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San Terenzio

STORIA
Carrara e le sue stranezze……
Ma che cose strane accadono a Carrara.. la chiesa principale della città è dedicata a Sant' Andrea e la fiera tradizionale si tiene il 30 novembre cioè il giorno appunto di Sant’Andrea ma il vero patrono è un tale  San Ceccardo un santo di cui alcuni mettono in dubbio l'esistenza. Da alcuni anni  VIENE FESTEGGIATO il 17 giugno CON QUALCHE ridicola bancarella. Questo vescovo di Luni di nome Ceccardo  sarebbe esistito nel lontano al 800 ma fu solo nel 1609 che le sue spoglie furono accolte nella pieve di  S. Andrea dove furono collocate sotto l’altare maggiore ma per circa 800 anni dove sono state conservate? E perchè se esisteva già una chiesa a lui dedicata non hanno conservato lì i suoi resti mortali? Di certo sappiamo  che il suo culto fu fortemente promosso dai canonici regolari di San Fredianio di Lucca, da cui il Duomo di Carrara dipendeva,  probabilmente per ottenere potere e indipendenza, il così detto "nullius diocesis" che gli permetteva di non appartenere a nessuna diocesi anche se con ugual territorio e di non dipendere da un vescovo. E ad Avenza?..Nel piccolo borgo di Avenza la Chiesa é dedicata a San Pietro, si festeggia San Marco mentre lì morì San Terenzio. Chi era costui ?Perché di lui si son perse le tracce? Cosa c’è sotto veramente?
Sant Renzio il vescovo lunense tra realtà e fantasia
I Capitolo
Luni 680 nell’anno del Signore

Nel IV secolo, anche Luna risentì della crisi generale comune al resto dell’impero, che si  concluse con il crollo degli edifici pubblici e privati della Splendida Civitas a seguito di un forte evento sismico. Nei secoli successivi nell’area s’ insediò la comunità lunense sotto la guida politica religiosa dei vescovi di Luni, che battendo moneta in lega di piombo in una propria zecca acquisirono sempre più potere e diedero vita a numerosi e importanti rifacimenti come la Basilica Cristiana, in seguito divenuta la Cattedrale di Santa Maria. E' proprio da una famiglia romana di quella comunità , i Terenzi, che discende il vescovo Terenzio protagonista della nostra storia.
Quella mattina il vescovo Terenzio lasciò Luni  che l’alba non era ancora spuntata. Il cielo era talmente nero che incombeva sulla pianura come un corvo minaccioso. Nuvoloni densi e grigi trattenevano le ultime restie ombre della notte che faticavano a lasciare la scena alle prime luci del giorno.  I fianchi delle colline quella mattina erano l’unica cosa visibile, nascosti dalle basse nuvole i profili aguzzi delle Apuane non si vedevano. Dopo aver salutato la ronda armata il prelato oltrepassò il Grande Tempio, percorse il vialetto e all’incrocio con l’ Aemilia Scauri svoltò a sinistra, oltrepassò il Decumano Massimo, la Basilica Civile   e si diresse alla porta Orientale della colonia dove altre guardie piantonavano l’ingresso. Contraccambiò il saluto che gli rivolsero, uscì e s’incamminò lasciandosi dietro le spalle le alte mura di cinta.  Proseguì per la carrareccia, oltrepassò il mausoleo e l’anfiteatro fino a raggiungere il torrente Parmignola. I riflessi di una luna dispettosa che giocava a nascondino tra le nuvole di tanto in tanto facevano sembrare d’argento il piccolo corso d'acqua ma Terenzio non aveva tempo per ammirare quello spettacolo, al piccolo bivio, anzichè continuare sulla via principale decise di proseguire lungo l’argine per raggiungere la spiaggia di Lavenza. Spesso soleva spostarsi  dalla costa ai monti della Lunigiana  per cercare di convertire i longobardi che si erano insediati tra quelle montagne ma quel giorno scelse di recarsi al borgo di Lavenza  per fare della beneficenza e questo gli fu fatale. Dopo circa un’ora di cammino arrivò a destinazione. Nel frattempo si era alzato un forte maestrale, gli arbusti disseminati sul litorale a stento resistevano a quelle raffiche, mentre i pini impotenti sotto la furia di Eolo piegavano rispettosi i loro capelli verdi. Con la sabbia negli occhi e gli spruzzi delle onde che il mare gli sputava in faccia il vescovo procedeva faticosamente. Giunto nei pressi del Flumen Aventia ( l'attuale Carrione) decise di riposarsi dietro una duna verde, quasi fosse un’oasi in quel deserto apparentemente vuoto. Accasciato lì dietro e sottovento non si accorse del sopraggiungere di due briganti che nell’atto di predarlo lo trucidarono sul posto senza pietà. I due malfattori silenziosamente come erano arrivati si dileguarono nella tempesta di sabbia e il corpo del povero vescovo rimase sulla spiaggia fino all’alba successiva quando due  pescatori che stavano andando a pesca lo videro. Spaventati al pensiero che potessero essere ritenuti responsabili di quel orribile fatto, decisero di liberarsi del corpo: scavarono allora una profonda buca nei pressi del torrente e ci nascosero il cadavere, ricoprirono tutto con sabbia mista a terra e pietre, poi come nulla fosse presero il mare e uscirono a pesca con la loro piccola imbarcazione. Quando furono al largo, lontano da orecchie indiscrete, i due amici giurarono che di quel fatto non ne avrebbero parlato con nessuno. E cosi fu fino alla fine dei loro giorni: i due portarono quel segreto nella tomba.

