Carnevale Marina di Carrara anni 50
Lo sapevi che
Il termine “carnevale” deriva dalla locuzione latina carnem levare – ovvero, letteralmente, “privarsi della carne” – che si riferiva all’ultimo banchetto che tradizionalmente si teneva l’ultimo giorno prima di entrare nel periodo di Quaresima e quindi nel “martedì grasso” che precedeva il “mercoledì delle ceneri”. Il martedì grasso è da sempre l’occasione per gustare i dolci tipici del carnevale, come le chiacchere chiamate anche frappe o bugie, le frittelle o castagnole e tutte le golosità che cominciano a comparire sempre prima nei banchi di gastronomia e nei supermercati in tutta Italia.Essendo legato all’inizio della Quaresima e quindi alla data della Pasqua, la collocazione precisa del carnevale nel calendario varia di anno in anno.
Il carnevale infatti, nel calendario liturgico cattolico-romano si colloca necessariamente tra l'Epifania (6 gennaio) e la Quaresima. Le prime testimonianze documentarie del carnevale risalgono ad epoca medievale (sin dall'VIII sec. ca.) e parlano di una festa caratterizzata da uno sregolato godimento di cibi, bevande e piaceri sensuali. Per tutto il periodo si sovvertiva l'ordine sociale vigente e si scambiavano i ruoli soliti, nascondendo la vecchia identità dietro delle maschere.
Affermando che "a Carnevale ogni scherzo vale", si vivono giorni all'insegna della sregolatezza, delle burle, delle mascherate danzanti, della gioia sfrenata. Le feste di Carnevale sono occasione di divertimento esagerato e di grandi mangiate. Nel Medioevo il Carnevale era il tempo delle scorpacciate comunitarie e delle danze infinite. Il 're del Carnevale' garantiva l'allegria pazza e la sospensione temporanea delle leggi, delle regole e della morale. Come a Capodanno, semel in anno licet insanire: si può ben essere folli una volta l'anno. I ruoli sociali si invertivano: gli uomini si vestivano da donne e viceversa, i poveri da ricchi, i ricchi da accattoni o da giullari.
I balli, che ancora oggi contraddistinguono i veglioni, erano dedicati alle divinità della terra. Il ballo con i saltelli (come il 'saltarello' laziale) imitava il crescere delle spighe di grano: più in alto saltavano i danzatori, più lunghi e fecondi sarebbero stati gli steli delle spighe. La danza, il riso e l'amore santificavano l'eterno ritorno della primavera.Nel Rinascimento i carri carnevaleschi esibivano la grandezza dei signori e permettevano al popolo sfrenati baccanali.Il Carnevale di oggi si ispira ancora alle belle maschere del tempo che fu e i bambini vogliono travestirsi da moschettieri, da pirati, da dame settecentesche e da odalische dai mille veli. A Marina il Carnevale.......
C.P
Mia madre mi raccontava sempre di queste sfilate con bellissimi e grandi carri, era un’occasione per tutti i marinelli che si ritrovavano lungo le strade a festeggiare, dopo un lungo ed estenuante periodo bellico.
Questa manifestazione è durata circa fino alla metà degli anni 50, poi da un anno all’altro il carnevale è sparito senza una vera e propria ragione, anche se la maggior parte delle persone intervistate ritengono che il motivo di questa scomparsa sia da imputare all’avvio del carnevale di Viareggio che è riuscito a prevalere su quello marinello, probabilmente grazie anche a finanziamenti economici di privati e statali.
Alcune informazioni
La prima sfilata a Marina dovrebbe essere data 1948 /1949 e uno degli organizzatori era il Signor Felice Vatteroni.
All’ inizio i carri erano trainati da buoi, e in seguito sono stati sostituiti dai trattori.
Ogni rione presentava il proprio carro, quello in foto era del rione del CANTINONE,altri rioni erano: BASSAGRANDE, SAN GIUSEPPE, la RUGA e altri di cui non si ricordano i nomi.
La foto n°1 sembra riprendere la piazza della chiesa con il viale XX Settembre angolo via Garibaldi.
