Antica città di Luni
Caprione
Come raggiungerlo
Uscita casello autostradale di Carrara, svoltare a sinistra, al secondo semaforo svoltare a sinistra sulla strada Aurelia, proseguire dritti in direzione Sarzana per un paio di KM al secondo semaforo svoltare a sinistra, 500 m seconda strada a destra e seguire le indicazioni.
Uscita casello autostradale di Carrara, svoltare a sinistra, al secondo semaforo svoltare a sinistra sulla strada Aurelia, proseguire dritti in direzione Sarzana per un paio di KM al secondo semaforo svoltare a sinistra, 500 m seconda strada a destra e seguire le indicazioni.
Antico isediamento ligure in seguito diventa colonia romana. Sconfitti gli ultimi ribelli liguri-apuani , nel 230 a.C con la creazione di una colonia romana iniziò la vita della città di Luni e del suo porto [Portus Lunae] dal quale venivano esportati i blocchi di marmo prelevati dalle Alpi Apuane per abbellire la città di Roma.
All’ interno delle mura si trovavano: il Foro, palazzi sontuosi, il teatro e le terme, mentre l'anfiteatro rimaneva al di fuori del perimetro murale.
Con il decadere dell’ impero romano e a seguito di un evento sismico la Splendida Civitas cadde in rovina, nel secolo IV.
Negli anni successivi Luni diviene centro della provincia Marittima Italorum Bizantina, dal 550 e negli anni a venire fu sede del potere dei vescovi di Luni.
Con l’ insabbiamento del porto e le numerose incursioni saracene la città e la pianura resa malsana dalla malaria furono abbandonate definitivamente.
Gli abitanti di Luni si trasferirono a Sarzana, Castelnuovo Magra e Nicola.
Da visitare nelle vicinanze il borgo di Ameglia con la Necropoli ligure di Cafaggio risalente al III secolo a.C
L'Anfiteatro
Fu costruito ne suburbio orientale della città, secondo l' orientamento della ripartizione agraria che in età augustiana sostituì quella traccia all' atto di fondazione della colonia.
Sorge a circa 250 metri dalla Porta Orientale, lungo la via Aurelia.
L'asse maggiore m 88.50, l'asse minore misura m 70,20.
Nell'arena si svolgevano i giochi gladiatori le cacce e le fiere, che richiamavano la popolazione della città e del territorio.
Le gradinate, insieme con la galleria porticata posta in sommità, potevano raccogliere più di 7000 spettatori.
I due accessi principali erano aperti sull'asse maggiore, gli altri accessi erano distribuiti lungo il perimetro in corrispondenza delle scale interne che portavano alle gradinate.
Note :
Tavole da Mazzini U. l'anfiteatro romano di Luni illustrato e descritto 1915
Fu costruito ne suburbio orientale della città, secondo l' orientamento della ripartizione agraria che in età augustiana sostituì quella traccia all' atto di fondazione della colonia.
Sorge a circa 250 metri dalla Porta Orientale, lungo la via Aurelia.
L'asse maggiore m 88.50, l'asse minore misura m 70,20.
Nell'arena si svolgevano i giochi gladiatori le cacce e le fiere, che richiamavano la popolazione della città e del territorio.
Le gradinate, insieme con la galleria porticata posta in sommità, potevano raccogliere più di 7000 spettatori.
I due accessi principali erano aperti sull'asse maggiore, gli altri accessi erano distribuiti lungo il perimetro in corrispondenza delle scale interne che portavano alle gradinate.
Note :
Tavole da Mazzini U. l'anfiteatro romano di Luni illustrato e descritto 1915
Queste informazioni sono state riprese da una didascalia adiacente all'anfiteatro.
LA TERRA DI LUNA
LA TERRA DI LUNA nozioni sulla Lunigiana
L'Alta Lunigiana, fra Emilia, Liguria e Toscana, zona di transiti e crocevia di civiltà, ha saputo conservare intatta la sua identità culturale, intrisa di mistero: nel paesaggio, lussureggiante, a tratti impenetrabile; nei costumi, che riecheggiano riti pagani e magici; nella cucina, fatta di semplici risorse del luogo, dalle castagne alle erbe spontanee. Le genti del territorio, fiere e ostinate, ancora oggi rimangono arroccate, come i propri castelli, sulle fondamenta granitiche di una tradizione che qui, meglio d'altrove, si può rivisitare, andando di borgo in borgo.
