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Proverbi al lavoro

Dialetto
Il mistero del dialetto “carrarino”

Spetta/Le Redazione
Continuiamo la rubrica  dei detti e proverbi in dialetto carrarino, questa volta dedicati al  lavoro nella cava. Spero che questo articolo aiuti le nuove generazioni  ha pensare al massacrante lavoro quotidiano a cui erano sottoposti i  nostri avi.

Anche in ambito lavorativo, nel corso della loro storia ultra millenaria, le genti Apuane hanno coniato detti, proverbi, e vocaboli che sintetizzavano subito il concetto, o l’attrezzo di cui si stava parlando. E’ doveroso spiegare che l’ambiente di lavoro, ” la cava, ” era, è rimane, un ambiente a se stante, unico nel suo genere, per le sue problematiche, soprattutto riguardanti la sicurezza che anche ai giorni nostri non sono state del tutto risolte. In questo mondo polveroso, fangoso, è ostile, anche i nomi degli utensili sono particolari, come del resto lo sono gli attrezzi stessi, la cui forma è stata perfezionata nel corso dei secoli dall’esperienza di generazioni di cavatori.
Così, la lunga punta esagonale che si mette sul martello pneumatico per fare i fornelli da mina diventa ‘l fioret il fioretto, la leva di ferro, ‘l pal il palo il grosso martello dalla forma particolare composto di un piatto e una punta è l scapezator lo scapezzatore, indispensabile per rendere i blocchi appena estratti di una forma più geometrica possibile. Un tempo per spaccare un blocco si praticava dei fori in fila a distanza di circa due centimetri l’uno dall’altro, poi s’inserivano degli scalpelli particolari composti di tre parti distinte e si picchiava con una mazza ripetutamente su di essi fino alla rottura del blocco. Questi scalpelli si chiamavano puncioti punciotti. Anche gli operai addetti alle varie mansioni assumono nomi particolari. Un tempo l’élite era composta dalle Cumpanie d liza Compagnie di lizza. Con un numero variabile da dodici a quindici, erano dei veri e propri “liberi professionisti” senza un padrone, che rispondevano solo al Cap liza Capo lizza, che nella loro personale scala gerarchica era secondo solo a Dio. Queste compagnie prendevano i “cottimi” ossia un tanto, tutto compreso, per trasportare un certo numero di tonnellate di marmo, fissato con funi di acciaio a delle speciali slitte di legno, dalla cava, lungo le scoscese e pericolose vie di lizza, fino al piano, ossia al luogo di caricamento. Anche i componenti della slitta avevano nomi speciali. L schiav lo schiavo era il grosso cavallotto di ferro che serviva a legare tra loro le braghe d’acciaio, invece le lunghe travi di faggio che erano tolte di dietro e riposizionate davanti, si chiamavano parati parati, mentre i ceppi di legno infissi nel marmo lungo la discesa dove era avvolta la corda che era gradatamente mollata, erano i piri piri.
 
