Un flagello peloso
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
Nell'Italia rurale degli anni cinquanta, il cibo era
scarso, e quel poco prodotto con grande fatica doveva essere difeso da un
nemico minuscolo, ma micidiale; il topo.
Nelle fattorie carrarine degli anni cinquanta, oltre alle difficoltà per produrre cibo, bisognava affrontare quelle ben più gravi per conservarlo. A quel tempo la refrigerazione, o la conservazione in atmosfera controllata con l’aggiunta di gas inerti, era aldilà da venire, per cui ci si limitava al semplice essiccamento, e allo stoccaggio delle derrate alimentari nei granai. Questo favoriva i ripetuti e furtivi attacchi di un flagello, subdolo e pressoché invisibile; il topo. Gli edifici fatiscenti del tempo, con la quasi totalità priva del controsoffitto a isolare il tetto, favorivano l’ingresso dei roditori, che una volta all’interno, formavano delle vere e proprie colonie. Erano principalmente tre, le razze di topi che abitavano la fattoria. Il più subdolo, era certamente il topolino comune, chiamato in dialetto “furasach” (buca sacco.) Grazie alle sue piccole dimensioni, e alla sua capacità di passare in pertugi piccolissimi, era praticamente impossibile tenerlo fuori dal granaio, dove compiva le sue devastanti razzie. Dopo aver rosicchiato il sacco, si infilava all’interno di esso, contaminando irrimediabilmente con le feci, che seminava camminando, e l’urina, l’intero contenuto, fosse questo grano, mais, o fagioli. Non disdegnava neppure le patate, “assaggiandone” diverse, rendendole inservibili per il consumo umano. Vi era poi il ratto nero, molto aggressivo, tanto da non aver paura neppure dei numerosi gatti presenti in fattoria. Questa specie, prediligeva attaccare le colombaie, razziandone i nidiacei, e ferendo in malo modo anche le madri sorprese nei nidi nelle ore notturne. Il peso massimo, però, era il ratto delle chiaviche chiamato “tarpon,” Alcuni maschi arrivavano a sfiorare il mezzo chilo di peso, e se entravano in un pollaio, oltre a mangiare le uova, non disdegnavano neppure qualche pollastrina, oltre naturalmente a consumare, e contaminare gran parte del pastone delle galline. La “guerra” a questi ospiti indesiderati durava tutto l’anno, con metodi artigianali, e solo prima del raccolto autunnale, e all’inizio della primavera, si ricorreva all’aiuto del “Dottor Vincè” il farmacista del paese. Proprio dietro alla fattoria vi era un boschetto di Acacie, tenuto in grande considerazione dal fattore, non certo per il suo aspetto estetico, ma per quello che “ospitava,” e che egli provvedeva ogni tanto a far “propagare.” Sopra alcuni di questi alberi, vi erano grossi “nidi” di vischio, pianta infestante, che era essenziale per la lotta ai topi. A gennaio le sue bianche bacche erano mature, e il fattore le raccoglieva, alcune le strofinava sui rami delle acacie vicine per farle propagare, mentre la maggior parte le faceva cuocere, ma non troppo, e dopo il raffreddamento e il loro spappolamento se ne ricavava una tenacissima colla. Spalmata sopra un grosso pezzo di cartone, era posta rasente ai muri, del granaio, con al centro, un’esca speciale, una puzzolentissima crosta di pecorino. Su questi cartoni rimanevano invischiati decine di furasachi in una volta, e per qualche mese il granaio era “sicuro.” Per questi topolini, si usavano tutto l’anno anche delle trappole a cupola in filo di ferro, con all’interno un’esca che la fattora cambiava spesso, “p’r non farli abituar a l’odor” (per non farli abituare all’odore) diceva spesso. Per i fratelli maggiori la ricetta era diversa. Si usava farina gialla, o bianca, di scarto, mescolata in parti uguali, col “gess franzes” oggi chiamato gesso Meudon, e molto usato al tempo per rasare i muri prima dell’applicazione della carta da parati. Qualche volta si aggiungeva all’impasto un poco di miele, poi si mescolava con latte inacidito, fino a fare delle palline che si posizionavano nei luoghi frequentati dai ratti. Questo tipo di gesso rimane morbido per molto tempo, ma poi anche questo solidifica, bloccando il sistema digestivo dei ratti provocandone la morte. Nella stalla, frequentata prevalentemente da ratti, ma anche dagli animali domestici si preferiva l’uso dei “trappoloni” a scatto, fatti in modo artigianale con un grosso filo di ferro, azionati da una potente molla ricavata da un pezzo di filo elicoidale da cava ritorto, innescati con una cotica di lardo. In autunno, prima di portare il raccolto nel granaio, e prima della nascita dei pulcini in primavera, il fattore si recava in farmacia da Vincè per “comprar la med’zina” (comperare la medicina) ossia il veleno. Devo dire, che anche a quei tempi, le misure di sicurezza che il fattore prendeva prima e durante l’uso del veleno, erano ferree. Prima di tutto, per noi “piccoli” per alcuni giorni era assolutamente vietato, entrare nella stalla, nel pollaio, e nel granaio, e ci raccomandavano di non toccare in nessun modo eventuali topi morti o moribondi. Il cane di solito libero, veniva legato alla catena, i gatti confinati nel fienile, e i polli rinchiusi nel pollaio. Poi il veleno di solito Fosfuro di Zinco, o Solfato di Tallio, era mescolato con l’esca, farina di grano o granoturco. Le dosi erano fatte usando il ditale per cucire come misurino per il veleno, e un “quartino” da vino per l’esca. Il tutto era versato, con l’uso di un imbuto in una damigianetta, che veniva violentemente agitata per mescolare al meglio gli ingredienti, ma soprattutto per non toccare il composto con le mani, sia per non lasciare odori sia per non correre rischi di avvelenamento accidentale. Nel frattempo la fattora aveva preparato dei quadratini di carta gialla, unta con una cotenna di lardo o di salame, per dargli odore e togliere quello umano. Su questi pezzetti di carta il fattore faceva dei mucchietti di esca avvelenata, che il mattino dopo controllava. Se era stata consumata veniva aggiunta fino a quando non era più mangiata, segno che i topi erano morti. Molto scrupolosa era anche la ricerca dei cadaveri, perché se il cane, i polli, o i gatti li avessero mangiati, sarebbero morti anche loro. Queste derattizzazioni fai da te, avevano un buon successo che liberava la fattoria per due o tre mesi, prima che qualche individuo tornasse, e tutto ricominciava da capo. Oggi, l’igiene scrupoloso, le fogne interrate, le case assolutamente sigillate, la drastica riduzione della disponibilità di cibo all’esterno, hanno fatto sì che la popolazione murina sia di fatto quasi scomparsa, anche se ancora presente, perché come ebbe a dire un noto scienziato negli anni settanta, “i topi, e gli scarafaggi saranno i soli esseri viventi superiori che sopravvivranno all’uomo!”
Mario Volpi 3.9.22
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