Raro è recarsi in Lunigiana a bella posta: l'attraversi, scorrendo via in treno o lungo l'autostrada che dal passo tosco-emiliano della Cisa ti portano al mare Ligure o Tirreno, e quasi non ti avvedi. Scorgi dai finestrini un susseguirsi di boschi, di precipizi e di antichi paesi, sulle alture; costeggi il fiume Magra e porgi distratto l'occhio su ponti, ciotoli e rivi. Poco sai di ciò che ti scruta dai dintorni, della vegetazione selvaggia, dei 100 e più castelli, delle statue-stele, dei borghi medioevali e delle Pievi. Terra di confine, in provincia di Massa Carrara, ma dalla matrice regionale indefinibile, al viandante che volesse soffermarsi, la Lunigiana riserverebbe non poche sorprese: tutto parla di sacralità e di mistero e di condizioni fuori dal tempo, a iniziare dalla cucina "povera", che povera non è.
L'area si è sempre prestata alla strategia del passaggio e alla cupidigia della conquista, per la sua collocazione a cuneo fra tre regioni e per la morfologia, che concede vallate e crinali fra i meno aspri dell'Appennino. La posizione geografica l'ha collegata con Emilia Romagna, Liguria e Toscana, delle quali ha subito di volta in volta il predominio e gli influssi, ma senza per questo esserne soggiogata. Già nella preistoria, quando l'uomo primitivo e l'orso abitavano le grotte nascoste fra faggi e sorbi, il corridoio naturale servì alle popolazioni nomadi per transitare; poi, dall'età del bronzo o del ferro, il fondovalle divenne il sito stanziale dei Liguri Apuani. Non si sa se fosse questo l'arcano popolo che lasciò impronte eccezionali sul territorio. Datano 3000 anni a.C. i primi menhir, monoliti in pietra arenaria, che, ritrovati inumati nelle selve, luoghi sacri, sono la testimonianza di una religiosità tribale diffusa in tutta Europa, ma rimasta indenne soltanto qui. Queste strane statue-stele, simbolo di divinità maschili e femminili, diventarono rappresentazione degli eroi armati, in seguito, dopo i contatti con Etruschi e Celti. Sarebbe invece collocabile verso il 900 a.C. il simbolo della Lunigiana, il "testarolo", una sorta di pane azzimo sottile, ricavato dalla "mleca", pastella liquida e cotta su tegliette di terracotta arroventata, che viene rinvenuto in acqua bollente e condito con il pesto. La "testa", o guscio, lo strumento in due parti, perfezionato per cuocere il testarolo, potrebbe essere derivato dai Romani, che nel 180 a.C. sconfissero i Liguri Apuani, deportati in massa nel Sannio, e diedero sviluppo alla vicina Luni, il "porto della Luna". Il fornetto portatile di terracotta divenne compagno indispensabile delle transumanze di contadini e pastori di questa terra sterile, che ha abituato le sue genti a sopravvivere con il poco a disposizione. Fra le due valve di terracotta, poste fra le ceneri ardenti, si fecero cuocere torte di erbe selvatiche e soprattutto impasti di farina di castagne. Non a caso il castagno è considerato "l'albero del pane" in Lunigiana, perchè è stato l'unico rimedio alle frequenti carestie e ha dato tutto di sè, dalle castagne impiegate come moneta e dal legno per mobili e attrezzi, alle foglie utilizzate per la cottura del pane o della "barbotta", focaccia di farina di castagne e salsiccia. Per questo, insieme ai testi, fu materia di gabelle da parte dei dominatori che si sono susseguiti, dapprima i Bizantini, poi i Longobardi e quindi gli Obertenghi-Malaspina. Questi, nominati feudatari nell'802 da Carlo Magno, rimarranno fino ai tempi della Rivoluzione francese, con il casato diviso in due rami, con stemma "spino fiorito" e "spino secco". Ma i Malaspina, dopo la vittoria sui Vescovi di Luni, nel 1306, di cui fu partecipe Dante Alighieri, si indebolirono: rimase loro la riva destra del fiume Magra, mentre Pontremoli e i luoghi circostanti furono presi dagli Sforza, visconti di Milano, e il nord est da Firenze. Per le popolazioni cambiò poco; fra castelli, torri e fortezze, poste