Le quattro D
Di Cybo in Cibo
Spetta/Le Redazione
Vorrei contribuire anch'io alla vostra interessante
rubrica dedicata ai cibi tradizionali. Ovviamente dovrò fare la parte
dell'avvocato del Diavolo perché io quel periodo l'ho vissuto sulla mia
pelle e posso assicurarvi, che non ne ho nostalgia.
Il nostro Paese è universalmente riconosciuto come il tempio della gastronomia ai più alti livelli, sia come qualità che come varietà. Ma certamente pochi sanno che per secoli, la nostra penisola è stata la patria indiscussa di uno dei Quattro terribili Cavalieri dell’Apocalisse: la Carestia. Senza voler esplorare gli oscuri meandri dell’Era medievale, basta arrivare appena alla metà del XIX secolo per avere il quadro completo della situazione alimentare che gli italiani hanno dovuto subire per secoli. Nel 1860, in Italia vivevano circa venticinque milioni di persone, di cui, oltre il settanta per cento, erano agricoltori. La maggior parte di loro coltivavano i terreni in regime di mezzadria, o ancora peggio come semplici braccianti, pagati a giornata. Anche se pare paradossale, questi lavoratori, addetti a produrre cibo, non ne aveva a sufficienza, e quel poco che avevano, era di pessima qualità. Specialmente nelle aree meridionali, ma anche nella Pianura Padana, esistevano ancora immensi latifondi, con i proprietari che non si curavano certamente del tenore di vita dei loro contadini. Il regime di mezzadria, comprendeva la divisione a metà con il padrone del terreno, sia delle spese, sia del raccolto. Poi però, questo rapporto “alla pari,” nel corso dei secoli, complice anche l’analfabetismo totale dei contadini, era cambiato a discapito del mezzadro, con l’introduzione di tasse e balzelli, come la “decima,” o le “quartesi,” da pagarsi annualmente a favore della Parrocchia di appartenenza, che il proprietario del terreno aveva furbescamente scaricato sulle spalle dei mezzadri. In molte località della Penisola poi, c’era ancora l’obbligo della Corvée. Questa assurda legge medievale è rimasta in atto in alcuni luoghi fino agli anni cinquanta, e obbligava il mezzadro a lavorare nella “metà,” del terreno padronale un certo numero di giornate senza retribuzione. A rafforzare ulteriormente la miseria dei contadini, contribuirono non poco le scelte agricole fatte dai proprietari dei fondi. Dalla Pianura Padana, per arrivare fino alle fertili pianure toscane, si scelse di coltivare il mais al posto del grano. Questo cereale, al tempo era considerato un vero e proprio ”maiale” vegetale, nel senso che di lui non si buttava via nulla. Oltre alla maggior resa per ettaro, rispetto al grano, con il mais, chiamato in dialetto “granturc” o come nella vicina Lunigiana “f’ermenton,” era possibile, dopo averlo macinato per avere farina gialla, usare i “cartozzi,” per fare i sacconi per materassi, i tutoli, che rimanevano dopo la sgranatura, erano usati come carta igienica, mentre il fusto tagliato grossolanamente diventava foraggio e lettiera per mucche, cavalli, e suini. Il cibo consumato giornalmente da una famiglia di contadini del tempo, era quasi esclusivamente la polenta, spesso insaporita, solo con erbette spontanee, chiamate in vernacolo “erbi.” A Carrara questa pietanza era diffusissima, si chiamava in dialetto “polenta ‘ncatnata,”(polenta incatenata.) ed era fatta soprattutto in primavera, quando le erbette spontanee cominciavano a spuntare. Purtroppo questa dieta “monotematica,” oltre ad essere poco appetibile, creava gravi problemi di salute, favorendo l’insorgere di una terribile malattia; la Pellagra. Questa patologia, era causata dalla carenza di una vitamina del gruppo “B” la PP, che pur essendo presente nel mais, non era resa disponibile nei mammiferi sprovvisti di un rumine. Erano molte le persone colpite dalla “malattia delle quattro D,” come si diceva un tempo, ossia, Dermatite, Demenza, Diarrea, Decesso. Per secoli s’ignorò la causa di questa misteriosa patologia che colpiva, soprattutto i “mangiapolenta,” colpendo prima la pelle, poi la pancia, e per ultimo privandoli della ragione li uccideva. Alcuni