Civitas a Megalopoli
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Spesso gli umani cercano di copiare dalla Natura per
riprodurre a proprio vantaggio tecniche di sopravvivenza, o materiali "hi
tech" come la tela di ragno. Non sempre però questi esperimenti riescono.
Così, mentre api e formiche riescono a vivere in milioni d'individui
all'interno di un'unica "casa," questo per l'uomo, crea solo
problemi, spesso irrisolvibili.
Come gran parte dei mammiferi, anche
l’uomo è un animale sociale. Questa sua tendenza all’aggregazione con altri
individui della sua stessa specie, fu evidente fin dal Paleolitico, dove
piccoli gruppi di ominidi, crearono le prime tribù. Ma la vera svolta
nell’evoluzione fu quando da cacciatore e raccoglitore nomade, l’uomo si
trasformò in agricoltore e allevatore stanziale. Questo periodo fu
caratterizzato dalla nascita dei primi accampamenti fissi, attorno ai quali si
svolgeva la vita quotidiana, senza più la necessità di percorrere chilometri in
cerca di sostentamento. La tribù stanziale, comportava per il singolo
individuo, degli enormi vantaggi. Prima di tutto poteva contare sul lavoro
collettivo per modificare l’ambiente secondo le sue necessità, altra cosa
d’importanza basilare, era la possibilità di difesa collegiale contro animali
selvatici, o altre tribù ostili, e non ultimo, la possibilità di effettuare più
facilmente piccoli commerci o baratti, necessari alla sua sopravvivenza.
L’apice di questa “associazione d’individui” si ebbe in età romana con la
nascita delle Civitas. Queste prime città possedevano anche un abbozzo di
progetto urbanistico comprendente edifici di pubblica utilità, come templi,
terme, fonti pubbliche, e Foro, dove si amministrava la giustizia, oltre
ovviamente, l’immancabile circo, per i giochi. Nelle Civitas romane, il
cittadino era considerato parte integrante della città, con doveri e piaceri,
che dovevano essere in egual misura soddisfatti. Con la caduta dell’Impero
Romano, però, tutto questo cadde in rovina, le popolazioni barbariche, erano nomadi,
e non capivano neppure il concetto di città. Per secoli le italiche genti tornano
quasi all’età della pietra, decimate da saccheggi, stragi, e carestie devastanti,
seguite da terribili epidemie, che in alcuni casi, misero la scarsa popolazione
Europea a rischio d’estinzione. Qualunque tipo di comunità si dissolse, e i
superstiti si frammentano in piccolissimi gruppi, quasi sempre composti di un
solo nucleo famigliare, che per sfuggire alle violenze, si nascondevano nel
folto di macchie, o boschi impenetrabili. Solo attorno all’anno mille, si torna
a un barlume di civiltà collettiva, con l’aggregarsi di piccoli gruppi di
persone nei dintorni di chiese o conventi, gli unici luoghi che
nell’immaginario della gente, potevano offrire una qualche forma di protezione
contro la legge del più forte. Piano, piano, si formarono i Castrum, piccoli
agglomerati di baracche attorno a castelli o abbazie fortificate. Nascono così
le prime vere città, cinte da mura, dove le case con la gente sono all’interno,
e i campi, fonte di sostentamento alimentare, sono all’esterno di esse. Per
secoli, le città, saranno così strutturate, assicurandosi che tutto quello
riguardante la logistica “alimentare,” vitale per la sopravvivenza dei suoi
abitanti, non fosse distante più di mezza giornata di carro. Questa necessita
di non “consumare,” per costruzioni edili, terreno utile per scopi agricoli, o
da pascolo, fece sì che i centri urbani non potessero svilupparsi in ampiezza
più di tanto, e di conseguenza anche il numero degli abitanti restò
praticamente invariato. Ma sul finire del XVII secolo, una nuova invenzione,
cominciò lentamente a porre fine a questa limitazione, che fino ad allora
pareva insormontabile. Con le prime ferrovie dotate di locomotive a vapore, la
distanza cominciò a non essere più un problema. La città poteva fare arrivare
tutto quello di cui aveva bisogno anche da distanze un tempo incolmabili. Non
solo, alcune categorie di persone, come i braccianti, prive di esperienze lavorative
al di fuori di quella agricola, che un tempo non avrebbero avuto prospettive di
sopravvivenza nei centri urbani, ora, con i nuovi mestieri legati al commercio,
e al lavoro in fabbrica, potevano aspirare a un impiego e una vita migliore.
Così a poco, a poco, le città, non avendo più alcun bisogno della campagna
circostante per uso agricolo, la usarono per espandersi, con la costruzione di
case, ma soprattutto di enormi edifici per la nascente industria, che
prometteva lavoro e pane per tutti. Questa politica autolesionista, ebbe il suo
culmine agli inizi del XIX secolo, con le migrazioni di massa dalle campagne
verso le città, con il miraggio di uno reddito economico fisso; il salario.
Quasi sempre, però, questo fenomeno, si
rivelò per molti, il classico salto “dalla padella alla brace,” perché,
mentre prima da agricoltori, almeno il cibo lo avevano, ora, molti di loro erano
costretti a mendicarlo, o a procurarselo con mille espedienti, incluse azioni
criminali. Il numero degli abitanti in alcune città salì in modo vertiginoso ed
esponenziale, fino a sfiorare, in alcune di esse, il folle numero di venti
milioni di abitanti. La nascita delle megalopoli, con la loro immensa
popolazione, in uno spazio relativamente ristretto, ha causato, e continua a
farlo, problemi logistici difficilmente risolvibili, come inquinamento acustico,
e ambientale, traffico caotico, sacche di povertà estrema, dovuta alla mancanza
di lavoro per tutti, con la nascita di interi quartieri di baraccopoli, privi
di qualsiasi servizio, come le favelas brasiliane. Ma i problemi non finiscono
qui, vi sono difficoltà nel reperire, e distribuire, le risorse idriche, com’è
problematico farlo in modo efficiente con l’energia elettrica, scarsa capacità
di depurare le acque di scarico, e di raccogliere e trattare adeguatamente le
migliaia di tonnellate di rifiuti solidi urbani prodotti quotidianamente. Anche
l’ordine pubblico non è garantito, visto l’altissimo tasso di criminalità.
Perfino il territorio Apuano, non fu immune da questa “corsa al progresso” come
veniva chiamata al tempo, quest’assurdo fenomeno sociale. Tra Massa e Carrara,
nacque, durante il ventennio, un Polo Industriale, con stabilimenti
petrolchimici, chiamato pomposamente “la Zona,” che prometteva un radioso
futuro, e un sostanzioso ritorno economico per tutti. La vasta pianura
alluvionale ai piedi delle Apuane, un tempo un vero e proprio giardino, venne
deturpata irrimediabilmente con la costruzione di enormi fabbriche, e i
contadini che vi lavoravano furono convinti a trasformarsi in operai. Dopo
pochi anni però, questo sogno si dimostrò effimero, come un miraggio nel
deserto. Dopo alcuni gravi incidenti ambientali, le industrie “delocalizzarono”
all’estero, dopo aver avvelenato forse per secoli, la terra, e le falde
acquifere. Ai carrarini rimasero solo l’incidenza di tumori più alta d’Italia,
e i fatiscenti scheletri in cemento armato dei capannoni, spesso coperti con la
cancerogena “Eternit,” che tanti lutti ha provocato, e che provocherà ancora
per decenni. Così centinaia di ettari di meravigliosa campagna sono stati
sacrificati per sempre, in nome di un miracolo economico, mai avvenuto.
Mario Volpi 17.4.21
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