Il Titanic
Spetta/le Redazione
Quale migliore occasione che la stagione estiva per proporvi questo divertente racconto realmente accaduto parecchi anni fa, a due miei carissimi amici che certamente si riconosceranno nei due protagonisti del racconto, anche se io per ovvi motivi ho cambiato i loro nomi. Questi due autentici "marinelli" splendidi marinai, cresciuti a pane e remi, mi hanno portato parecchie volte nelle loro battute di pesca, e vi posso assicurare che con il loro buonumore e simpatia, mitigano la delusione per le sempre minori prede che il nostro povero mare può donarci. Buon divertimento.
Volpi Mario
30 Giugno 2012
Francesco è Roberto erano cresciuti insieme. Nati nello stesso quartiere di Marina di Carrara, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, erano sempre stati insieme, dalle scuole elementari, fino all’Istituto Nautico. Anche nel servizio militare furono commilitoni, marinai all’isola della Maddalena. Avevano sposato due ragazze dello stesso quartiere, ed erano entrambi dipendenti dei Cantieri Navali di Marina di Carrara, anche se con mansioni diverse, uno carpentiere, l’altro motorista. Fisicamente erano molto diversi, uno alto e possente, con un carattere calmo e tranquillo, mentre l’altro leggermente più basso e più magro, aveva un temperamento sanguigno, sempre pronto al confronto, li accumunava la profonda amicizia e il rispetto reciproco, che impediva all’uno di soverchiare l’altro.
Avevano in comune anche la passione per il mare, soprattutto per la pesca ma problemi di tempo, e soprattutto economici, gli avevano sempre impedito di coronare il sogno della loro vita, ossia possedere una barca da pesca. Ora dopo più di quaranta anni di lavoro, erano a pochi mesi dalla pensione, e avevano in progetto di usare una piccola parte della liquidazione, per fare quest’acquisto importante in società. Anche se non accade spesso, questa volta la Dea bendata si ricordò di loro. Qualcuno gli disse che a La Spezia, in un cantiere di demolizione, era appena arrivata una nave con ancora al loro posto le scialuppe di salvataggio. Il giorno dopo erano già sul posto, e da esperti, riuscirono a stento a mascherare la loro eccitazione appena videro di cosa si trattava. Erano due scialuppe di legno massiccio, con all’interno un potente motore diesel di oltre venti HP di potenza, all’apparenza parevano vecchie e scrostate, ma era evidente che non erano mai state usate. Dopo un’occhiata d’intesa, cominciarono a elencare tutti i difetti che si sarebbe dovuto riparare, Roberto poi, da attore consumato, consigliò a voce alta a Francesco di lasciar perdere, alla fine al venditore, non parve vero di potere sbolognare una di quelle due bagnarole a un prezzo ridicolo. L’indomani un camion depositò nel giardino di Francesco la scialuppa, e da quel momento la rutina famigliare dei due uomini cambiò drasticamente. Appena finito l’orario di lavoro, si precipitavano nel loro Cantiere, e lì perdevano la cognizione del tempo. Dopo appena tre mesi, quella che sembrava una vecchia carretta, aveva cambiato completamente aspetto, Francesco si era occupato della carpenteria, creando un’elegante piccola plancia al centro della barca con tanto di albero con i fanali di via, costruì la coperta in legno di tek, degli sportelli ermetici per i carabottini e i gavoni, montò poi dei bassi corrimani e delle robuste bitte in acciaio inox, lo scafo, fu completamente sverniciato, calafatato, e ridipinto. Roberto aveva smontato il motore, pulito il serbatoio, gli iniettori e la presa a mare, verificato la linea d’assi, e l’impianto elettrico, aggiunto termometri, spie, e contagiri, cambiato le pompe del gasolio, e di sentina. Una sera, la moglie di Roberto, esasperata venne a prenderlo, rimproverandolo aspramente perché passava più tempo sulla barca, che in casa” neppure fosse il Titanic!” Disse. Due giorni dopo, la parola Titanic sfavillava orgogliosamente in lettere d’oro sulla prora. Appena furono in pensione, la maggior parte del tempo lo passavano in mare, e anche quella mattina si apprestavano a fare la stessa cosa. Era ancora buio quando, quasi fossero sincronizzati, arrivarono entrambi in bicicletta all’ingresso del Club Nautico, di Marina di Carrara, dove il Titanic era ormeggiato, dopo un rude saluto entrarono. Era una tiepida notte estiva senza luna, l’acqua nera come l’inchiostro sciabordava lievemente contro i fianchi della barca, il cielo era punteggiato da milioni di stelle, così sfavillanti che sembrava di poterle toccare, una frizzante brezza di maestrale accarezzava i volti dei due uomini mentre salivano a bordo. Con un brontolio appena percettibile, il motore si mise in moto, e poco dopo la barca navigava leggera, diretta verso