo dell’inverno era fatta la potatura degli ulivi, un tempo assai numerosi. Questa operazione nei terreni dei grossi proprietari, erano attive delle vere e proprie squadre di specialisti, che come pagamento prendevano solo lo scarto della potatura. Sembrerebbe una stupidaggine, ma la cenere dell’ulivo a quei tempi era indispensabile per fare il “ran” per il bucato, composto appunto di lisciva cenere e acqua bollente. Quindi vendevano sia la cenere che i rami più grossi come legna da ardere pregiata, perché l’ulivo brucia benissimo anche da verde. Nel bosco di solito vi erano anche qualche pino. Questi non venivano abbattuti perché con la resina di cui erano impregnati, non erano adatti ad essere bruciati, ma le loro pigne, dopo essere state liberate dai pinoli, erano vendute come “esche” pe l’accensione rapida di stufe e caminetti. Il riciclo era talmente diffuso, che aveva generato un vero e proprio mestiere; lo stracciaio. Costui acquistava per poche lire rottami di ferro, carta e stracci, che poi rivendeva a ferriere e cartiere. Anche le persone normali, attanagliate dalla miseria più nera, s’inventavano ricicli per ricavare qualche lire. Così il ferroviere metteva da parte i piombi usati per piombare i vagoni, qualcuno faceva il giro di bar e cantine per ritirare i tappi metallici delle bibite per rivendere come rottame, si raccoglievano perfino i cocci di bottiglie rotte, usati dall’edilizia per porre come deterrente sui muri di cinta o mescolati al cemento nei pavimenti in cantine e sotterranei contro lo scavo dei topi. Quindi una domanda sorge spontanea, come affermava l’indimenticato Antonio Lubrano, quanti degli “ecologisti” odierni, propensi magari a “sacrificarsi” usando ancora un telefono fuori moda sarebbero disposti a fare forzatamente un simile riciclo?
Mario Volpi 1.01.23