Secondo capitolo
Lavenza 1225

Dopo più di sei secoli, a causa dell’erosione del mare e delle piene del fiume, il corpo miracolosamente conservato sotto le pietre venne alla luce: un gruppo di ragazzi scendendo lungo il greto del fiume dal borgo al mare ne videro  sporgere una mano. Presi dal panico corsero in paese e raccontarono del ritrovamento. Padre Ernesto si recò  sul posto indicato dai ragazzi e con l'aiuto di alcuni pellegrini che stava ospitando nel vicino Ospitale di Sant'Antonio disseppellì il corpo. Il cadavere era completamente avvolto nella classica toga, con la mano l’uomo di chiesa scostò la stoffa che ricopriva il volto e  trasalì: la sabbia aveva conservato il corpo perfettamente, lo aveva  mummificato. Tra i presenti calò il silenzio, il sacerdote  infilò la mano nella tasca della veste talare, estrasse un piccolo crocefisso di legno e a mezz’aria fece il segno della croce, poi con voce cupa ordinò agli uomini di caricare con cautela il corpo sopra a un carretto e di trasportarlo in canonica. Padre Ernesto della chiesa di San Pietro in Lavenza era un uomo basso e robusto sulla settantina, testa calva e viso arrosato, di solito era un uomo calmo e pacato ma ora mentre rifletteva sul da farsi passava nervosamente da una mano all’altra il piccolo crocefisso. Aveva capito che il cadavere mummificato era di un uomo di chiesa di una certa importanza e forse sapeva di chi poteva essere; decise allora di mandare tramite un messo di fiducia una missiva al Vescovo di Luni che si trovava nel Castrum Sarzanae per decidere il da farsi. La risposta non si fece attendere, non appena letta la richiesta monsignor Eriberto inviò dalla Diocesi Lunensis un alto funzionario religioso per indagare e fare una "ricognizione" del corpo in questione. Il rappresentante della chiesa dopo un accurata analisi giunse alla conclusione che quello era il corpo del vescovo di Luni Terenzio, sparito misteriosamente nel 700  e mai ritrovato. La striscia di tessuto che ornava le sue vesti rivelava la sua appartenenza ad una delle nobili casate lunensi:"i  Terenzi" e il suo volto era lo stesso che aveva visto in un dipinto sacro.  Don Ernesto su ordine della “curia” vescovile di Luni commissionò alle maestranze del borgo di costruire un sarcofago dove riporre il corpo. In meno di ventiquattro ore la cassa impastata con gesso e calce fu pronta. La mattina successiva il cadavere fu unto con olio profumato e ricoperto con uno strato di resina, poi fu avvolto in un lenzuolo di lino lasciando scoperta solo la faccia. Dopodichè lo misero  all’interno del tombale e chiusero il vano con quattro lastre di marmo bianco di Luni posizionate a capanna. Stuccarono il coperchio con un impasto di gesso e sabbia finissima della Magra e a fatica con l’aiuto di alcuni pellegrini  posizionarono il sarcofago ai piedi dell’altare. La conservazione così perfetta del corpo nei secoli nonostante la vicinanza dell’acqua fece gridare al miracolo e da quel giorno il piccolo borgo di Lavenza divenne meta di pellegrini provenienti dai paesi a monte di Lucio Granaio Proculo ( l’attuale Gragnana ),dal paese di Casapoci ( l’attuale Castelpoggio ) e da tutta la Lunigiana e Garfagnana. Visto il continuo afflusso di persone e per timore che il corpo potesse essere trafugato, una mattina all’alba su ordine della diocesi lunense, si decise di trasferire la salma in un luogo imprecisato di Bologna, noto solo gli addetti al trasporto. In una notte quieta come il respiro di un bambino, quando il borgo dormiva tranquillo sotto un tetto di stelle, la porta laterale che dava nella piccola piazza si aprì. Sotto al platano centrale un uomo dalla corporatura esile era in attesa di fianco ad un carro trainato da due coppie di possenti buoi, nelle sue mani teneva un pungolo e sembrava impaziente di usarlo, poco distante otto uomini armati mandati da Luni aspettavano ordini. Padre