La mia prima "le palme"
Una Volta Invece
Spetta/Le
Redazione
Il tempo
sfuma i ricordi, ammantandone qualcuno di nostalgia, altri di rimpianto, alcuni
poi, hanno un risvolto tragico-comico, che fa sorridere.
Penso che nell’Era moderna, chiunque saprebbe l’avvicinarsi di feste religiose importanti come Pasqua o Natale, anche senza consultare un calendario, non solo attraverso i Media, ma soprattutto, frequentando Supermercati e Centri Commerciale. Alberi di Natale e uova pasquali sono esposti almeno un mese prima delle date delle festività, questo è fatto per “abituare” le persone a fare acquisti più corposi, quasi che dopo tali date calasse una terribile carestia. Mentre, se dal lato religioso, ciò è male, da quello sociale non si può che esserne contenti, perché significa, che nonostante la crisi economica, che ci attanaglia da anni, c’è rimasto qualche spicciolo per far godere, almeno ai più piccoli, la magia legata a questi avvenimenti. Settanta anni fa però, in un mondo quasi privo di Media, per chi non sapeva ancora leggere non era semplice capire quanto queste festività fossero vicine. Ma mentre se per il Natale, questo era più difficile per Pasqua tutto era assai più semplice. Noi bambini “rurali” vivevamo praticamente nei campi, ed eravamo un tutt’uno con la Natura che ci circondava. I segnali dell’avvicinarsi della Primavera, e quindi delle festività Pasquali, iniziavano da prima guardando il ridestarsi della Natura, e poi ascoltando le conversazioni delle madri quando le accompagnavamo al pozzo per attingere l'acqua. Tra loro s’informavano se erano già spuntati “gli erbi” (erbette selvatiche) e se sì, se c’erano più “ginestrelli” o “castracani” (nomi dialettali) o i succosi raponzoli, che insieme all’aglio selvatico erano indicatori dell’avvicinarsi della bella stagione. Mentre noi “maschiacci,” andavamo per asparagi selvatici per fare gustose frittate. Le “femmine” venivano a scuola con mazzetti delle prime violette da donare alle maestre. Noi bambini poi facevamo una gara speciale, anche se spesso “drogata” da bugie non facilmente smascherabili. Facevamo a gara tra noi a chi vedeva in cielo la prima rondine. Il segnale inconfondibile dell’avvicinarsi della Pasqua però era uno solo, quello decisivo, ossia quando le femmine delle classi quarte e quinte, venivano nella nostra aula per attaccare al vetro delle finestre le sagome delle rondini, che avevano ritagliato con una sagoma di cartone dalle foderine nere dei quaderni di quei tempi. Anche se oggi sembra impossibile, la prima e la seconda classe elementare di quei tempi, servivano esclusivamente ad abituare i bambini all’immobilità di una stanza chiusa, e a tenere in mano in modo corretto prima una matita, e negli ultimi mesi del secondo anno all’uso della penna col pennino, che s’intingeva in un piccolo calamaio di vetro infisso nel banco. Non c’è quindi da stupirsi che nessun insegnante si sarebbe mai sognato di mettere in mano a bambini così “selvatici” delle forbici. Arrivavamo poi alla madre di tutti gli indizi che Pasqua era vicina, quando la mamma, spesso aiutata dalle vicine cominciava a pulire a fondo la casa. Nella settimana Santa noi bambini eravamo mandati nei campi a raccogliere gli ingredienti speciali per “tingere le uova sode” al tempo le uniche uova pasquali che vedevamo. Le uova erano fatte bollire con dei ranuncoli per farli gialli, con l’ortica diventavano verde scuro, i fiorellini che noi chiamavamo “occhi della Madonna” li facevano diventare celesti, e infine con la carta crespa rossa diventavano di un bel porpora. Vi era poi il rito più importante e difficile, che implicava l’intervento del fattore, ossia procurarsi un ramo di ulivo per portare a benedire in Chiesa. A tal proposito voglio raccontare un episodio che è successo a me in occasione della prima benedizione delle Palme di cui abbia memoria. Non so in quale anno fossimo ma presumo che fosse la metà degli anni cinquanta avendo io tra i sette o otto anni. A metà della settimana delle Palme, Ariodante, il contadino di fronte a casa mia potò gli ulivi, e seguace dell’antico adagio “fammi povero che ti farò ricco,” aveva sfrondato parecchio quelle piante secolari, così ora a terra vi erano rami grossi e rigogliosi. A distanza di tanti anni, penso che dopo tempi molto difficili, per mia madre quelle Palme fossero le prime dove poter sfoggiare insieme a mio padre un abito seminuovo, e soprattutto il loro figlio abbastanza grandicello per andare in Chiesa reggendo “la Palma” alla messa dei signori, ossia quella delle undici. Aveva preso un bel pò di nastrini colorati per decorare con graziosi fiocchi quel grosso ramo di ulivo, insieme a un gigantesco canestrello di pasta, tempestato di granella colorata, con al centro un bell’uovo color vermiglio. Io con i calzoncini corti d’ordinanza, e le scarpette bianche nuove di zecca, reggevo quel vero e proprio albero d’ulivo con non poca fatica. La Chiesa era di Melara, al tempo l’unica. Era piccola e bassa, più simile a un capannone industriale che una Chiesa. Dentro era gremita di gente anche perché vi era la visita di due non meglio specificati “missionari.” Noi bambini ci fecero andare sulle prime file proprio vicino alla balaustra che divideva dall’Altare. Il prete essendo una messa solenne si dilungava nella predica, mentre per me l’ulivo diventava sempre più pesante. A un certo punto avevo le braccia anchilosate, ma non sapevo dove posare quel greve fardello. Infine arrivò la comunione dei fedeli, e dopo aver preso l’ostia un signore elegantissimo nella sua “mutatura” bianca con panciotto crema, s’inginocchiò con la faccia tra le mani sulla balaustra proprio davanti a me, io ormai non ce la facevo più, e nel tentativo di alleviare il dolore alle braccia, tentai di sollevarle. Fu un grave errore. I muscoli non mi ubbidirono, e detti una “frascata” a tutta forza tra capo e collo al signore inginocchiato, imbrattandogli la giacca di verde, e sbriciolandoli giù per il collo i frammenti del canestrello andato in frantumi. Nel silenzio della navata si alzò nettissimo il suo bestemmione, ma poi, accortosi della gaffe si alzò in fretta e scappò dalla Chiesa. Mentre i ragazzi vicini a me si affrettarono a prendere da terra e a mangiare i pezzi del canestrello, io scoppiavo in un pianto a dirotto, un pò per la vergogna, ma soprattutto per il forte dolore che ancora mi paralizzava le braccia.
Mario Volpi 30.3.23
Racconti di questa rubrica