L’isola che non c’è
Spetta/Le Redazione
12 ott 2013
Spetta/Le Redazione
Quando io ero bambino a Carrara era facile vedere in via Roma un netturbino armato di "granaton d stipa" (Scopa di erica ) pulire la cunetta del marciapiedi e mettere poco più che la polvere in un bidone di lamiera zincata, sistemato su un carrettino da trainare a mano. I netturbini erano molto pochi perché i rifiuti urbani erano quasi inesistenti, non per la maggior civiltà della gente, ma semplicemente perché, l'estrema, povertà era una grandissima maestra del.... riciclaggio. Oggi motospazzatrici e camion ad altissima tecnologia, non fanno altro che cercare di porre un rimedio a questa..... Civiltà dei rifiuti. Mario
Ai miei tempi, l’andare a scuola per la prima volta, era un vero e proprio trauma, perché ci sentivamo di colpo privati della libertà. Per cercare di alleviare questa sofferenza, la nostra maestra di prima elementare, ci leggeva spesso delle favole. La mia preferita era quella di Peter Pan, perché non andava a scuola, e poteva volare a suo piacimento nel suo rifugio segreto, situato sull’isola che non c’è.
Oggi, purtroppo, questa isola fantastica è diventata realtà. Si trova nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, e ha una superficie di di circa tre milioni e mezzo di Km quadrati, quasi quanto tutta l’Europa, ed è composta esclusivamente di....rifiuti di plastica.
E’ stata scoperta per caso, perché la zona è fuori delle normali rotte commerciali e pescherecce, ma soprattutto perché è pressoché invisibile, neppure i satelliti riescono a individuarla. Il motivo della sua invisibilità è dovuto al fatto che essa è composta da pezzetti di plastica quasi microscopici, ma con uno spessore di oltre trenta metri. Questa immensa massa galleggiante, comporta un grave turbamento nella delicata ecologia marina, perché, oltre a portare la morte per ingestioni di corpi estranei a molti pesci, è responsabile della abnorme proliferazione di un minuscolo granchio, che ha trovato il luogo ideale per deporre le sue uova, ma essendo un predatore di uova di altri pesci, le conseguenze di questo squilibrio a lungo termine, non sono ancora note.
Negli anni cinquanta la produzione pro capite di rifiuti urbani giornaliera, era molto vicino allo zero, oggi ogni abitante di una città media, produce circa 1 Kg di spazzatura. La responsabilità di questo fenomeno è da imputarsi principalmente al mondo industriale, che per aumentare i propri profitti, spinge il cosiddetto “usa e getta” a ritmi forsennati.
Per spiegare meglio questa mia affermazione farò un esempio; fino ai primi anni settanta, tutte le bevande erano contenute in bottiglie di vetro, dalla gassosa, alla birra, dalle aranciate, alle acque minerali, il vuoto era rigorosamente a rendere, cioè veniva restituito al negoziante, pena il pagamento di una penale da parte del consumatore. Questa pratica, era certamente salutare per l’ambiente, ma comportava un onere non indifferente alle aziende produttrici che dovevano riutilizzarlo, perché comprendeva gli oneri per il trasporto, la catena di lavaggio e sterilizzazione, il controllo visivo di eventuali impurità, e il riempimento. Così hanno trovato molto più conveniente impiegare le terribili bottiglie di P.V.C o di P.E.T, dal costo di pochi centesimi, senza ovviamente diminuire il prezzo del prodotto al consumatore, fregandosene che fossero praticamente indistruttibili. Anche le buste di plastica i cosiddetti Shopper, largamente usati nella catena commerciale mondiale, sono stati una vera e propria piaga biblica per l’ambiente, fino a quando, pochi anni fa, sono stati banditi. Forse troppo tardi, visto che ormai miliardi di pezzi, dalla vita media di mille anni, hanno definitivamente inquinato ogni angolo del pianeta. Il novanta per cento, dei rifiuti urbani di oggi proviene da contenitori e imballaggi, questa la dice lunga sulle responsabilità del mondo industriale. Dal gelato, alla rivista, dal mattone, al vestiario, tutto è rivestito da un film di polietilene, che poi ovviamente va smaltito.
