La caccia...una volta
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Tra pochi giorni vi sarà una mini apertura di caccia,
con forti limitazioni sulle specie cacciabili e sul modo di farlo. Oggi la
maggior parte dei cacciatori è votata alla caccia al cinghiale, ma un tempo, la
meta agognata da tutti erano le ricche zone nel Parmense o nelle pianure toscane,
per moltissimi però, restata solo un sogno.
La
caccia a Carrara negli anni sessanta
Il
20 di settembre, in Toscana, apre la stagione della caccia 2020-2021. Oggi
quest’evento passa quasi inosservato, anche a causa del numero dei cacciatori,
che in Toscana, ma di fatto in tutta Italia, è andato gradatamente riducendosi,
arrivando a essere poco più di settecentomila. All’inizio degli anni sessanta
invece, i seguaci di Sant’Uberto, erano quasi tre milioni, oltretutto senza le
ferree leggi esistenti oggi in materia venatoria. Una volta, l’andare a caccia,
era per il maschio adolescente, quasi una forma di passaggio alla vita adulta, come
se il permesso d’imbracciare un fucile, fosse la prova che “i grandi” si
fidavano di te. Il “permesso di caccia” come si chiamava a quei tempi, non
necessitava di studi o esami come oggi, addirittura con il consenso di un
genitore, un ragazzo sedicenne poteva ottenerlo, versando una modesta tassa
governativa, e avendo i denari, si poteva, con quel documento, comprare anche
una doppietta. “L’apertura” come si diceva una volta, era un
avvenimento atteso con ansia, e per il quale ci si preparava mesi prima. Il
territorio Apuano, però era poco adatto per la sua morfologia, e per la sua
forte antropizzazione, ad ospitare una fauna selvatica stanziale, come lepri o
fagiani. A quei tempi non vi erano ancora gli enormi branchi di cinghiali di
oggi, e questi ungulati si trovavano solo, e in numero più che esiguo, in
alcune riserve di caccia toscane, e in Sardegna. L’altra cosa che al tempo
scarseggiava, oltre alla selvaggina, erano i denari, così per esercitare questa
“passione,” si era formato un vero e proprio ”indotto parallelo,” alle armerie
autorizzate, che se da una parte, permetteva a quelli che lo praticavano,
magari non in modo del tutto legale, di raggranellare qualche soldo extra,
dall’altra aiutava questo esercito di cacciatori squattrinati ad andare a
caccia. Le cartucce venivano caricate in modo artigianale, per risparmiare il
più possibile sui materiali necessari. Alcuni cavatori, vendevano sottobanco
per poche lire, la polvera nera da mina, che noi chiamavamo “marciona.” Oggi a
fare queste cose si verrebbe arrestati come terroristi, ma a quel tempo a
nessuno pareva strano o pericoloso. La polvere, nel mese di luglio, era esposta
al sole, per farla “seccare,” cosa che si faceva senza capirne molto il senso,
l’unica cosa certa era che questa cambiava colore diventando da nera, a grigia.
Poi bisognava procurarci i bossoli, ovviamente saltando l’acquisto in armeria.
A quei tempi erano attivi sul territorio Apuano, diversi campi di “tiro a volo”
dove oltre al tiro al piattello, i “signori” praticavano anche il tiro al
piccione. I bossoli lasciati sul terreno, al tempo solo di cartone, recuperati
a costo zero, erano ricalibrati, con un apposito attrezzo, poi si metteva una
capsula nuova ed erano pronti per essere ricaricati. Per fare il cartoncino, che
separava la polvere, dal borraggio e dal piombo, si usava una fustella da
meccanico, e il cartone, era preso dagli scarti dalle botteghe di alimentari,
una volta presenti in gran numero. Il borraggio industriale, era sostituito
dalla crusca, ma lo scoglio maggiore era trovare, il piombo per i pallini, e
soprattutto farli. Qualche idraulico, vendeva un tanto al kilo, i ritagli di
tubature di piombo nuove, o vecchie di recupero, mentre qualche ferroviere, addetto
alla piombatura dei vagoni, vendeva i piombi usati. Per contenere la spesa, e
organizzare la fonderia artigianale, spesso ci si consorziava in quattro o
cinque, e quando questa “compagnia di squattrinati” raggiungeva una decina di
kg di piombo, ci si ritrovava in qualche aia e si dava inizio alla fusione. Un
barattolo della conserva vuoto, opportunamente sagomato diventava il crogiolo,
un vecchio catino pieno d’acqua era posto sotto una panca, o una sedia di
legno, sul cui angolo era stata preventivamente inchiodata una carta da gioco.
Quando il piombo diventava liquido, si prendeva con una pinza l’improvvisato
crogiolo, e si versava lentamente sulla carta da gioco, da cui rimbalzava per
cadere nel catino dove raffreddava all’istante. Non tutti pallini venivano
rotondi o dello stesso diametro, perciò si faceva una cernita rifondendo quelli
venuti male. Alcuni cacciatori “marinelli” avevano la fortuna di conoscere
qualche “bagnante” di Parma, per noi giovani cacciatori, una località venerata
come il Walhalla: Così alcuni di loro, il sabato prima dell’agognata apertura,
carichi come muli di generi di prima necessità come acqua e viveri, oltre a
fucili e munizioni, e qualcuno anche il cane, prendevano il treno alla Stazione di Avenza, e
iniziavano il grande viaggio verso la casa di questi occasionali conoscenti. Si
pensi che a quel tempo era necessario cambiare convoglio ben tre volte per
recarsi a Parma e Reggio Emilia. Spesso, per essere benevolmente accolti, come
moderni Re magi, portavano in dono una ”albanella” di acciughe sotto sale, che
li autorizzava così, a dormire vestiti in qualche fienile, per essere pronti
all’alba del giorno dopo a cacciare la misteriosa e fantomatica lepre. Al tempo
l’apertura avveniva l’ultima domenica d’agosto, e vi posso assicurare, che alle
tre del pomeriggio, sotto il sole che picchia sulla testa come un maglio,
camminare in qualche campo “coltrato,” che si estendeva a perdita d’occhio, era
una vera tortura, ma con il miraggio di una lepre come preda si faceva
volentieri. Alcuni invece, sempre in treno si recavano “in Toscana” come se noi
qui fossimo fuori regione. Le mete preferite erano San Casciano in Val di Pesa,
o i dintorni di Siena, dove l’esistenza di moltissime “bandite” come al tempo
si chiamavano le riserve di caccia, potevano far sperare nell’incontro del
mitico fagiano. La maggior parte dei cacciatori carrarini però, era destinata,
dopo una levataccia a ora antelucana, a vagare in questo deserto dei Tartari,
portando a spasso la doppietta, o a sprecare piombo fucilando i furbissimi
passeri, che dopo i primi colpi, volavano ad altezze siderali. Al mesto ritorno
alle proprie case, con il “ciapin” (carniere) desolatamente vuoto, si sentiva
dire da tutti la solita frase, ripetuta come un mantra, “quest’altr’anno però
…!
Mario Volpi 11.09.2020
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