Un mese magico
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Oggi le stagioni hanno importanza solamente per il
modo in cui la gente si veste, ma un tempo, l'autunno era considerato un pò il periodo
in cui gli sforzi di un intero anno di lavoro si concretizzavano, con le due attività
principale, la vendemmia e la raccolta delle olive. Ma arrivava anche il freddo
quindi ...
A
differenza dell’Era moderna, per cui tutti i mesi hanno più o meno la stessa
importanza, per l’antico mondo contadino, da sempre, il mese di ottobre era
considerato un mese magico. Forse per i radicali cambiamenti climatici, ma
soprattutto perché è la “porta” d’ingresso nell’inverno, un periodo, al tempo,
assai duro. Mi ricordo che quando ero bambino, la malinconia della scuola
iniziata a settembre, era mitigata proprio dal mese di ottobre, con le mille
cose da fare, alcune anche molto divertenti per noi piccoli. Era quasi un
gioco, ma aiutava molto la famiglia a mettere in tavola un po’ di proteine, il
tendere trappole e archetti, agli uccelli di passo, come fringuelli, tordi,
merli e soprattutto i tonti culbianchi. Nei pomeriggi dopo la scuola, o nelle
festività, si partiva verso le colline di Fontia, e Monteverde, per tendere gli
archetti, innescati con le camole, (larve della farina) allevate a questo
scopo. Mentre nei campi appena arati, o nei prati appena tagliati, si mettevano
le trappole per il culbianco, che oggi, oltre ad essere protetto, e quasi
scomparso a causa dell’avanzare del bosco ambiente non adatto a lui. Se la
battuta di caccia era risultata fortunata, alla sera la mamma faceva la mitica
polenta e uccelletti, una vera leccornia. Nel mese di ottobre, l’intera
fattoria era pervasa da un’attività frenetica. Tutti avevano qualcosa da fare, dai
bambini, fino al nonno, e bisognava farla in fretta, perché il freddo
dell’inverno si avvicinava a grandi passi. I lavori più importanti erano
sicuramente, la vendemmia, e la “cura” del vino in cantina, con le sue
frequenti “spogliature” ottenute cambiandolo dai tini alle damigiane. Anche la
vite andava potata e legata prima dei grandi freddi, e i rami di risulta, ben
affastellati dovevano essere posti al riparo
nel fienile, per servire da combustibile per scaldare il forno prima di
fare il pane. Altro lavoro inderogabile, era la preparazione dei terreni per la
semina del grano. Si cominciava con il portare il letame nei campi. Per fare
questo era richiesta anche l’opera di noi più piccoli. Il fattore e i suoi
aiutanti, erano addetti a caricare la “tragia” (una slitta di legno e vimini)
trainata da due mucche aggiogate, di letame, prelevato dall’immenso mucchio
accanto alla stalla, che noi bambini, sentendoci “grandi, ” guidavamo fino al
campo, dove altri la scaricavano. Era molto divertente andare con i genitori “a
giornata” a raccogliere le castagne, noi bambini non avevamo l’obbligo di
lavorare come gli adulti, e spesso si mettevamo alla ricerca di funghi. Il
padrone del castagneto, ci dava da mangiare a mezzogiorno, e un po’ di castagne
da portare a casa, dove già per cena erano trasformate in gustose caldarroste.
Era invece considerata inadatta a noi bambini la raccolta delle olive. Questa
avveniva con l’impiego di uomini in giornata, specializzati a salire sugli
ulivi anche a grande altezza, e a bacchiare con lunghe canne d’india le olive,
che era raccolte a terra dalle donne, per poi essere immediatamente portate al
frantoio a dorso di mulo. La fattora invece, era impegnatissima nella parte
finale dell’ingrassamento di capponi e tacchini. Ogni fattoria aveva un certo
numero di questi animali allevati e ingrassati con un unico scopo; la loro
donazione al padrone del terreno, e la vendita alle famiglie benestanti. I
tacchini, e capponi, erano allevati all’aperto, ma in ottobre venivano messi in
un recinto provvisto di tetto, e soprattutto i tacchini erano sottoposti ad
alimentazione forzata. Si procedeva così: Il tacchino, chiamato in dialetto
Pito, era posto tra le gambe della fattora seduta su un basso sgabello, che
dopo aver formato con le mani delle polpettine di pastone, composto da crusca,
fioretto, farina, e camole tritate, la infilava a forza in gola all’animale. Anche
il maiale, in previsione della sua uccisione a gennaio, era messo all’ingrasso,
con una dieta più abbondante, arricchita con frutta di scarto, e castagne
guaste. Anche il nonno aveva il suo da fare. I salici chiamati in vernacolo
“torchi” erano capitozzati, e i rami venivano portati nella stalla, dove il
nonno, ciccando incessantemente, con l’immancabile coltello da innesti, li
tagliava ordinandoli in mazzette, per poi metterli a macerare in una vasca
d’acqua per tenerli morbidi e flessibili. Oltre che per legare la vite, i
salici servivano per costruire ceste e canestri, e riparare quelli danneggiati.
Ottobre era anche il mese ideale per mettere a dimora nuove piante di vite, e
da frutto, e per eseguire innesti. Si faceva anche l’ultimo taglio di fieno nei
campi, ma era giudicato di scarsa qualità, e era utilizzato soprattutto come
lettiera per gli armenti. Le
nonne, aspettavano con trepidazione ottobre, perché era il mese dedicato al
Santo Rosario, così a secondo delle Parrocchie, questo veniva recitato nelle
chiese, o al mattino presto, prima del lavoro nei campi, o alla sera tardi,
quando ormai imbruniva. Queste pie donne, aderivano a queste faticose
celebrazioni, come una forma di penitenza per espiare i loro peccati, ma
soprattutto per intercedere con l’Altissimo perché mandasse all’intera
famiglia, salute e benessere. Oggi
tutto questo sembra preistoria, impossibile da credere che fosse realtà appena
sessanta anni fa, ma per chi come me l’ha vissuta in prima persona, ottobre mi
genera ancora una profonda nostalgia, soprattutto per l’ingenua felicità che
noi bambini provavamo al tempo per cose che oggi, sarebbero considerate più che
banali.
Mario Volpi 25.10.2020
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