Estati perdute
Cara Redazione
Nonostante questa estate balzana, sia già finita prima di essere cominciata, non sono mancate innumerevoli feste e sagre, promosse per animare queste serate estive. Oggi sono considerata normali, perchè praticamente tutti possono usufruire di esse per passare una serata spensierata. Ma un tempo oltre a essere completamente assenti, queste manifestazioni sarebbero rimaste completamente deserte, perchè l'indomani la maggior parte delle persone si doveva alzare prima del sole, ma nonostante tutto si era felici di quel poco che si aveva, che sia questa la formula anti depressione?
E’ sicuramente il periodo estivo, che invoglia di più la gente a uscire la sera, magari dopo cena, per gustarsi un gelato, o partecipare allo “struscio” sulle vie più alla moda. Proprio per assecondare al massimo questa tendenza, oggi, le Amministrazioni Comunali, le Pro loco, e Associazioni varie, fanno a gara nel proporre spettacoli, e manifestazioni, con lo scopo di animare il più possibile le serate estive, per attirare turisti e residenti, e agevolare così le attività commerciali della zona. In verità proliferano anche tantissime Sagre e Feste, di questo o quel prodotto, non necessariamente tipico del posto, indette anche da Partiti politici, che hanno il solo scopo di fare cassa, ma si sa, il denaro non ha né odore né colore, e non fa schifo a nessuno. Un tempo però era tutto diverso. Per la gente di allora, quasi tutti contadini, l’estate era il periodo in cui vi era più da fare, anche se le giornate erano lunghissime. L’ora legale era aldilà da venire, si seguiva il ciclo naturale del sole, così la mattina all’alba, ci si recava nei campi per “segar ‘l fen” (falciare il fieno) chiaramente tutto a mano, o “adacquar col b’tal” (irrigare con l’acqua del fosso). Verso le 11 si tornava in fattoria perché faceva troppo caldo, si mangiava, e poi noi piccoli, ma spesso anche i grandi, schiacciavamo un pisolino. Verso le diciassette, si tornava nei campi per rivoltare il fieno, o fare i pagliai con quello già secco, si raccoglieva l’erba fresca per nutrire mucche e conigli, poi si mungeva e si governava la stalla, infine vi era la cena. E’ chiaro che con un’attività così frenetica, non vi era troppa voglia di uscite serali, ma nonostante tutto, una o due volte nel corso della stagione estiva, rigorosamente di sabato sera, arrivava quello che noi bambini chiamavamo “il circo”. In realtà erano saltimbanchi girovaghi, male in arnese, ma che a noi sembravano provenire da un mondo fantastico. Erano sempre gli stessi, e noi ormai conoscevamo a memoria anche i loro nomi, quelli d’arte naturalmente, come Giacomino, Bettina, Doris, l’uomo volante, e Mangiafuoco. Si accampavano nella piazza del quartiere, non prima di averne fatto il giro, con una decrepita topolino, munita di altoparlante, decantando le meraviglie che lo spettacolo serale avrebbe mostrato, si raccomandava di portarsi la sedia. La Compagnia era composta di cinque persone, penso dello stesso nucleo famigliare, che viaggiavano, con la sgangherata topolino, e un vecchio camion americano, residuato bellico, dipinto a colori vivaci, sul cui cassone era stato ricavato con qualche pezzo di lamiera, del compensato, e tanta fantasia, un qualcosa che oggi si chiamerebbe camper, ma al tempo si diceva carovana. La pista era creata a semicerchio davanti al camion che fungeva anche da quinta, delimitata da una semplice corda, l’illuminazione era data da quattro grosse lampade a petrolio, che facevano una luce rossastra, ottima per creare un’atmosfera misteriosa. Giacomino, il padre, era il capocomico, abile parlatore, con il suo accento toscano ammaliava e incantava il pubblico, millantando le sue presunte amicizie con questo o quel personaggio famoso, oggi frottole così farebbero solo ridere, ma al tempo nessuno dubitava che fossero la pura verità. Bettina, forse la moglie, era la sua compagna nelle scenette buffe che recitavano e mimavano, ricche di doppi sensi, facevano morire dal ridere i grandi, ma che noi piccoli, non capivamo. Mangiafuoco, faceva il giocoliere, roteando clave infuocate, mentre l’altro, l’uomo volante, con la sua giovane assistente Doris, camminava sui trampoli, e faceva evoluzioni su una pertica fissata al suolo. Alla fine di ogni numero Doris, in abiti succinti, fra fischi di approvazione, e pesanti apprezzamenti dei giovanotti, faceva il giro tra gli spettatori per prendere le offerte, e vendere, per quelli che volessero fare un vero affare, anche un vasetto della miracolosa “schiuma di mare” che faceva venire la pelle come seta, o le lamette da barba, “splendor” le stesse che usava Amedeo Nazzari.
Giacomino era anche abile nell’inventare situazioni che coinvolgevano il pubblico, e lo invogliava ad aprire il portafogli, come dire che l’uomo volante avrebbe tra poco eseguito un numero che gli era stato proibito dalla Questura, perchè troppo pericoloso, quindi non bisognava applaudire, ma ... essere generosi nelle offerte! Mentre quando veniva il circo, per noi piccoli era una festa, la fattora raccomandava a tutti di “chiudere i polli nei pollai, e di stare attenti che non rubassero i piccioni,”questo la dice lunga su come fossero considerati i saltimbanchi, ma soprattutto in che situazione economica e sociale fosse l’Italia del tempo. Aldilà di questo piacevole diversivo, erano gli altri sabati che io ricordo con struggente nostalgia. Nell’aia della fattoria sotto il pergolato, vi era un lungo tavolo, costituito da una spessa lastra di marmo, posta su dei pilastrini di mattoni, che fungevano da piedi, costruite con lo stesso sistema ai suoi lati, vi erano anche delle panche. Era lì che si andava a “prendere il fresco” come si diceva allora. I babbi in canottiera, fumavano un mezzo toscano, mentre bevevano un bicchiere di vino, giocando alle carte, alla luce di una lucerna a petrolio, poco distanti le mamme attorno a una finestra, seguivano con gli occhi lucidi, la puntata settimanale della commedia radiofonica, i ragazzi e le ragazze più grandi seduti sul muretto vicino alla stalla, erano intenti in ingenui corteggiamenti, e noi piccoli, completamente liberi di inseguire i milioni di lucciole che punteggiavano la notte nera come l’inchiostro.
Nei miei ricordi risento ancora la fresca brezza serale accarezzarmi il volto, portandomi il profumo del fieno, l’assordente concerto delle ranocchie, e la stridente sinfonia dei grilli, il verso lugubre di una civetta, mentre le lucciole gareggiavano in numero con le stelle del cielo. Aveva poca importanza che le case fossero bollenti come forni, che i soffitti fossero completamente tappezzati di mosche, che i topi scorazzassero nelle soffitte, che il gabinetto fosse in comune nell’aia, che l’acqua potabile fosse solo quella del pozzo, penso che senza saperlo, a quel tempo, mi trovassi nel luogo più simile, a quello che oggi, alcuni, chiamerebbero “Paradiso.”
Volpi Mario
14 agosto 2014