a guardia e difesa dei possedimenti, e nelle campagne, la lotta fu sempre la stessa, contro la fame. La povertà era così tanta che i cocci caldi dei testi, rotti e non riparabili, erano applicati sugli arti per curare i reumatismi. L'ingegno dei Lunigianesi si aguzzò fino a ricavare il massimo anche dal terreno più impervio e a non sprecare niente. Dalle selve, si colsero frutti di bosco e funghi, non solo il reale porcino, serbato con l'essiccazione, ma anche specie più rozze, come chiodini e famigliole Alle colline si strapparono aree coltivabili, con terrazzamenti scavati a forza di braccia, per i vitigni e gli scarsi olivi; si selezionarono colture particolarmente adatte al microclima. Lungo l'estesa rete fluviale, sorsero 300 molini ad acqua per frangere castagne e cereali "umili" come orzo, mais e panico, in quanto il frumento era caro e importato. La produzione di vino dava calorie in più ai braccianti, ma il popolo beveva acqua per molti mesi all'anno e si deliziava con la "vinetta", ottenuta passando acqua calda sulle vinacce, o con il surrogato di corbezzoli. Mentre la morte di una capra o di altre bestie era un lutto, del maiale si è imparato a sfruttare ogni parte, come nel "gambetto", salume di sangue mescolato con poca carne e grasso. Il latte non è mai stato considerato un alimento, ma l'ingrediente per i formaggi molli o quelli messi a stagionare che, sospesi sopra una vaschetta di lamiera, colavano grasso buono per i lumi. L'olio era talmente raro da ritenerlo sacro e perciò donato per la lampada dell'eucarestia alle chiese, povere quanto le loro pecorelle. Per scacciare il diavolo, vicino ai santuari si vendevano pani con semi di finocchio. Per allontanare i malanni dai neonati, si forgiavano i "pipìn", bambolotti con avvolti i testimoni (capelli, unghie e sangue del piccolo) nel panno rosso, che, benedetti dal mago, o dal prete, erano seppelliti in luogo segreto. Per salvare i viandanti dalle insidie, lungo le mulattiere, sui portali delle case o nelle campagne venivano costruite le "maestà", ricoveri senza porta, sormontati da bassorilievi di marmo. I riti per propiziarsi il fato non si contano: l'usanza dei grandi falò collettivi, rimasta nei vari paesi, era dovuta al bisogno di comunicare con il Santo preferito, che era interpellato scrutando la quantità e la qualità delle scintille. Le selve furono teatro di fole, come quella delle fate che uscivano nude di notte per correre in cerca d'amore, o di fatti religiosi, come quello di Podenzana, della Madonna apparsa su un castagno. Sacro e profano s'inseguono e si confondono in Lunigiana, dove i castelli ospitano fantasmi inquieti e si fabbricano amuleti antimalocchio, detti "brevin", con tre chicchi di grano. Nemmeno la fine del feudalesimo mutò sostanza ed essenza di uomini e donne del territorio, che venne diviso fra Regno Italico e Regno d'Etruria e quindi, nell'800, fra Estensi di Modena e Granducato di Toscana. Così la spartizione fra i ducati di Parma e di Modena e la successiva annessione al Regno di Sardegna lasciarono invariata la situazione. Trovata l'unità, la Lunigiana è rimasta fedele a se stessa, con i vecchi problemi, i terreni lacerati in piccoli appezzamenti individuali, la mancata industrializzazione e la propensione all'emigrazione, ma prodiga di ospitalità e di affascinanti tradizioni.
L'Alta Lunigiana, fra Emilia, Liguria e Toscana, zona di transiti e crocevia di civiltà, ha saputo conservare intatta la sua identità culturale, intrisa di mistero: nel paesaggio, lussureggiante, a tratti impenetrabile; nei costumi, che riecheggiano riti pagani e magici; nella cucina, fatta di semplici risorse del luogo, dalle castagne alle erbe spontanee. Le genti del territorio, fiere e ostinate, ancora oggi rimangono arroccate, come i propri castelli, sulle fondamenta granitiche di una tradizione che qui, meglio d'altrove, si può rivisitare, andando di borgo in borgo.
