Da Vitò
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
La mente umana fa cose strane, come rendere per sempre magico e meraviglioso un luogo ormai preda del degrado e dell'abbandono!
Alcuni giorni fa, approfittando di una giornata particolarmente mite, ho deciso di tornare, dopo decenni, nei luoghi che mi avevano visto bambino. Ho passato la fanciullezza, e parte dell’adolescenza, tra Fossola e Monteverde, in un piccolo borgo, con la centro l’immancabile aia. A poca distanza da casa mia, vi è un monticello, al tempo completamente coltivato a ulivi, e qualche vigneto, la “Costaza, ” Il nome, che in dialetto significa “brutta costa, ” la dice lunga sulle fertilità e l’asprezza del luogo, nonostante ciò, proprio a metà di quell’erta salita, seminascosta da un gigantesco fico, sorgeva una casetta bianca, con una minuscola aia davanti all’ingresso. Di fianco alla casupola, vi era uno splendido vigneto terrazzato, che pareva arrampicarsi sulla scoscesa collina, arrivando dopo un centinaio di metri, proprio a ridosso di un boschetto di cerri, questo era il podere di Vitò. Vitò era un uomo dalla corporatura imponente, con un paio di candidi baffi, che incorniciavano armoniosamente la bocca sempre sorridente. Vestiva immancabilmente un paio di logori pantaloni di fustagno che un tempo dovevano essere stati blu, una camicia dello stesso colore, e l’immancabile panciotto, marrone, contenente la scatola d’argento per fare le sigarette, i fiammiferi, oltre a una catena dello stesso metallo con attaccato una grossa “cipolla” cui teneva moltissimo, perché regalatagli dai suoi colleghi al momento della pensione. Io, da bambino passavo moltissimo tempo “nel giardino incantato di Vitò” come dicevo alla mamma, affascinato dal suo spirito arguto, dalle storie che mi raccontava, e soprattutto da Dora, la sua gazza ladra, salvata ancora implume dalle grinfie di una faina, che gli aveva ucciso la madre, e allevata a mano da lui, che ora viveva libera, svolazzando per casa, comportandosi esattamente come un animale domestico. Dopo aver posteggiato l’auto nelle vicinanze, mi diressi verso il piccolo sentiero che ben conoscevo. E qui ebbi la prima amara sorpresa! La lottizzazione dei terreni, la costruzione di numerose case, e la conseguente urbanizzazione, avevano negli anni, pesantemente stravolto la morfologia del luogo, poi, però notai, proprio accanto a un‘elegante ringhiera di ferro battuto, quello che poteva rassomigliare a un vecchio sentiero. Facendomi largo con un bastone raccolto a poca distanza, m’inoltrai in quell’angusto passaggio. I rovi erano altissimi, e a un certo punto temetti di dover rinunciare, ma con qualche ben assestato colpo di bastone, riuscì a fare “chinare,” la testa alla macchia quel tanto che bastava per poterci camminare sopra e proseguire. Ora i rovi avevano ceduto il passo alla più malefica e infestante gramigna, che aveva ricoperto con un rigoglioso tappetto verde, la vecchia e malandata stradina che si arrampicava in alto, verso il bosco di cerri, diventato ormai gigantesco e impenetrabile. Dopo poco, a causa dell’erta salita, sentì il mio cuore che aveva deciso di trasferirsi nelle orecchie, così, dopo essermi appoggiato a un ulivo centenario, mi fermai per riprendere fiato. Con un sorriso, ripensai con nostalgia al bambino di un tempo, che negli afosi pomeriggi estivi, con la canicola che pareva piombo fuso, spesso a piedi nudi, quella salita la faceva di corsa, senza il minimo sforzo. Dopo un attimo di sosta, mi asciugai il sudore che m’imperlava la fronte, e ripresi la salita, un pò stupito di non vedere ancora la casupola di Vitò. La vidi da lì a poco, e il cuore mi si strinse in un’angoscia che a stento trattenni le lacrime. Semi soffocata da un’imponente siepe di biancospino, ciò che restava della casa di Vitò, faceva mestamente capolino da quell’immenso groviglio di spine. Su una parete semidiroccata si apriva il vuoto di una finestra sfondata e sbrecciata, simile alla ghignante bocca di un orrido mostro. Avvicinandomi scorsi anche parte del tetto, o almeno ciò che ne restava, perché quelle che un tempo erano le pareti, erano collassate verso l’interno, trascinando con sé le massicce travi di castagno che sorreggevano il tetto e l’intero solaio. Muto testimone delle ingiurie, dell’incuria,e del tempo, il gigantesco tronco del fico, ormai marcio e capitozzato, sembrava ancora lottare con la macchia di rovi che lo stava soffocando. Il vigneto era ridotto ancora peggio. I cinghiali avevano completamente distrutto le terrazze, dove dai muretti abbattuti e franati, la terra era fuoriuscita, quasi come le budella di un animale appena macellato. La vite, non più curata si era inselvatichita, formando intricati grovigli, che erano diventati appiglio per edera e rovi. La ginestra aveva colonizzato abbondantemente quel poco di terrazza ancora pianeggiante, mentre l’infestante parietaria era ormai padrona dei pochi muretti ancora in piedi. Annichilito da quella triste realtà, mi sedetti un attimo su una pietra, e subito udì l’inconfondibile cinguettio gracchiante di una gazza, che arrivò in volo per poi posarsi sulla punta di un ulivo a pochi metri da me. Gracchiando ne arrivò subito un’altra e un’altra ancora, chiamandosi l’una con l’altra con i loro caratteristico verso sgraziato. Così, in un attimo, tornai indietro di oltre sessant’anni. Mi rividi bambino seduto all’ombra di quel fico poderoso, a sentire incantato le storie che Vitò sapeva raccontare così bene, mentre Dora, con la sua sgradevole voce, pareva mi ringraziasse, per i succulenti lombrichi che non mancavo mai di portarle, e che lei beccava avidamente, ma delicatamente, dalle mie mani. Non ho notizie di quando Vitò sia morto, né perché il suo podere sia finito così miseramente. Mi piace però pensare, che in quell’antico “giardino incantato,” aleggino ancora gli spiriti di Vitò, e di Dora, che resero quel luogo magico nella memoria di un bambino.
Mario Volpi 6.3.22
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