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Sezione a cura di Mario Volpi
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Un mese magico

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Oggi le stagioni hanno importanza solamente per il modo in cui la gente si veste, ma un tempo, l'autunno era considerato un pò il periodo in cui gli sforzi di un intero anno di lavoro si concretizzavano, con le due attività principale, la vendemmia e la raccolta delle olive. Ma arrivava anche il freddo quindi ...

A differenza dell’Era moderna, per cui tutti i mesi hanno più o meno la stessa importanza, per l’antico mondo contadino, da sempre, il mese di ottobre era considerato un mese magico. Forse per i radicali cambiamenti climatici, ma soprattutto perché è la “porta” d’ingresso nell’inverno, un periodo, al tempo, assai duro. Mi ricordo che quando ero bambino, la malinconia della scuola iniziata a settembre, era mitigata proprio dal mese di ottobre, con le mille cose da fare, alcune anche molto divertenti per noi piccoli. Era quasi un gioco, ma aiutava molto la famiglia a mettere in tavola un po’ di proteine, il tendere trappole e archetti, agli uccelli di passo, come fringuelli, tordi, merli e soprattutto i tonti culbianchi. Nei pomeriggi dopo la scuola, o nelle festività, si partiva verso le colline di Fontia, e Monteverde, per tendere gli archetti, innescati con le camole, (larve della farina) allevate a questo scopo. Mentre nei campi appena arati, o nei prati appena tagliati, si mettevano le trappole per il culbianco, che oggi, oltre ad essere protetto, e quasi scomparso a causa dell’avanzare del bosco ambiente non adatto a lui. Se la battuta di caccia era risultata fortunata, alla sera la mamma faceva la mitica polenta e uccelletti, una vera leccornia. Nel mese di ottobre, l’intera fattoria era pervasa da un’attività frenetica. Tutti avevano qualcosa da fare, dai bambini, fino al nonno, e bisognava farla in fretta, perché il freddo dell’inverno si avvicinava a grandi passi. I lavori più importanti erano sicuramente, la vendemmia, e la “cura” del vino in cantina, con le sue frequenti “spogliature” ottenute cambiandolo dai tini alle damigiane. Anche la vite andava potata e legata prima dei grandi freddi, e i rami di risulta, ben affastellati dovevano essere posti al riparo nel fienile, per servire da combustibile per scaldare il forno prima di fare il pane. Altro lavoro inderogabile, era la preparazione dei terreni per la semina del grano. Si cominciava con il portare il letame nei campi. Per fare questo era richiesta anche l’opera di noi più piccoli. Il fattore e i suoi aiutanti, erano addetti a caricare la “tragia” (una slitta di legno e vimini) trainata da due mucche aggiogate, di letame, prelevato dall’immenso mucchio accanto alla stalla, che noi bambini, sentendoci “grandi, ” guidavamo fino al campo, dove altri la scaricavano. Era molto divertente andare con i genitori “a giornata” a raccogliere le castagne, noi bambini non avevamo l’obbligo di lavorare come gli adulti, e spesso si mettevamo alla ricerca di funghi. Il padrone del castagneto, ci dava da mangiare a mezzogiorno, e un po’ di castagne da portare a casa, dove già per cena erano trasformate in gustose caldarroste. Era invece considerata inadatta a noi bambini la raccolta delle olive. Questa avveniva con l’impiego di uomini in giornata, specializzati a salire sugli ulivi anche a grande altezza, e a bacchiare con lunghe canne d’india le olive, che era raccolte a terra dalle donne, per poi essere immediatamente portate al frantoio a dorso di mulo. La fattora invece, era impegnatissima nella parte finale dell’ingrassamento di capponi e tacchini. Ogni fattoria aveva un certo numero di questi animali allevati e ingrassati con un unico scopo; la loro donazione al padrone del terreno, e la vendita alle famiglie benestanti. I tacchini, e capponi, erano allevati all’aperto, ma in ottobre venivano messi in un recinto provvisto di tetto, e soprattutto i tacchini erano sottoposti ad alimentazione forzata. Si procedeva così: Il tacchino, chiamato in dialetto Pito, era posto tra le gambe della fattora seduta su un basso sgabello, che dopo aver formato con le mani delle polpettine di pastone, composto da crusca, fioretto, farina, e camole tritate, la infilava a forza in gola all’animale. Anche il maiale, in previsione della sua uccisione a gennaio, era messo all’ingrasso, con una dieta più abbondante, arricchita con frutta di scarto, e castagne guaste. Anche il nonno aveva il suo da fare. I salici chiamati in vernacolo “torchi” erano capitozzati, e i rami venivano portati nella stalla, dove il nonno, ciccando incessantemente, con l’immancabile coltello da innesti, li tagliava ordinandoli in mazzette, per poi metterli a macerare in una vasca d’acqua per tenerli morbidi e flessibili. Oltre che per legare la vite, i salici servivano per costruire ceste e canestri, e riparare quelli danneggiati. Ottobre era anche il mese ideale per mettere a dimora nuove piante di vite, e da frutto, e per eseguire innesti. Si faceva anche l’ultimo taglio di fieno nei campi, ma era giudicato di scarsa qualità, e era utilizzato soprattutto come lettiera per gli armenti. Le nonne, aspettavano con trepidazione ottobre, perché era il mese dedicato al Santo Rosario, così a secondo delle Parrocchie, questo veniva recitato nelle chiese, o al mattino presto, prima del lavoro nei campi, o alla sera tardi, quando ormai imbruniva. Queste pie donne, aderivano a queste faticose celebrazioni, come una forma di penitenza per espiare i loro peccati, ma soprattutto per intercedere con l’Altissimo perché mandasse all’intera famiglia, salute e benessere. Oggi tutto questo sembra preistoria, impossibile da credere che fosse realtà appena sessanta anni fa, ma per chi come me l’ha vissuta in prima persona, ottobre mi genera ancora una profonda nostalgia, soprattutto per l’ingenua felicità che noi bambini provavamo al tempo per cose che oggi, sarebbero considerate più che banali.
Mario Volpi 25.10.2020
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