Raro è recarsi in Lunigiana a bella posta: l'attraversi, scorrendo via in treno o lungo l'autostrada che dal passo tosco-emiliano della Cisa ti portano al mare Ligure o Tirreno, e quasi non ti avvedi. Scorgi dai finestrini un susseguirsi di boschi, di precipizi e di antichi paesi, sulle alture; costeggi il fiume Magra e porgi distratto l'occhio su ponti, ciotoli e rivi. Poco sai di ciò che ti scruta dai dintorni, della vegetazione selvaggia, dei 100 e più castelli, delle statue-stele, dei borghi medioevali e delle Pievi. Terra di confine, in provincia di Massa Carrara, ma dalla matrice regionale indefinibile, al viandante che volesse soffermarsi, la Lunigiana riserverebbe non poche sorprese: tutto parla di sacralità e di mistero e di condizioni fuori dal tempo, a iniziare dalla cucina "povera", che povera non è.
L'area si è sempre prestata alla strategia del passaggio e alla cupidigia della conquista, per la sua collocazione a cuneo fra tre regioni e per la morfologia, che concede vallate e crinali fra i meno aspri dell'Appennino. La posizione geografica l'ha collegata con Emilia Romagna, Liguria e Toscana, delle quali ha subito di volta in volta il predominio e gli influssi, ma senza per questo esserne soggiogata. Già nella preistoria, quando l'uomo primitivo e l'orso abitavano le grotte nascoste fra faggi e sorbi, il corridoio naturale servì alle popolazioni nomadi per transitare; poi, dall'età del bronzo o del ferro, il fondovalle divenne il sito stanziale dei Liguri Apuani. Non si sa se fosse questo l'arcano popolo che lasciò impronte eccezionali sul territorio. Datano 3000 anni a.C. i primi menhir, monoliti in pietra arenaria, che, ritrovati inumati nelle selve, luoghi sacri, sono la testimonianza di una religiosità tribale diffusa in tutta Europa, ma rimasta indenne soltanto qui. Queste strane statue-stele, simbolo di divinità maschili e femminili, diventarono rappresentazione degli eroi armati, in seguito, dopo i contatti con Etruschi e Celti. Sarebbe invece collocabile verso il 900 a.C. il simbolo della Lunigiana, il "testarolo", una sorta di pane azzimo sottile, ricavato dalla "mleca", pastella liquida e cotta su tegliette di terracotta arroventata, che viene rinvenuto in acqua bollente e condito con il pesto. La "testa", o guscio, lo strumento in due parti, perfezionato per cuocere il testarolo, potrebbe essere derivato dai Romani, che nel 180 a.C. sconfissero i Liguri Apuani, deportati in massa nel Sannio, e diedero sviluppo alla vicina Luni, il "porto della Luna". Il fornetto portatile di terracotta divenne compagno indispensabile delle transumanze di contadini e pastori di questa terra sterile, che ha abituato le sue genti a sopravvivere con il poco a disposizione. Fra le due valve di terracotta, poste fra le ceneri ardenti, si fecero cuocere torte di erbe selvatiche e soprattutto impasti di farina di castagne. Non a caso il castagno è considerato "l'albero del pane" in Lunigiana, perchè è stato l'unico rimedio alle frequenti carestie e ha dato tutto di sè, dalle castagne impiegate come moneta e dal legno per mobili e attrezzi, alle foglie utilizzate per la cottura del pane o della "barbotta", focaccia di farina di castagne e salsiccia. Per questo, insieme ai testi, fu materia di gabelle da parte dei dominatori che si sono susseguiti, dapprima i Bizantini, poi i Longobardi e quindi gli Obertenghi-Malaspina. Questi, nominati feudatari nell'802 da Carlo Magno, rimarranno fino ai tempi della Rivoluzione francese, con il casato diviso in due rami, con stemma "spino fiorito" e "spino secco". Ma i Malaspina, dopo la vittoria sui Vescovi di Luni, nel 1306, di cui fu partecipe Dante Alighieri, si indebolirono: rimase loro la riva destra del fiume Magra, mentre Pontremoli e i luoghi circostanti furono presi dagli Sforza, visconti di Milano, e il nord est da Firenze. Per le popolazioni cambiò poco; fra castelli, torri e fortezze, poste a guardia e difesa dei possedimenti, e