Il mio carnevale
Nella Società italiana, dopo il Natale e la Pasqua, la festività certamente più sentita è il Carnevale.
Anche se non ha una data ben definita, che ne determini l’inizio e la fine, in questi ultimi decenni questa festività è diventata sempre più importante e consumistica. Alcune città come Viareggio, Cento, Venezia, basano sul Carnevale una fetta importante dei loro bilanci, riuscendo a far muovere milioni di Euro con il turismo a esso collegato. Questa festa-non-festa, che è celebrata per tutto il mese di febbraio, ha il suo culmine nei tre giorni denominati, giovedì, domenica, e martedì grassi, prima dell’avvento della Quaresima, ormai sconosciuta ai più, e rispettata da pochissime persone. Ogni domenica del mese di febbraio, specialmente se splende il sole, in ogni città italiana è facilissimo vedere i luoghi cosiddetti dello “struscio” affollati da genitori che accompagnano bambini piccolissimi, perfettamente mascherati con costumi stupendi, anche molto elaborati, che ricordano i nuovi personaggi dei cartoni animati, o i super eroi, per non parlare poi dei classici e intramontabili Zorro, Biancaneve o la fata Turchina.
Io, nei miei ricordi di bambino, ho una data ben viva nella memoria, il 1953, questo non perché in quella data fosse accaduto qualcosa di particolarmente bello o brutto, ma semplicemente perché è stato il mio primo anno di scuola elementare, e la maestra ogni mattina scriveva il giorno, il mese, e l’anno, sulla lavagna, che noi dovevamo faticosamente ricopiare. Erano anni difficili, la miseria era imperante nella maggior parte delle famiglie, il tasso di emigrazione verso l’Australia, Canada, e America del Sud, era ripreso con vigore, com’era importante il flusso di emigrazione verso paesi Europei, come il Belgio, che tramite un accordo con lo Stato Italiano offriva lavoro nelle miniere di carbone, o Svizzera, e Francia. Erano ancora ben visibili le facciate delle case sbrecciate dalle schegge di bombe o di mitraglia, e in molte erano ancora presenti le scritte propagandistiche del ventennio Fascista. Nonostante questa situazione non certo rosea, il Carnevale era molto sentito, soprattutto dagli adulti e dai ragazzi più grandi. Il giovedì grasso era tradizione legare al braccio del “padrone” come un tempo era chiamato il datore di lavoro, un nastro colorato, spesso ornato con una coccarda, comperato con il contributo di tutti i suoi sottoposti. Siccome l’Italia del tempo era prevalentemente agricola, era spesso il fattore a ricevere questo nastro che ricambiava alla sera con una cena in cascina, annaffiata da abbondanti bevute di “vin bon” (vino buono) al posto della solita vinella, o strizzo. La domenica grassa invece era dedicata al ballo. Erano tre i principali locali carrarini, dove si svolgevano questi “veglioni” che finivano immancabilmente a mezzanotte, uno era il mitico “Gelsè,” una baracca di legno, colorata vivacemente che si trovava a metà strada dell’attuale via Piave, sulla sponda destra del Carrione, un altro era la “Moretta” a Carrara, e il terzo detto “Germinal” era situato nei sotterranei dell’attuale palazzo delle Poste di Carrara. Le ragazze vi si recavano con il tram, accompagnate dalle madri o dalle sorelle più grandi, spesso con al seguito il codazzo dei fratelli più piccoli. I ragazzi, con i capelli impomatati da quintali di brillantina, gli cercavano il ballo che era accettato non solo dalla ragazza, ma con un leggero assenso della testa, anche dalla madre o sorella.