Ernesto uscì per primo dalla canonica, subito dietro sei pellegrini trasportavano il sarcofago e con fare solenne lo depositarono sul cassone del carro, lo ancorarono saldamente con funi di canapa, lo coprirono e poi caricarono cibo e acqua per il viaggio. I buoi sembravano indifferenti a quello che accadeva loro intorno, gli occhi scuri enigmatici fissavano un punto indefinito,  finchè il pungolo del bovaro non li incitò a muoversi e così il piccolo convoglio  partì. “Che Dio vi benedica e si prenda cura delle vostre anime”, recitò Padre Ernesto, mentre il carro lentamente spariva alla sua vista dietro le mura di cinta del borgo alla volta di Bologna. Lentamente il convoglio procedeva da prima lungo quella che una volta era l’antica Aemila Scauri, toccarono Luni, la piccola frazione di San Lazzaro e poi presero a destra per Caniparola e percorsero viuzze inerpicate su colline e vecchie mulattiere sulla via Francigena fino ad arrivare a Faucenova ( l’attuale  Fosdinovo ). Oltrepassato il paese, al bivio per un errore anzi che proseguire dritto in direzione della Lunensis Ager ( l’attuale Lunigiana ) curvarono a destra e inconsapevoli iniziarono a salire verso le Apuane ora dopo ora fino a raggiungere la Gabellaccia. Sfiancati dal gran caldo decisero di fare tappa per la notte sotto il fresco dei castagni  e di ripartire all’alba del giorno successivo per raggiungere la meta. La notte passò tranquilla, ai primi albori del nuovo giorno ripresero il cammino. Tornante dopo tornante il convoglio procedeva sempre più lentamente. Continuarono a salire per ore e ore fino a scavallare la sella e si ritrovarono difronte alle pendici del monte Borla. Oltre non era possibile proseguire e li si accorsero di aver sbagliato via.

III Capitolo
L'ultima dimora.

Uomini e bestie erano stremati. A memoria d’uomo non si ricordava un Maggio così caldo. Il sole sembrava piombo fuso sulla pelle, nugoli di mosche cavalline e tafani davano il tormento alla pariglia di buoi che agitava continuamente la coda nel vano tentativo di scacciarle, gli uomini sfiniti, scoraggiati si lasciarono cadere a terra. Ad un tratto il cielo che prima era azzurro si oscurò:  nuvole nere, minacciose avanzarono da sopra il crinale e oscurarono il disco giallo del sole. Tutto accade in un lasso di  tempo brevissimo. Le bestie che prima erano sdraiate si alzarono in piedi e con il muso rivolto al cielo muggirono impaurite strattonando le corde. Un nuvolone nero sotto gli occhi impotenti degli uomini assunse la forma di un drago che con un colpo secco di coda colpì la montagna sotto i loro piedi. Ci fu un boato tremendo, la terrà tremò. Le rocce iniziarono con un rumore assordante una corsa devastante verso valle travolgendo ogni cosa fosse sul loro percorso. Tutta la valle si ricoprì di una densa nuvola di polvere. Dopo qualche ora tra quelle montane bianche ritornò il silenzio eterno e la nebbia di pulviscolo si diradò. Miracolosamente tutti gli uomini e le bestie erano vivi, increduli, sbalorditi videro che dove  prima c’era una parete di roccia verticale ora si era formato un varco che collegava le due valli. L’unica cosa che andò persa nell’impatto furono i barili d’acqua.  Per  oltrepassare quel varco  per raggiungere la vallata opposta e rientrare sulla giusta via avrebbero impiegato circa due giorni e senz’acqua al seguito sicuramente tra quelle bianche gole avrebbero trovato la morte. Ma che fare!? Non avevano altre alternative: la carrareccia dalla quale erano arrivati non esisteva più, enormi massi di rocce l’avevano spazzata via. Poco prima quegli uomini che festeggiavano per il miracolo ricevuto ora si disperavano. La realtà che avevano di fronte li spaventava, li impauriva. Si sedettero rassegnati sulle pietre, nei loro occhi si leggeva un presagio di morte. Rompendo gli indugi il loro temerario capo con un tono di voce autorevole ordinò al convoglio di mettersi in marcia asserendo che quello che era successo era da interpretare come segno del favore del destino:  avrebbero potuto morire e invece erano tutti incolumi. Così rincuorati si avviarono nel canyon di marmo bianco.  