illustri scienziati del tempo, ipotizzarono addirittura che fosse presente un misterioso veleno nel mais, fino a dire che, la malattia era causata semplicemente dai raggi solari. Si dovette aspettare il 1937, perché un ricercatore americano, scoprisse la causa, e la semplice cura per debellare questo terribile morbo. Sconfiggere la Pellagra, non migliorò di molto la vita dei contadini. Uno dei quattro Cavalieri, era sempre accompagnato dal suo fido scudiero; la miseria. Anche il territorio Apuano non fu certo immune da questa carenza alimentare. Si pensi che a agli inizi del XX secolo, nel nostro comprensorio, vi era una mortalità infantile superiore al 25%, decessi quasi tutti, dovuti a denutrizione, o a errori nell’alimentazione artificiale dei lattanti, per la totale mancanza di latte delle madri, per carenza alimentare. Ancora adesso è possibile vedere nei camposanti, “l’angolo degli angioletti,” come era chiamato l’apposito appezzamento cimiteriale, dedicato alla sepoltura dei bambini. Anche a Carrara, la polenta era l’alimento base, condita spesso, e quando possibile, da un filo d’olio d’oliva, o con un po di strutto, o lardo, oppure con formaggio pecorino, o di capra grattugiato. Le genti “marinelle” invece, preferivano condire la polenta con un’aringa conservata sotto sale. Dopo averla squamata e diliscata si faceva sciogliere sul fuoco in una terrina, che era poi messa in mezzo alla tavola dove tutti i commensali (con parsimonia) intingevano il loro pezzo di polenta. La carne di pollame o coniglio, anche se presente, era riservata al padrone, o alla vendita per poter ricavare qualche lira, per abiti e stoviglie, perciò consumata dalla famiglia dal contadino solo nelle feste come Pasqua e Natale. I mezzadri più “ricchi” potevano contare sul “mezzo maiale,” di spettanza, che doveva però durare tutto l’anno, in una famiglia spesso composta da dodici, o più figli. La maggior parte della gente, si procurava un minimo di proteine, dalla Natura, con la raccolta delle chiocciole, la pesca delle rane, l’uccellagione di frodo, e non ultimo, con l’uso di sostanze tossiche come il verderame, per la cattura di pesci e anguille nei torrenti. Nei nostri Paesi a monte, intere generazioni di persone sono sopravvissute alla fame grazie al nostrano ”albero del pane,” ossia il castagno. Non di rado la cena di una famiglia del primo dopoguerra era composta solo dai “bad’oti,” ossia le castagne bollite, distribuite in numero a scalare secondo l’età del figlio. Con la farina di castagne si facevano le Pattone, i Castagnacci, e mescolata con un pugno di farina di grano, il ” pan maroch,” una sorta di pane dolce. La farina di castagne, proprio per il suo gusto dolce, era usata mescolata al latte di pecora o di capra, come pappetta nello svezzamento dei lattanti. Spesso, le cene invernali dei contadini Apuani, erano composta da zuppe di cicorie, cavoli verza, o qualsiasi altro vegetale fosse sopravvissuto nell’orto al gelo invernale, insaporite con “d’oss cunditor,” (l’osso conditore) e con pezzi di una specie di focaccia di farina gialla, impastata con un po di strutto, e fatta cuocere fino a diventare durissima, sotto la cenere del camino. L’osso conditore, altro non era che l’osso del prosciutto, che veniva fatto bollire nelle zuppe, infinite volte, per spremere fino all’ultimo ogni grammo di sapore, spesso, quest’osso veniva prestato anche alle vicine. Neppure la famosa “battaglia del grano” promossa nel ventennio fascista per incentivare la coltivazione di grano al posto del mais, postò miglioramenti alimentari alla nostra gente. La carne rimaneva un miraggio, fino a quando nel primo dopoguerra la Simmenthal, un’azienda italiana di carne in scatola, lanciò sul mercato questo prodotto, che poteva finalmente fornire proteine animali a un prezzo sostenibile. Oggi molti Chef stellati, per reclamizzare le loro creazioni, aggiungono, spesso “buono come quello di una volta,” dimenticando che “una volta” mancava non solo il buono, ma anche il poco.
Mario Volpi 25.4.21
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