Nelle edicole erano in vendita per i più piccoli, delle maschere piatte, che riproducevano facce d’indiani, streghe, o scimmie, provviste di due fori per gli occhi e un elastico, ma il loro costo “proibitivo” di ben 15£ ne sconsigliava l’acquisto. Noi ragazzini ripiegavamo sulle foderine nere dei quaderni scolastici, dove si ritagliava una maschera tipo Zorro che ci fissavamo dietro la testa con un elasticino. Anche le trombette di cartone coniche, con le stelle filanti sulla sommità, o quei fischietti di cartone che si allungavano e si ritiravano erano per noi un lusso, per non parlare di stelle filanti o coriandoli, mi rammento che un giorno a scuola mi regalarono un sacchettino di coriandoli, io per la paura di “consumarli” non ne lanciai neppure uno. Il giorno più importante del Carnevale era comunque il martedì grasso, dove i ragazzi e gli adulti si scatenavano in scherzi, a volte anche pesanti, spesso a spese del parroco, o del fattore, visti un po’ come l’autorità costituita, e in travestimenti. Era prassi consolidata, visto la totale assenza di maschere carnevalesche, di mascherarsi gli uomini da donna, e le donne da uomo. Così si vedevano improbabili contadine, con seni e pance enormi fatte con il fieno, con in testa dei fazzoletti da dove spuntavano boccoli fatti con la stoppa per levare l’olio dal vino, mentre le ragazze intabarrate in abiti maschili di tre taglie più grandi, avevano barbe e baffi disegnati con il carbone. Così mascherati questi gruppi accompagnati dall’immancabile organetto, o mandolino, giravano per le cascine, facendo divertire adulti e bambini, guadagnando qualche uovo, o visto che da poco era stato macellato il maiale, qualche salsiccia, o pezzo di buristo, non mancavano le “chiacchere” fritte apposta per l’avvenimento, accompagnate spesso da un buon bicchiere di “ bianch bon d Candia,”(bianco buono di Candia) il tutto ovviamente era consumato in comunione la sera, in qualche stalla o cascina compiacente.
Se da una parte, vista la loro tragicità, sono stati anni da dimenticare, hanno però avuto il merito di insegnare a quelli della mia generazione i veri valori della vita. Io penso che sia certamente più gratificante divedere un pezzo di pane, e mezza salsiccia, con un vero amico, che sfoggiare un costosissimo capo griffato, davanti magari, a mille sconosciuti, e questo tutt’ora, dopo altre mezzo secolo.
Anche se non ha una data ben definita, che ne determini l’inizio e la fine, in questi ultimi decenni questa festività è diventata sempre più importante e consumistica. Alcune città come Viareggio, Cento, Venezia, basano sul Carnevale una fetta importante dei loro bilanci, riuscendo a far muovere milioni di Euro con il turismo a esso collegato. Questa festa-non-festa, che è celebrata per tutto il mese di febbraio, ha il suo culmine nei tre giorni denominati, giovedì, domenica, e martedì grassi, prima dell’avvento della Quaresima, ormai sconosciuta ai più, e rispettata da pochissime persone. Ogni domenica del mese di febbraio, specialmente se splende il sole, in ogni città italiana è facilissimo vedere i luoghi cosiddetti dello “struscio” affollati da genitori che accompagnano bambini piccolissimi, perfettamente mascherati con costumi stupendi, anche molto elaborati, che ricordano i nuovi personaggi dei cartoni animati, o i super eroi, per non parlare poi dei classici e intramontabili Zorro, Biancaneve o la fata Turchina.