nelle campagne, la lotta fu sempre la stessa, contro la fame. La povertà era così tanta che i cocci caldi dei testi, rotti e non riparabili, erano applicati sugli arti per curare i reumatismi. L'ingegno dei Lunigianesi si aguzzò fino a ricavare il massimo anche dal terreno più impervio e a non sprecare niente. Dalle selve, si colsero frutti di bosco e funghi, non solo il reale porcino, serbato con l'essiccazione, ma anche specie più rozze, come chiodini e famigliole Alle colline si strapparono aree coltivabili, con terrazzamenti scavati a forza di braccia, per i vitigni e gli scarsi olivi; si selezionarono colture particolarmente adatte al microclima. Lungo l'estesa rete fluviale, sorsero 300 molini ad acqua per frangere castagne e cereali "umili" come orzo, mais e panico, in quanto il frumento era caro e importato. La produzione di vino dava calorie in più ai braccianti, ma il popolo beveva acqua per molti mesi all'anno e si deliziava con la "vinetta", ottenuta passando acqua calda sulle vinacce, o con il surrogato di corbezzoli. Mentre la morte di una capra o di altre bestie era un lutto, del maiale si è imparato a sfruttare ogni parte, come nel "gambetto", salume di sangue mescolato con poca carne e grasso. Il latte non è mai stato considerato un alimento, ma l'ingrediente per i formaggi molli o quelli messi a stagionare che, sospesi sopra una vaschetta di lamiera, colavano grasso buono per i lumi. L'olio era talmente raro da ritenerlo sacro e perciò donato per la lampada dell'eucarestia alle chiese, povere quanto le loro pecorelle. Per scacciare il diavolo, vicino ai santuari si vendevano pani con semi di finocchio. Per allontanare i malanni dai neonati, si forgiavano i "pipìn", bambolotti con avvolti i testimoni (capelli, unghie e sangue del piccolo) nel panno rosso, che, benedetti dal mago, o dal prete, erano seppelliti in luogo segreto. Per salvare i viandanti dalle insidie, lungo le mulattiere, sui portali delle case o nelle campagne venivano costruite le "maestà", ricoveri senza porta, sormontati da bassorilievi di marmo. I riti per propiziarsi il fato non si contano: l'usanza dei grandi falò collettivi, rimasta nei vari paesi, era dovuta al bisogno di comunicare con il Santo preferito, che era interpellato scrutando la quantità e la qualità delle scintille. Le selve furono teatro di fole, come quella delle fate che uscivano nude di notte per correre in cerca d'amore, o di fatti religiosi, come quello di Podenzana, della Madonna apparsa su un castagno. Sacro e profano s'inseguono e si confondono in Lunigiana, dove i castelli ospitano fantasmi inquieti e si fabbricano amuleti antimalocchio, detti "brevin", con tre chicchi di grano. Nemmeno la fine del feudalesimo mutò sostanza ed essenza di uomini e donne del territorio, che venne diviso fra Regno Italico e Regno d'Etruria e quindi, nell'800, fra Estensi di Modena e Granducato di Toscana. Così la spartizione fra i ducati di Parma e di Modena e la successiva annessione al Regno di Sardegna lasciarono invariata la situazione. Trovata l'unità, la Lunigiana è rimasta fedele a se stessa, con i vecchi problemi, i terreni lacerati in piccoli appezzamenti individuali, la mancata industrializzazione e la propensione all'emigrazione, ma prodiga di ospitalità e di affascinanti tradizioni.
Per informazioni:
Ufficio Stampa Comune di Bagnone: Rosanna Ercole Mellone, 0187/49510 cell 348/5425583 347/8161012 tel. 0521/483988 - e-mail mellonea@tin.it rercolem@tin.it )
U.R.P., Comune di Bagnone: Federica Giga (cell 339/8554227), tel. 0187/42781; fax 0187/429210; segreteria@comune.bagnone.ms.it
Per informazioni:
Ufficio Stampa Comune di Bagnone: Rosanna Ercole Mellone, 0187/49510 cell 348/5425583 347/8161012 tel. 0521/483988 - e-mail mellonea@tin.it rercolem@tin.it )
U.R.P., Comune di Bagnone: Federica Giga (cell 339/8554227), tel. 0187/42781; fax 0187/429210; segreteria@comune.bagnone.ms.it
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