Le boteghe d’una volta
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Nell'Era del commercio in rete, sembra quasi
anacronistico ricordare le "boteghe" di un tempo. Eppure questi
esercizi commerciali, quasi pionieristici, hanno salvato dalla fame un'intera
generazione d'italiani
Per secoli, in Italia, anche il solo concetto di spaccio di generi alimentari era sconosciuto. Esistevano botteghe di artigiani come il falegname, il ciabattino, il fabbro o il fornaio, ma le materie prime per il cibo quotidiano, ogni famiglia le produceva in modo autonomo, o le riceveva in pagamento per il proprio lavoro. Fu solamente con la nascita della rivoluzione industriale italiana, avvenuta verso la metà dell’ottocento, che nelle città del Nord Italia, che per prime conobbero l’enorme afflusso di contadini che anelavano a diventare operai, che si sentì la necessità dei primi punti vendita chiamati “drogherie.” Questi nuovi negozi ebbero la loro massima diffusione in Italia negli anni terribili del primo dopoguerra. Chiamati in dialetto carrarese “boteghe,” ebbero il merito di salvare dalla fame migliaia d’italiani, e più avanti spiegherò come. In quel triste periodo diverse Corporazioni, o Associazioni, cercarono di aiutare la popolazione affamata e in condizioni economiche miserevoli, aprendo spacci alimentari Cooperativi, dove si vendevano esclusivamente alimentari di prima necessità a prezzi calmierati. A Melara negli anni cinquanta venne aperta una “Cooperativa del Partigiano.” Sorta in posizione strategica sulla via Provinciale Carrara-Nazzano-Massa, proprio attaccata alla piccola Chiesetta di Melara, in poco tempo divenne un indispensabile punto non solo di vendita, ma quasi di sopravvivenza per gli abitanti del borgo. Il locale era più che spartano, con una rustica imbiancatura a calce, che si sforzava di mascherare le diverse crepe nell’intonaco centenario, il pavimento era di mattoni verniciati di rosso, mentre il banco di vendita in legno, era sovrastato da un grosso tubo in ferro saldamente infisso nei due muri laterali che serviva per appendere collane di salsiccie, qualche stoccafisso, ma soprattutto due grossi mazzi di fogli di carta oleata e gialla, gli unici contenitori “usa e getta” del tempo, tenuti in loco da due ganci appuntiti che ne trafiggevano un angolo. Accanto al bancone, con il suo colore rosso fuoco, faceva bella mostra di se ben salda sul pavimento per via del grosso piedistallo in ghisa, una enorme affettatrice manuale Italma, con accanto una bilancia a piatti oscillanti. A un’estremità del bancone inclinata in bella vista, una cassetta di legno di arringhe affumicate, e due grossi barattoli metallici di acciughe salate, e tonno sott’olio, mentre in una “vetrina” composta da una semplice retina anti mosche, vi erano i salumi, che comprendevano una mezza “mundiola” (mortadella di Bologna) ’l maligat” (buristo) lardo di Colonnata, pancetta arrotolata, e “testa in cassetta” (soppressata.) Era questo l’unico l’assortimento del tempo, dove, salumi più “nobili” e costosi come il prosciutto non erano neppure commercializzati, a causa del loro prezzo, inarrivabile. Il fondo del locale era interamente occupato da un mobile in legno a cassetti con la parte visibile in vetro, contenente quattro o cinque tipi di pasta secca. Nell’ultimo vi era la “sbrisatura” (sbriciolata) ossia la pasta di ogni formato che si era rotta, e perciò venduta a un prezzo minore. Nel retrobottega a vista, campeggiava una gigantesca ghiacciaia. Era questa, insieme alla scatola di “formaggini” di surrogato di cioccolato della Ferrero, che faceva di più galoppare la mia fantasia di bambino. Ogni tre o quattro giorni, arrivava una Topolino furgonata, e “l’uomo del ghiaccio” come lo chiamavo io, con una grossa tenaglia scaricava un enorme blocco di ghiaccio che infilava nella ghiacciaia. Io mi sono chiesto per anni dove poteva essere quel luogo, dove vi era un freddo tale da formare un ghiaccio così spesso. Per terra, vicino alla porta d’ingresso, erano allineati su una pedana in legno i vari sacchi aperti di grano, granturco, crusca, e fioretto, indispensabile cibo per gli animali domestici, e si finiva con quello per gli umani, con il riso, lo zucchero, e la farina. A quel tempo tutto si vendeva sfuso, e in quantità infinitesimali, come venticinque grammi di testa in cassetta, o una bottiglietta di birra da un quinto “piena” di vino. Noi bambini, ma penso anche qualche adulto, restavamo stupiti e ammirati dalle prime forme di pubblicità del tempo. Per fare pubblicità a questo, o quel prodotto, arrivavano in bottega i “vetrinisti.” Senza paura di smentite questi erano dei veri artisti. Con della semplice carta crespa colorata, e una puntatrice, riuscivano a creare contro le pareti nude, e spesso scrostate, dei veri e proprio capolavori, come bucolici paesaggi pieni di fiori, o vaporose e variopinte ghirlande, con al centro della composizione il manifesto con il prodotto da pubblicizzare, anche questo si badi bene, disegnato. La “botega,” vendeva un po di tutto, dalla frutta e verdura, ai capi di biancheria intima per donna e uomo, o gli articoli di merceria spicciola, come bottoni, elastico o nastrini. Il pagamento era “ al’aspet,” ( all’aspetto) e avveniva alla fine del mese. Ogni cliente aveva un libretto, dove il commerciante segnava l’importo della spesa quotidiana. In fondo al mese, o alla quindicina, secondo quando era pagato il capofamiglia, il conto veniva saldato, tutto o in parte. All’inizio di questo articolo, affermo che sono stati certamente migliaia gli italiani che le boteghe hanno salvato dalla fame, e questo per una semplice ragione. Nel borgo ci si conosceva tutti e si sapeva il mestiere di ognuno dei capifamiglia. Così negli inverni particolarmente freddi o piovosi, i gestori dei negozi per non mettere in difficoltà le famiglie con il padre cavatore o muratore, facevano finta di niente, e aspettavano anche quindici giorni in più, per avere un acconto o il saldo totale. Vi è anche da dire, che i “furbetti,” erano pochissimi e venivano subito individuati, e allontanati, mentre le famiglie “pagatore” come si diceva un tempo, avevano quasi vergogna a non poter saldare il debito nei tempi stabiliti. Oggi tutto questo è preistoria, migliaia di piccole botteghe, non potendo reggere la concorrenza delle grandi catene di supermercati hanno dovuto chiudere, davvero un pessimo ringraziamento, per aver salvato l’Italia dalla fame!
Mario Volpi 30.10.22
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