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Sezione a cura di Mario Volpi
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Le mucche dei poveri

Una Volta Invece

Spettabile Redazione

La forma più estrema del cosiddetto progresso uccide e cancella per sempre, non solo mestieri e tradizioni millenarie, ma anche veri e propri tesori biologici, frutto di selezioni naturali di secoli, destinati a scomparire per sempre senza lasciare tracce. 


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Le mucche dei poveri
Carrara è stata in epoca medievale, terra di conquista e di dominazione da parte di svariati regnanti. E’ evidente che a questi dominatori, poco o nulla importasse del benessere economico delle popolazioni da loro sottomesse, che complice anche l’asprezza del territorio, erano spesso costrette a vivere al limite della sopravvivenza.
Anche il sistema sociale del tempo, chiuso nelle Vicinie, non aiutava il libero scambio dei prodotti alimentari più comuni, cosicché, ogni paese doveva essere un’isola autosufficiente, con tutte le restrizioni che questa situazione comportava. Perfino l’allevamento del bestiame era soggetto al ferreo controllo da parte del Signore, che imponeva la “soccida di ferro.” Questo contratto-capestro, imponeva al contadino l’affitto del fondo con gli animali in esso contenuti, con la metà del ricavato dato al Signore, che però era escluso da ogni onere finanziario per il suo mantenimento, e prevedeva che anche in caso di morte di qualche capo, anche per fatti accidentali, egli dovesse essere risarcito.
Mentre sulla costa, pur soggetta alla malaria, e agli attacchi dei pirati, si potevano coltivare cereali e ortaggi, in quantità accettabile, al monte, ossia in quella zona collinare non interessata all’estrazione del marmo, l’unica attività agricola possibile era la pastorizia.
L’asprezza del territorio, ricco di boschi, con piccole radure adatte al pascolo, ma in forte pendenza, fece nascere una pastorizia anomala, quasi di sopravvivenza, presente solo nel nostro territorio, che pur con immensi sacrifici, permetteva alla gente di vivere sulle nostre montagne. Per fare questo fu necessario, anche se inconsapevolmente, selezionare una razza di pecora che potesse nutrirsi senza problemi anche del “paler,” un tipo di erba, dura e fibrosa, comunissima nei nostri monti, e che producesse una gran quantità di latte, necessario per fare il formaggio, che era alla base dell’alimentazione del tempo, e soprattutto, che sapesse muoversi con disinvoltura su terreni scoscesi. Il clima particolarmente rigido in inverno, e i profondi canaloni perennemente in ombra, stimolarono, nei secoli, nell’animale, la produzione di melanina, tanto che il vello, e la pelle, diventarono nero antracite, per meglio assorbire i raggi solari.
Ebbe così origine la pecora “massese”. Le prime notizie certe sull’esistenza di questa razza autoctona, ci sono date in un documento del 1400, che certifica una forte presenza di questi animali nella valle del Frigido, e più specificatamente a Forno. E’ di taglia media, cosa che la avvantaggia sia in agilità, ma soprattutto nella quantità di erba necessaria per il suo sostentamento, è anche prolifica, riuscendo a fare tre parti in due anni.
Come abbiamo accennato in precedenza, la pastorizia Apuana medievale, è per certi versi anomala, che sfrutta un territorio inadatto all’agricoltura, ma poco adatto anche alla pastorizia. Così, il giorno era passato al pascolo, la sera il piccolo gregge era ricoverato in ovili al chiuso, che oltre a permettere la mungitura, rendeva possibile la raccolta del letame, una risorsa importantissima per un’agricoltura di sopravivenza limitata a poche zone terrazzate.
Per sfruttare ancora meglio un territorio così aspro e scosceso, nel corso dei secoli fu selezionata una razza di capra, oggi purtroppo a rischio di estinzione, che addirittura non è neppure segnata tra le razze esistenti, tanto il numero dei capi è esiguo; la capra apuana. Complice anche una dissennata “guerra alle capre” del ventennio fascista che accusava quest’ animale di distruggere i boschi, e di trasmettere malattie all’uomo, questo vero e proprio reperto archeologico vivente carrarino, rischia di sparire per sempre.
Questa capra è caratterizzata dal pelo raso, e colorazioni che vanno dal bianco al fulvo, al tempo usata, sopratutto per tenere aperti, e dove possibile, incrementare, le radure, vista la sua abitudine a cibarsi della corteccia e dei germogli degli alberi. Era allevata poi, per uno scopo più specifico, e al tempo veramente vitale. Anche se a sentire ciò, qualche pediatra moderno potrebbe inorridire, il latte di capra era un tempo, un valido sostituto a quello materno, dove questo fosse insufficiente o mancante, e non vi fosse la possibilità di “abaliare” il lattante. Vi sono documenti che attestano che le capre riconoscevano il pianto del “proprio bambino” e accorrevano sopra la culla per allattarlo, lo facevano con uno solo, e anche il lattante accettava il latte solo da un’unica “madre putativa”. Per quasi tutto il medioevo, la capra è stata considerata pochissimo, tanto che per comprare una vacca, erano necessarie almeno venti capre, ma per il popolo, erano indispensabili, perché di lei si utilizzava tutto, dalla carne al latte, dalle corna al pelo, con la pelle poi era prodotta la preziosa pergamena. Al seguito di questi piccolissimi greggi di ovini e caprini, di solito affidati ai bambini, erano spesso presenti uno o due maiali, che si cibavano soprattutto di ghiande o altre bacche, ma che avevano il compito di “pulire” il terreno dai serpenti, al tempo visti come veri e propri messaggeri del Diavolo, e portatori di sventura. Gli ovini e caprini nell’era medievale erano considerati le mucche dei poveri, per la facilità di allevamento, in pratica a costo zero, a fronte del sostentamento che se ne poteva ricavare. Si usavano spesso anche per pulire i terreni, ad esempio, gli uliveti prima dei raccolti, e i vigneti del piano, dopo la vendemmia.
La pastorizia Apuana, con il prosciugamento, e la bonifica delle zone di costa, avvenuta nel XVIII secolo, per volere delle famiglie storiche carrarine, e di Maria Beatrice, che desiderava un litorale più popolato, ebbe un brusco incremento, che vide la nascita d’imponenti greggi, anche se non paragonabili a quelli esistenti all’interno della Maremma toscana. Aumentò anche in modo esponenziale la produzione di lana, tanto che vi fu anche una sorta di “esportazione” verso Firenze, al tempo uno dei maggiori centri di produzione di filati di questo materiale.
Questo piccolo miracolo economico durò fino agli inizi del 1900, quando subì un brusco calo, a causa dei primi abbandoni della campagna per le migrazioni verso l’America.
Oggi nella zona di Carrara, la pastorizia è quasi scomparsa, così un mestiere secolare che ha sostentato intere generazioni, sta cadendo nell’oblio, ingoiato dal cosiddetto progresso, che tutto cancella...per sempre.

Volpi Mario
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