Nonni moderni
Spetta/le Redazione
spesso mi sento come il protagonista di uno di quei film di fantascienza che oggi vanno per la maggiore, dove è possibile viaggiare nel tempo, come quel Cavaliere medievale che si trovò di colpo nel XX secolo. Io sono consapevole di esse figlio di un tempo che non esiste più, però non mi sento un Matusalemme, ma sempre più spesso la gente pensa che io racconti certe cose per essere più interessante, ma purtroppo non è così.
Nel primo dopoguerra in Italia, l’unica cosa che non mancava erano i bambini. C’è n’erano a frotte, di tutte le età, che giocavano e vivevano per strada, o nelle aie delle fattorie. Questo avveniva non perché i genitori non ponessero attenzione a loro, o alla loro educazione, ma solamente perché vi erano troppi bambini, e poche case, inoltre nelle strade del tempo, quasi tutte sterrate, il traffico automobilistico era pressoché inesistente, ed era molto difficile rimanere travolti da un barroccio, trainato da un cavallo. Nelle fredde e piovose giornate invernali, invece ci si riparava sotto qualche portico, un tempo presente in tutte le case coloniche, o nella stalla di questo o quel vicino. Ed è proprio di quei momenti che ho i ricordi più belli e nostalgici. Le famiglie del tempo erano patriarcali, e non era raro che nella stessa casa vi fossero presenti tre o quattro generazioni, così i nonni non mancavano, e specialmente quelli come me, al tempo molto piccoli, si radunavano attorno al nonno di qualcuno che magari, mentre mondava un ramo di salice per legare la vite, ci raccontava una favola. La stessa cosa avveniva nei pressi dei forni per il pane delle fattorie, situati spesso all’interno dei metati, ma qui le regine incontrastate erano le nonne, che vestite di nero, con l’immancabile sciallina di lana sulle spalle, anche in agosto, ci raccontavano delle storie fantastiche.
Devo dire che i nonni del tempo erano molto diversi da quelli attuali. Innanzi tutto erano quasi tutti senza denti, le mani nodose, simili ad artigli, con la pelle del viso rugosa, come un pezzo di carta stropicciata dalle mani di un bambino capriccioso, provati nel corpo e nello spirito, da una vita di fatica e privazioni. Così anche le favole che ci raccontavano erano tristi, spesso dei veri e propri racconti del terrore, dove i cattivi erano lupi, maghi, o l’immancabile Barbantana. A loro discolpa bisogna dire che essendo quasi tutti analfabeti, ci raccontavano le stesse storie che erano state raccontate loro dai loro nonni, che le avevano sentite dai loro, e così via. Per secoli la Società contadina non aveva subito cambiamenti, o se erano avvenuti, era stati così impercettibili da non essere avvertiti nell’arco di una generazione. Noi, anche se bambini, eravamo consapevoli che erano solo favole, e nessuno credeva veramente a ciò che sentiva. Ma era bello starsene seduti su una balla di paglia, mentre una nonna sferruzzando, ti raccontava con voce cantilenante la favola di “Pu’gtin” o della volpe e il lupo. Spesso noi piccoli ci appisolavamo, e quando ci risvegliavamo, ci accorgevamo che qualcuno ci aveva coperto premurosamente, magari con un sacco di juta tagliato a metà. Oggi sono anch’io un nonno, anche se moderno, perchè pratico regolarmente un pò di sport per mantenermi in buona salute, interagisco con i moderni mezzi tecnologici, come computer e cellulari, mi sposto in auto, ho un aspetto decente, ma nonostante tutto, quando racconto ai bambini della mia infanzia, sono paragonato ai nonni di quegli anni, cioè pensano che stia raccontando una favola. Eppure racconto fatti avvenuti circa sessanta anni fa!
Mi spiego meglio: Prima delle vacanze estive, alcune maestre cui sta ancora a cuore la nostra storia, mi chiesero se ero disposto, visto che interagivo spesso con i bambini, a fare nelle loro classi alcune lezioni sui giochi di un tempo. Io naturalmente accettai con entusiasmo. Stabilimmo con il corpo insegnante il numero e la durate delle lezioni, e affrontai la prima. Cominciai con il descrivere ai bambini, i giochi che io chiamavo da “fuori” cioè da praticare all’aperto, e notai subito che mi seguivano con scarso interesse. Allora domandai a uno di loro cosa ci fosse del mio racconto che non li convincesse, così dopo un momento d’imbarazzo, una bambina mi disse che non era possibile che un bambino si divertisse, nel gettare una piastra di marmo in una casella disegnata per terra e che poi saltellando, cercasse di riprenderla, perciò era certamente una favola! Capì così, che il modo di giocare, e i giocattoli dei miei tempi, erano inconcepibili, e soprattutto incomprensibili per un bambino di oggi, tanto abituato al benessere, e ai prodotti tecnologici, da credere che siano sempre esistiti.
Se volevo farmi capire, dovevo costruire, e mostrare “dal vivo” alcuni giocattoli di quel tempo. Non vi dico quanto dovetti penare per procurarmi i materiali: come le “carote” che erano lo scarto della lavorazione dei vasi di marmo da cimitero, indispensabili per costruire il ruzzolone, una volta comunissime, ma oggi introvabili. Anche gli elastici, fatti con le camere d’aria di bicicletta, e il “topone” di cuoio della fionda, sono stati duri da reperire, mentre ho dovuto purtroppo rinunciare alle palline di terracotta, fuori produzione da decenni, cui ho sopperito con quelle in vetro. Ho mostrato i “coccioletti” come si chiamavano i pentolini per le bambine, e costruito senza difficoltà una bambola di pezza, un boa, e una lippa, e con questi giocattoli “preistorici” sono tornato in classe, e solo allora la lezione ha avuto un grande successo, scatenando nei bambini la curiosità, e la voglia di discutere tra di loro, di come ci si potesse divertire, un tempo, con quella roba.
Così, solo con questo espediente ho evitato che il mio dire “c’era una volta” fosse percepito come l’inizio di una favola, raccontata da un nonno, anche se moderno.
Volpi Mario
25 agosto 2014