l’imboccatura del porto. Appena fuori Francesco dette manetta, il diesel rispose con un ringhio possente, la grossa elica morse rabbiosa le acque scure, mentre due grossi baffi di spuma bianca si formavano a prora, la barca balzò in avanti acquistando velocità. Il buio era totale, rotto solo dai due piccoli fanali di via, Roberto era seduto di poppa, con la barra del timone stretta tra il fianco e l’avambraccio, mentre Francesco preparava l’attrezzatura per pescare, entrambi si sentivano in Paradiso. Dopo quasi un’ora di navigazione il GPS segnalò che erano giunti a destinazione, anche il giorno stava ormai sorgendo, le Apuane, appena velate da una leggera foschia, si stagliavano in chiaroscuro contro un cielo rosa, che rapidamente virava verso l’arancione, e il giallo, quando il sole fece capolino da Pianamaggio, un volo di gabbiani salutava il nuovo giorno con i loro rauchi richiami. Dopo avere ridotto sensibilmente la velocità, calarono le lenze, e cominciarono la traina, le loro prede erano gli sgombri, o come era chiamati in dialetto, “i v’rdon”. Erano all’altezza di Punta Bianca quando successe il fatto. Un grosso motoscafo cabinato avanzava verso di loro, era di colore bianco, e dalla scia che si lasciava di poppa si vedeva che era a tutta forza. Da prima non ci fecero quasi caso, ma poi Francesco disse” ma quello che fa? Ci viene addosso?” Roberto si alzò in piedi e agitò le braccia per farsi notare, ma il grosso motoscafo continuò imperterrito la sua rotta. “Tieniti” disse Francesco virando di colpo tutto a dritta, la fiancata del motoscafo passò a meno di due metri, e l’ondata che provocò per poco non li fece rovesciare. Roberto gli inveii pesantemente contro, e disse che voleva inseguirlo per strozzarlo, ma Francesco lo calmò, dicendo che aveva preso il numero e che lo avrebbe denunciato alla Capitaneria. La pesca quella mattina era scarsa, e per di più si stava alzando anche un pò di mare, perciò decisero di andare a ridosso del Tino a pescare a fondo. Ma quando vi arrivarono ciò che videro li fece schiumare di rabbia, il grosso motoscafo di prima, era alla fonda a poca distanza dalla riva, “ora lo ammazzo” disse Roberto dando tutta manetta al motore. Quando furono quasi per abbordarlo, si affacciò un marinaio, era molto giovane, ed era vestito con una ridicola divisa come quelle che si usano nelle operette, con un cappello sormontato da un pon pon rosso.
“Il signore si scusa” disse prevedendo il peggio il giovane marinaio ” stava provando i motori e non poteva rallentare, comunque vi aveva visto” “ chiamalo” ringhiò Roberto in piedi sulla prora con in mano il mezzo marinaio pronto per l’abbordaggio. Appena il proprietario del motoscafo venne in coperta, tutta la furia di Roberto svanì, sostituita da un attacco di riso, a stento represso. Il Capitano era un ometto alto sì e no, un metro e venti, grasso come un maialino, vestito con una ridicola giacca blu con tanto di galloni dorati, con sulla testa a uovo semicalva, un marziale cappello militare con visiera. ” Scusate ancora per prima” disse con una vocina chioccia, “ ero io ai comandi, e avevo calcolato che sarei passato” “ per poco non ci affondavi, imbranato” disse Francesco, “quando arrivo in terra ti denuncio in Capitaneria” “ vi prego, ero a provare i motori, l’ho comperato da dieci giorni”. Roberto intanto aveva manovrato per mettersi a una cinquantina di metri e aveva dato fondo, tanto ormai la mattinata era rovinata, avrebbero fatto colazione prima di tornare in porto. Intanto il “Comandante” sul motoscafo, aveva chiesto al marinaio di portargli una canna da pesca il cui costo forse era uguale a quello di tutto il Titanic, poco dopo, volle una birra, poi le sigarette, poi gli fece aprire il tendalino, poi... e poi...Insomma, il povero marinaio sembrava una trottola. Improvvisamente urlò eccitato, la canna aveva dato un grosso strattone e ora s’inarcava come se fosse sul punto di spezzarsi, “l’ho preso! L’ho preso!” Urlava il buffo ometto, mentre Roberto scrollando il capo sentenziava “ al mondo non c’è giustizia”. Dopo alcuni minuti di lotta il pesce finalmente apparve, era una Tracina di dimensioni mostruose, mentre veniva salpata, si poteva vedere chiaramente il grosso “ventaglio” dorsale già aperto e minaccioso. L’ometto eccitato come un bambino allungò la mano grassoccia per afferrarla, Roberto stava per lanciare un urlo di avvertimento, subito soffocato dalla mano di Francesco posta sulla sua bocca. Di sicuro invece l’urlo di dolore che lanciò l’ometto, si sentì fino a La Spezia, oltretutto la Tracina si slamò, e con un guizzo ricadde in mare. Mentre il grosso motoscafo si dirigeva a tutta forza verso terra, Francesco disse “ e dicevi che al mondo non c’è giustizia?”