Furono due giorni d’inferno: il sole rovente non gli  dava tregua. Le loro bocche erano arse, senza più saliva, persino il sudore che prima scendeva come fosse un rigagnolo su quella pelle arsa e secca  aveva smesso di scendere. Le gambe pesanti come macigni non ricevevano più ordini dal cervello ormai annebbiato. Le forze mancavano, il fiato corto e la vista accecata dal riverbero della luce sul candido marmo, stremati si abbandonarono al loro destino che sembrava ormai segnato. Le bestie stramazzarono al suolo. Ormai ogni speranza di salvezza pareva vana, eppure pensava il capo, sarebbe bastato raggiungere la sella difronte a loro per capire quanto ancora divideva la vita dalla morte. In un ultimo tentativo con la forza della disperazione prese ad una ad una le facce dei suoi uomini tra le mani e guardandogli negli occhi mentendo gli giurò che oltre la sella c’era la vita, bastava raggiungere quel maledetto punto. Bastava raggiungerlo e sarebbero stati salvi. Dopodichè ad uno ad uno li aiutò ad alzarsi in piedi e usando il pungolo riuscì a fatica a far tirar su anche le bestie. Quegli ultimi cinquecento passi furono interminabili. Tutto però si rivelò essere vero, tutto….Dietro la sella c’era la vita e non la morte. Da lassù si vedeva un piccolo borgo arroccato su un colle e tra gli edifici spuntava la punta del campanile di una chiesa. Quello era l'edificio sacro che il longobardo Transuald nel lontano 728 aveva fatto erigere proprio in onore del vescovo di Luni San Terenzio. Cinquecento quarantacinque anni dopo il convoglio partito da Lavenza era arrivato senza saperlo proprio là: a  San Terenzio Monti. Alla vista del paese gli uomini ripresero le ultime forze e  assettati assalirono la fonte nel cortiletto esterno la chiesa, dopo di loro si abbeverarono le bestie sfinite, ma subito  dopo esse morirono. L'impossibilità di proseguire rese evidente che quello era il luogo al quale erano destinate le sacre spoglie e li restarono senza che nessuno lo sapesse  per molti secoli. Fu solo nel XVII secolo, durante i restauri della piccola Chiesa di Santa Croce di San Terenzio Monti, che aveva subito danni da un terremoto, che sotto l'altare maggiore furono ritrovate le spoglie mortali del santo. Per ragioni di sicurezza furono spostate a Reggio Emilia per poi tornare di nuovo anni dopo nella loro collocazione originaria sotto l 'altare di Santa Croce. Per i fatti sopra riportati la preziosa reliquia del corpo del Santo del vescovo lunense apostolo infaticabile della carità e martirizzato ad opera di alcuni predoni nei pressi del torrente Lavenza, la chiesa dedicata a lui è stata proclamata Santuario Diocesano.
Di PierBin e MascalzonApuana
Contraddizioni
Attorno al 1609 la pieve di S, Andrea accolse le spoglie mortali di San Ceccardo, collocate sotto l’altare maggiore, e qui vi è una contraddizione. Una Chiesa dedicata a un Santo, che contiene al suo interno le reliquie di un altro Santo, senza contare che s’ignora dove fossero state poste per oltre 800 anni.
Come mai le spoglie di San Ceccardo sono trasportate a Carrara, che nascerà ufficialmente oltre un secolo dopo, come testimonia la bolla Imperiale di Ottone I consegnata proprio ad un Vescovo di Luni. Un’altra contraddizione, perché al tempo dell’uccisione di San Ceccardo, quella zona era certamente solo una selva impenetrabile, e il taglio della testa è certamente più verosimile per una esecuzione capitale, piuttosto che per una lite per interesse. Nonostante questi misteri, o forse proprio per questo, San Zicard è stato, per secoli, il santo più venerato in assoluto nella zona di Carrara.
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