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Sezione a cura di Mario Volpi
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Grazie virus

Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
La nostra forzata quarantena, fa molto male a noi, ma è un toccasana per la Natura, a riprova di come sia invasiva e dannosa la presenza umana sul pianeta.

Se fosse pronunciata da un essere umano, una simile affermazione sarebbe orribile come una bestemmia. In verità queste parole sono solamente il risultato di un mio pensiero balzano, che mi è venuto alla mente, cercando di capire cosa direbbe Madre Natura se potesse parlare. A causa di questa terribile pandemia che ha colpito tutto il globo, gli umani, per difendersi dal contagio, si sono rinchiusi nelle loro case, e così gli animali si stanno timidamente riprendendo gli spazi che noi per secoli gli avevamo rubato. Oltretutto mai periodo stagionale fu più favorevole, con questa splendida primavera che si è annunciata con calde e soleggiate giornate. Nei parchi pubblici deserti come le città, lepri e conigli, brucano tranquillamente la tenera erba novella in pieno giorno, mentre negli stagni e laghetti Alzavole e Germani sono impegnati nei rituali di corteggiamento, prima di nidificare sulle rive ormai tranquille e deserte. Nei porti dove il traffico navale è cessato quasi del tutto, i delfini sono tornati a nuotare, e sono impegnati a cacciare i grossi cefali, che da decenni vivevano al sicuro nelle torbide e trafficate acque portuali, ora tornate limpide e pulite. Ieri un mio amico ha avvistato un volo di cinque Cigni nel fiume Magra, cosa che non si vedeva da decenni. Nelle strade di periferia, famigliole di Caprioli approfittano dell’erba fresca che cresce sul ciglio della strada, leccornia un tempo a loro preclusa. Negli alberati viali cittadini, dove spuntano timidamente le prime foglioline, le capinere sono affaccendate nella costruzione del nido, non più spaventate dall’incessante passaggio della gente. Sulla cima di un palo della Tranvia, un Merlo, canta a squarciagola la ”primavera” che serve a marcare il territorio e attrarre la femmina. Anche la piccola Cincia, dai cespugli di Bosso che contornano la piazza, fa udire la sua voce argentina, ora non più sovrastata dal rumore del traffico. Sull’Appennino, e nelle località sciistiche, ormai deserte sono stati avvistati gruppetti di Lupi in prossimità delle case, mentre Orsi appena svegliati dal letargo, rovistavano tranquillamente nei cassonetti dell’immondizia in pieno giorno. Ma è di notte che questo cambiamento si nota di più. Chi come me, ha una certa età, e ha avuto la fortuna di vivere sempre in campagna, pare di essere tornato negli anni cinquanta. A quel tempo, la giornata era scandita dal suono delle campane. Queste suonavano tre volte il giorno, all’alba, a mezzogiorno e la sera, ovviamente a ore diverse secondo le stagioni. La sera, era consuetudine suonare il “Vespro” un’ora prima del tramonto. Questo suono indicava che il lavoro nei campi era finito, e si poteva tornare a casa. Era questo il momento che fin da bambino mi ha sempre affascinato, e nello stesso tempo angosciato. Il silenzio scendeva come una cappa sull’aia, il sole si nascondeva dietro le colline, e le tenebre calavano lentamente. Il cielo diventava a mano, a mano, più nero del carbone, che milioni di stelle non riuscivano a rischiarare, nelle case, la flebile luce delle prime lampadine, disegnavano inquietanti ombre negli angoli più nascosti, e per me, come per altre centinaia di bambini, una sorta di atavico terrore attanagliava i nostri giovani cuori. Era questa l’ora in cui si udivano i lugubri suoni dei “signori della notte”. All’improvviso si udiva il monotono verso dell’Assiolo, che in dialetto chiamavamo il Chiù, e mentre il concerto dei grilli e delle rane cresceva d’intensità quasi a voler fare da contrappunto, la Civetta, mi faceva rabbrividire con il suo lugubre e stridente richiamo, seguita poi dal terrificante verso del Gufo. Spesso il vicino latrare della Volpe, consigliava il fattore di uscire nell’aia, per fare rumore, o allungare la catena del cane messo a guardia del pollaio. Era invece bellissimo, affascinante, e misterioso, il canto notturno dell’usignolo. Rompe il silenzio notturno con una vera e propria cascata di gorgheggi, fischi, e cinguettii, una delicata e suntuosa “trina” di suoni che incanta chi ascolta, e che sembra impossibile possano uscire dalla gola di un uccellino così piccolo e insignificante. Ecco, le notti odierne, tornate proprietà dei predatori notturni rinfrancati dall’assenza degli umani, possono essere paragonate a quelle di quei tempi ormai lontani. Anche il silenzio diurno della città, solo a tratti rotto dal lacerante suono di un’ambulanza, è molto simile a quello di quei tempi, dove però, era il cigolante procedere di un carretto a rompere il” rumore” del silenzio. La vita di allora era lenta, scandita dalle stagioni, e noi bambini s’imparava presto a cogliere quei segnali che Madre Natura ci dava, per comunicarci il cambio stagionale. Vi era una vera e propria gara tra noi, spesso anche con colossali “imbrogli”, su chi avvistasse per primo una rondine, mentre il Fattore per buon auspicio nella nascita dei vitelli, apriva la parte superiore del portone della stalla, aspettando con ansia che la prima rondine tornasse al vecchio nido, traendo da questo, buoni, o cattivi presagi. Ma quello che annunciava senz’ombra di dubbio l’arrivo della primavera, era il canto del Cuculo. Vi era addirittura un vecchio adagio che in dialetto recitava così “ quand al cant ‘l cucù, ans po arposar pù” (quando canta il Cuculo non ci si può più riposare) intendendo con questo che cominciavano i lavori primaverili nei campi. In pochissimo tempo poi, con l’avvento del cosiddetto “progresso, ” tutto è cambiato. L’uomo si è comportato con l’ambiente e le forme di vita che lo popolavano, come se ne fosse il padrone, e non considerando esso stesso come parte del sistema. Abbiamo disboscato foreste, per fabbricare enormi condomini-dormitori, infischiandocene delle numerose forme di vita cui avevamo rubato la “casa.” Prosciugato paludi, giudicate malsane, per poi accorgerci, purtroppo troppo tardi, della loro importanza nel contenere inondazioni, cementificato spiagge, senza preoccuparci di distruggere siti di nidificazione vecchi di millenni. Non contenti, con le nostre luci abbiamo inquinato l’oscurità della notte, confondendo la rotta migratoria di uccelli e insetti, riempito i mari di ogni schifezza, per poi accorgerci che tornava nel nostro piatto, insieme al filetto di pesce, ormai raro perché pescato fino all’estinzione. Ecco perché, forse, se Madre Natura potesse parlare, pronuncerebbe, per davvero quella terribile frase. Io però in cuor mio, ho una quasi-certezza; non sarà che siamo noi il virus?
Mario Volpi
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