La cosiddetta “comodità d’uso” tanto in voga negli spot pubblicitari, ha in termini ecologici, un costo altissimo, un esempio per tutti: il pannolino dei nostri figli, non è degradabile, con una vita di circa cinquecento anni, e un bambino nei primi anni di vita ne consuma circa 4 tonnellate. Il latte ha subito una sorte addirittura peggiore, le bottiglie sono state sostituite con il tetrapak, che, nonostante una certa pubblicità, è in riciclabile. La nostra esterofilia poi, ci ha portato a fare nostre le abitudini, spesso discutibili, di altri paesi. Prendiamo ad esempio la comunissima chewingum, chi di noi non ha sputato il bolo senza preoccuparsi minimamente di dove andasse a finire? Ebbene per oltre 5 anni quel piccolo pezzo di terreno, o marciapiede, resterà “inquinato”.Ma mentre per la cosiddetta”cicca” l’inquinamento è solamente estetico, ben peggiore è quello provocato dalla cicca vera, ossia il mozzicone di sigaretta. Oltre alla sua durata (anche qui siamo intorno ai cinque anni), le sostanze chimiche velenose che contiene, come benzene, nicotina, e catrami, tutti cancerogeni, si diluiscono rapidamente con la pioggia, e finiscono nelle falde acquifere sotterrane e nei fiumi, con conseguenze facilmente immaginabili. Si cerca di educare la gente alla raccolta differenziata, ed al riciclaggio. Va benissimo, ma più per togliere dall’ambiente materiale non biodegradabile, che per ragioni economiche e di risparmio, come invece si tenta di farci credere. Prendiamo per esempio il vetro; bisogna recuperarlo, dividerlo per colore, frantumarlo, e poi fonderlo. La quantità di energia per fare tutto ciò e uguale, se non superiore a quella necessaria per la sua fabbricazione da “nuovo,”si risparmia solo sul materiale, ma è sabbia silicea, senza contare che si può produrre solo un certo tipo di vetro, di qualità inferiore. Stesso ragionamento vale per la plastica, il cui costo della materia prima nuova è addirittura infinitesimale. Ecco perché le fabbriche dedite a questo tipo di lavorazioni stentano ad affermarsi, nessun imprenditore ama rischiare capitali senza la certezza di un sicuro guadagno. Io ho citato soltanto i principali tipi di rifiuti urbani, prodotti nostro malgrado, dalla cosiddetta “civiltà moderna,” ma ve ne sono moltissimi altri, alcuni molto pericolosi, come quelli tossici, o speciali, prodotti dalle industrie, che purtroppo generano affari multimiliardari, con il loro smaltimento illegale alle ecomafie. Come fare dunque per smaltire questa montagna di rifiuti che tutti producono e che nessuno vuole? Le soluzioni attuali sono solo due, inceneritori, o discariche, metodi che generano a loro volta altro inquinamento. Io penso che si dovrebbe puntare anche ad una terza soluzione, produrne meno, e per fare questo è ovvio che occorrerà coinvolgere in modo serio anche il mondo produttivo e commerciale.
Nei miei ricordi di bambino, vedo ancora la vicina stendere al sole i ciripà dei suoi numerosi figli, mentre mia madre andava alla bottega di alimentari, dove ogni cosa veniva venduta sfusa, con la borsa di paglia per fare la spesa, con all’interno le bottiglie per il vino e l’olio. Mio nonno fumava il sigaro e ciccava, e non si sarebbe mai sognato di gettare via anche una sola briciola di tabacco. La mattina il lattaio versava mezzo litro di latte fresco direttamente nel bricco dove si faceva bollire. La carta gialla (fatta con la paglia del grano) era il contenitore per il mezz’etto di “mundiola,”(mortadella di Bologna) e dopo l’uso, serviva per avviare il fuoco nel camino. Gli scarti come le foglie di lattuga, o le bucce delle patate, erano il pasto delle galline, o dei conigli, nel cortile, mentre i contenitori vuoti da 5 Kg di marmellata, acciughe, o pomodori pelati, venivano dati dal bottegaio a rotazione ai clienti, e diventavano secchi per attingere acqua alla fonte pubblica. Dall’Età della pietra, la storia dell’uomo è sempre progredita, arrivando a produrre splendide Civiltà, che hanno elevato intellettualmente, e materialmente la razza umana. Solo la più recente rischia di portarla alla catastrofe!...La Civiltà dei rifiuti!
Volpi Mario