Chi preparava e appiccava il fuoco alle mine, si chiamava fuchin fuochino. Questa figura professionale si formava solo con l’esperienza da padre in figlio. Di solito analfabeta, come la maggior parte degli operai del tempo, non aveva alcuna cognizione scientifica di micce, detonatori, ed esplosivi. Lo guidava solo l’esperienza e questi materiali, spesso mal conservati, all’umido, o al caldo torrido della “capanna” non davano affidamento sul loro corretto funzionamento. Molti di questi operai sono morti dilaniati dall’esplosione, per il mal funzionamento della miccia, che loro dicevano “falsa,” perché bruciava subito, non dandogli il tempo di mettersi al riparo. Gli attrezzi del mestiere erano:‘l zigar il sigaro necessario per accendere la miccia, ’l carichin il carichino un lungo bastone di legno necessario per compattare la polvere in fondo al fornello, i cap’deti i capelletti così erano chiamati i detonatori di alluminio da stingere, spesso, incoscientemente con i denti, in cima alla miccia, e la tromba la tromba. In verità, questa era un corno, che l’aiutante fuochino suonava per avvertire gli operai nelle cave circostanti di mettersi al riparo per l’imminente accensione. Dopo il suono del corno e lo sventolio della bandiera rossa, l’aiutante fuochino urlava anche il numero delle mine che sarebbero esplose, ovviamente in dialetto esempio, ad’èn zinqui. sono cinque .Dopo lo scoppio della mina entrava in azione il teciaiol il tecchiaiolo. Questo vero e proprio operaio-acrobata, con una semplice fune legata intorno alla vita, si calava sulla parete a strapiombo e con ‘l piz il pizzo, un particolare paletto di ferro, rimuoveva i sassi pericolanti in modo che non colpissero chi doveva lavorare nella cava sottostante. ‘L quadrator il quadratore invece, aveva il compito di trasformare un blocco informe in un parallelepipedo, atto ad essere impilato, e questo solo con la mazzetta e la subia subbia, uno scalpello con la punta quadra. ‘L capanar il capannaio era un pò il guardiano-magazziniere-motorista-cuoco della cava. I suoi turni di lavoro erano diversi perché restava continuativamente in cava anche per quindici giorni, erano considerati un po’ asociali perché, vedevano la famiglia solo due volte il mese, ma spesso era il solo modo per guadagnare qualcosa in più. Negli anni sessanta, con l’introduzione del filo elicoidale è nata una nuova figura professionale: ‘l filista il filista. Questo specialista, aveva il compito di stendere il filo elicoidale dalla capanna, dove erano posti i motori, fino al luogo dove si doveva tagliare il blocco. Per farlo, si serviva di grosse ruote di ghisa orientabili che giravano su dei pali di ferro; i potò i potò piantati al suolo, da qui il detto ier fiss com un potò era fisso (fermo, immobile) come un potò. Il filo elicoidale svolgeva la sua azione abrasiva sul marmo, grazie all’impiego di sabbia e acqua. Il grosso contenitore per quest’ultima, era detto boz bozzo vocabolo che in dialetto indica una grossa pozzanghera, o un piccolo lago. Ultimo nella scala gerarchica dell’antica forza lavoro, era l’apprendista, chiamato ‘l bagasch il bagascio. Purtroppo, si racconta, che l’origine di questo nome particolare, il cui riferimento a una certa professione femminile è evidente, sia dovuto al fatto che nei tempi antichi, gli apprendisti, vivessero in cava, e fossero spesso al centro delle attenzioni sessuali dei capannari, che la lontananza dalla famiglia rendeva particolarmente “pericolosi”. Nelle immediate vicinanze delle cave, spesso in una fatiscente baracca, vi era ‘l magnan il fabbro. Questo artigiano provvedeva a riparare e ritemprare le punte di subbie e scalpelli, nonché a riformare martelli e mazzuoli che l’uso prolungato rendeva inservibili. In questo mondo particolare, tutto è speciale: l’unità di misura è ‘l palm il palmo, il trapano manuale era ‘l viulin il violino un difetto del marmo si chiama pel pelo, la discarica di detriti ‘l ravanet il ravaneto, il luogo dove si caricavano i blocchi ‘l poz il poggio, i primi trattori a vapore la zavatona la ciabattona, la sirena che annunciava un infortunio grave ‘l mugnon il mugnone, l’attrezzo manuale per sollevare i blocchi ‘l martin il martino, mentre se sentite un cavatore che cerca la “cagneta” non aspettatevi un simpatico cagnolino, bensì una specie di basso carrellino atto a spostare le lastre. Così come la capra la capra non serviva per dare il latte, ma era uno speciale attrezzo per impilare le lastre. Oggi la moderna tecnologia estrattiva, ha decretato il tramonto di molti di questi attrezzi, e anche le figure professionali sono cambiate. Però il ricordo della loro esistenza e della loro millenaria fatica deve sempre essere ricordata, perché, se oggi siamo qui, lo dobbiamo anche a loro.
Mario Volpi
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