Io, nei miei ricordi di bambino, ho una data ben viva nella memoria, il 1953, questo non perché in quella data fosse accaduto qualcosa di particolarmente bello o brutto, ma semplicemente perché è stato il mio primo anno di scuola elementare, e la maestra ogni mattina scriveva il giorno, il mese, e l’anno, sulla lavagna, che noi dovevamo faticosamente ricopiare. Erano anni difficili, la miseria era imperante nella maggior parte delle famiglie, il tasso di emigrazione verso l’Australia, Canada, e America del Sud, era ripreso con vigore, com’era importante il flusso di emigrazione verso paesi Europei, come il Belgio, che tramite un accordo con lo Stato Italiano offriva lavoro nelle miniere di carbone, o Svizzera, e Francia. Erano ancora ben visibili le facciate delle case sbrecciate dalle schegge di bombe o di mitraglia, e in molte erano ancora presenti le scritte propagandistiche del ventennio Fascista. Nonostante questa situazione non certo rosea, il Carnevale era molto sentito, soprattutto dagli adulti e dai ragazzi più grandi. Il giovedì grasso era tradizione legare al braccio del “padrone” come un tempo era chiamato il datore di lavoro, un nastro colorato, spesso ornato con una coccarda, comperato con il contributo di tutti i suoi sottoposti. Siccome l’Italia del tempo era prevalentemente agricola, era spesso il fattore a ricevere questo nastro che ricambiava alla sera con una cena in cascina, annaffiata da abbondanti bevute di “vin bon” (vino buono) al posto della solita vinella, o strizzo. La domenica grassa invece era dedicata al ballo. Erano tre i principali locali carrarini, dove si svolgevano questi “veglioni” che finivano immancabilmente a mezzanotte, uno era il mitico “Gelsè,” una baracca di legno, colorata vivacemente che si trovava a metà strada dell’attuale via Piave, sulla sponda destra del Carrione, un altro era la “Moretta” a Carrara, e il terzo detto “Germinal” era situato nei sotterranei dell’attuale palazzo delle Poste di Carrara. Le ragazze vi si recavano con il tram, accompagnate dalle madri o dalle sorelle più grandi, spesso con al seguito il codazzo dei fratelli più piccoli. I ragazzi, con i capelli impomatati da quintali di brillantina, gli cercavano il ballo che era accettato non solo dalla ragazza, ma con un leggero assenso della testa, anche dalla madre o sorella.
Nelle edicole erano in vendita per i più piccoli, delle maschere piatte, che riproducevano facce d’indiani, streghe, o scimmie, provviste di due fori per gli occhi e un elastico, ma il loro costo “proibitivo” di ben 15£ ne sconsigliava l’acquisto. Noi ragazzini ripiegavamo sulle foderine nere dei quaderni scolastici, dove si ritagliava una maschera tipo Zorro che ci fissavamo dietro la testa con un elasticino. Anche le trombette di cartone coniche, con le stelle filanti sulla sommità, o quei fischietti di cartone che si allungavano e si ritiravano erano per noi un lusso, per non parlare di stelle filanti o coriandoli, mi rammento che un giorno a scuola mi regalarono un sacchettino di coriandoli, io per la paura di “consumarli” non ne lanciai neppure uno. Il giorno più importante del Carnevale era comunque il martedì grasso, dove i ragazzi e gli adulti si scatenavano in scherzi, a volte anche pesanti, spesso a spese del parroco, o del fattore, visti un po’ come l’autorità costituita, e in travestimenti. Era prassi consolidata, visto la totale assenza di maschere carnevalesche, di mascherarsi gli uomini da donna, e le donne da uomo. Così si vedevano improbabili contadine, con seni e pance enormi fatte con il fieno, con in testa dei fazzoletti da dove spuntavano boccoli fatti con la stoppa per levare l’olio dal vino, mentre le ragazze intabarrate in abiti maschili di tre taglie più grandi, avevano barbe e baffi disegnati con il carbone. Così mascherati questi gruppi accompagnati dall’immancabile organetto, o mandolino, giravano per le cascine, facendo divertire adulti e bambini, guadagnando qualche uovo, o visto che da poco era stato macellato il maiale, qualche salsiccia, o pezzo di buristo, non mancavano le “chiacchere” fritte apposta per l’avvenimento, accompagnate spesso da un buon bicchiere di “ bianch bon d Candia,”(bianco buono di Candia) il tutto ovviamente era consumato in comunione la sera, in qualche stalla o cascina compiacente.
Se da una parte, vista la loro tragicità, sono stati anni da dimenticare, hanno però avuto il merito di insegnare a quelli della mia generazione i veri valori della vita. Io penso che sia certamente più gratificante divedere un pezzo di pane, e mezza salsiccia, con un vero amico, che sfoggiare un costosissimo capo griffato, davanti magari, a mille sconosciuti, e questo tutt’ora, dopo altre mezzo secolo.
Enzo De Fazio
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