Vangì, ‘l magh
Una Volta Invece
Spetta/Le Redazione
La scienza moderna, liquida come "superstizione" molti misteri che non riesce a spiegare, uno di questi è proprio le capacità dei rabdomanti. Per secoli questa figura, ha contribuito a trovare l'acqua, al tempo più preziosa dell'oro, non solo per l'agricoltura, ma per la sopravvivenza stessa dell'umanità
C’è stato un tempo, fino agli anni cinquanta, in cui l’economia italiana era basata principalmente su l’agricoltura. Di conseguenza erano i terreni la vera ricchezza per proprietari grandi e piccoli, che ricavavano da essi la maggior parte del loro sostentamento. Un appezzamento di terra, proprio come qualsiasi altro bene, aveva un valore rapportato a molti fattori, quali la qualità della terra, la sua sassosità, l’esposizione al sole, la pendenza, ma soprattutto la disponibilità di un elemento indispensabile; l’acqua. Per questo motivo, nei secoli, nel territorio Apuano, era nata una vera e propria ragnatela di canali per l’irrigazione, chiamati in dialetto, “b’tali” (betali.) Questa capillare rete idrica che prendeva l’acqua dalle “gore” (canali artificiali per alimentare le segherie di marmo) del torrente Carrione, era però presente solo a valle, in posizione più bassa, rispetto al letto del fiume, ma in collina? Per ovviare a questa grave mancanza, nel corso della nostra storia millenaria, sono stati scavati decine di pozzi, la maggior parte dei quali oggi purtroppo scomparsi. Scavare un pozzo in quegli anni era cosa non da poco, sia per l’impegno fisico, ma soprattutto finanziario, che quest’operazione comportava. Esistevano vere e proprie compagnie di artigiani itineranti, chiamati in dialetto “poz’lan” (pozzolani) specializzati in questi scavi. Provenivano quasi tutti dalla vicina Emilia, e costruivano i pozzi scavandoli a mano, e murando il perimetro via via che scendevano in profondità. Questi pozzi si usavano prevalentemente nelle aie, pagati da tutti gli abitanti del Borgo, perché molto costosi. Nei terreni agricoli invece, dove la qualità dell’acqua non importava, si ricorreva alla “berta” manuale, una specie di maglio appeso a una carrucola, e a Vangì ‘l magh. Costui era un arzillo vecchietto, almeno, ai miei occhi di bambino appariva tale, che riusciva con un semplice ramo di nocciolo, e un pendolino, a dire dove si doveva perforare un terreno per trovare l’acqua. So benissimo che oggi le qualità del rabdomante sono messe in discussione dalla scienza moderna, ma io posso assicurare che vederne uno in azione è una cosa che non si scorda facilmente. Ero forse in prima elementare, quando vidi per la prima volta Vangì al lavoro. Era stato chiamato dal fattore, per sapere, dove era possibile perforare un nuovo pozzo, con la nuova tecnica della “berta a motore,” un’imponente macchinario con un rumorosissimo, e puzzolente motore diesel, da poco disponibile anche a Carrara. Vangì dapprima cominciò a fare avanti indietro con la bacchetta a forma di “Y” di nocciolo stretta tra le mani, nella porzione di terreno in cui il fattore voleva fare il pozzo. Dopo qualche tempo però, non prima di aver sputato un grumo di tabacco che stava ciccando, si avvicinò e disse” chi acqua a ni ne nemanch un goz!” (Qui acqua non c’è ne neppure un goccio) “se t vo a mir ‘ndov aie!” ( se vuoi guardo dove si trova.) Avuto il permesso, riprese il suo avanti indietro per il campo fino a quando vidi una cosa che ancora oggi, dopo tanti anni stento a credere. La punta della bacchetta cominciò a muoversi in modo autonomo, fino a schizzare in alto, tanto da fare alzare di scatto le braccia di Vangì fin oltre la tasta. Lui si fermò, e piantò un ramoscello nel punto indicato, poi cominciò a fare dei giri concentrici. Dopo poco cavò dalla tasca del panciotto un pendolino simile a quello che i muratori usano per piombare le pareti, e messosi in piedi dove era piantato il ramoscello, lo puntò verso il basso tenendolo per lo spago. E qui vidi una cosa ancora più stupefacente. Il pendolino, da prima perfettamente immobile, cominciò a compiere dei giri concentrici in modo autonomo, sempre più larghi fino a quando, quasi di colpo, prese una direzione innaturale. Vangì si avvicinò al fattore e disse in dialetto” chi aie una vena che al va azù vers Marineda, adè fonda set metri e al potrà fare un bigonz d’acqua in do m’nuti” (qui c’è una vena che scorre verso Marinella a sette metri di profondità, e con una portata di un bigoncio in due minuti.) Il bello di Vangì era che lo si pagava, solo se l’acqua la si trovava davvero. Così il giorno dopo vidi in azione la nuova macchina che a me pareva fantascientifica. Era collegata sul retro di un gigantesco trattore Fiat TM 48 residuato bellico, ed era composta di una specie di torre metallica smontabile, alta quanto il pagliaio, tenuta diritta da tre pali di ferro conficcati nel terreno. Su questa torre era montato una specie di binario, su cui correva verticalmente un grosso peso di ferro, fissato con una fune d’acciaio, che scorreva dentro una grossa carrucola, e finiva arrotolata sul tamburo metallico di un argano, azionato da un motore posto sul cassone del trattore. Un operaio mise un grosso tubo di ferro a punta, pieno di fori, sotto il peso. Poi grazie al motore sollevò fino in cima alla torre, il pesante cilindro di ferro, per poi lasciarlo ricadere di colpo sul tubo, che a poco a poco entrava nel terreno. Così colpo, dopo colpo, avvitando nuovi tubi, in pochissimo tempo uno zampillo di acqua fangosa uscì dalla tubatura. Vangì aveva ragione, contro ogni logica, ogni scetticismo, e soprattutto a dispetto di chi gli dava dell’imbroglione. A quei pochi che ogni tanto increduli gli chiedevano come facesse, lui rispondeva con un sornione sorrisino della bocca sdentata, e dopo uno sputo al tabacco mormorava ”me a son un magh!”
Mario Volpi
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