Quando non c'era Babbo Natale
Di Cybo in Cibo
Spetta/Le Redazione
Purtroppo nella globalizzazione imperante molte delle nostre millenarie tradizioni si stanno perdendo. Questo è un vero peccato perchè priva le nuove generazioni di godere della loro magica unicità.
Anche se pare impossibile, nei Natali del primo dopoguerra in Italia, Babbo Natale era ancora pressoché sconosciuto. Questo personaggio, è derivato da un misto di religiosità e folklore, ed era conosciuto soprattutto nei Paesi del nord dell’Europa. La sua derivazione religiosa è associata alla figura di San Nicola, vescovo dell’antica città turca di Myra. Nella parte folkloristica invece, Babbo Natale è un vero concentrato di simboli beneauguranti e positivi, così necessari per alleviare almeno nell’immaginario, la dura vita delle popolazioni del tempo. Già il nome, in origine “papà Natale” poi trasformato in” babbo,” la dice lunga sulla sua benevolenza. Uomo anziano, a simboleggiare la saggezza, corpulento, allegoria dell’abbondanza, dispensatore di doni, come si sperava facesse anche la natura, vestito di verde, come si voleva diventasse la terra dopo il bianco e gelido inverno. Si muoveva su un bianco cavallo alato, mentre i suoi aiutanti provvedevano a recapitare i doni ai bambini passando dal camino, mettendoli nelle loro scarpe poste sotto di esso. La sua trasformazione attuale, secondo alcuni, avviene negli anni trenta del novecento, quando la Coca Cola americana, usa la sua immagine per la pubblicità natalizia, cambiando il colore dell’abito in rosso, come il suo marchio, e fornendolo di slitta e renne per i suoi viaggi. Stessa derivazione ha l’Albero di Natale. Alcuni studiosi hanno scoperto che già i Celti erano usi adornare con nastri e candele un abete durante le celebrazioni del Solstizio d’inverno. Addirittura in Era medievale, la Chiesa cristiana ne proibì l’uso, sostituendolo con l’Agrifoglio, a simboleggiare le spine e le gocce del sangue di Gesù. E’ invece tutta italiana la tradizione del Presepe. Si dice che il suo ideatore fu San Francesco d’Assisi, nel 1222, ansioso di rievocare la nascita di Gesù in un ambiente naturale. Io da piccolo invece, aspettavo con ansia l’arrivo della “P’fana,” come si chiamava in dialetto la Befana o l’Epifania. Arrivava a notte fonda, volando a cavallo di un “granaton,” (antica scopa rustica di Erica) e passando dalla cappa del camino, metteva i regali per i bambini buoni nelle loro calze appese sotto la mensola del camino, mentre ai cattivi solo aglio e carbone. Figura tipicamente italiana, è quasi sconosciuta nel resto d’Europa, ma purtroppo la sua tradizione sta sparendo anche da noi. In origine era certamente un simbolo dell’anno vecchio che stava finendo, e “donava” le speranze di un buon raccolto nell’anno nuovo. Essendo chiaramente retaggio dell’antico Mitraismo, in epoca medievale la Chiesa tentò inutilmente di proibirne le celebrazioni, fino a consentire, dopo averla ripulita di ogni simbolo religioso, di festeggiare la sua ricorrenza nella dodicesima notte dopo Natale. Strano ma vero, per lungo tempo, almeno fino alla fine di tutti gli anni cinquanta, in Italia, era l’Epifania la festa più importante dopo il Natale. Questa ricorrenza era attesa con ansia non solo dai piccoli, ma anche dagli adulti, per la straordinaria atmosfera che questa festa portava con sé. Era, infatti, tradizione andare a “cantare la Befana.” Uomini e donne, vestiti di stracci e maschere buffe, con strumenti musicali veri o improvvisati, andavano di cascina, in cascina, cantando canzoni, e stornelli popolari, spesso pieni di doppi sensi. In cambio il padrone di casa donava loro dolci, vino, e altri generi alimentari, e i “Befani” solo se soddisfatti, ringraziavano nell’andarsene, augurando “buona Pasqua!” In origine questa tradizione era una forma scherzosa per fare la questua a favore dei più bisognosi del paese, che potevano così, almeno per un giorno mangiare abbondantemente, senza sentirsi umiliati dalla generosità altrui. Durante le Befane di un tempo, noi bambini eravamo allo stesso tempo euforici e tristi. Euforici perché aspettavamo con impazienza la mattina del sei gennaio, per scoprire cosa vi fosse all’interno della calza appesa sotto il camino, purtroppo, al tempo, spesso desolatamente semivuota, e tristi, perché “l’Epifania tutte le feste si porta via” e si ricominciava la scuola. La notte della Befana però, era una notte magica anche in campo alimentare. La mamma già dalla mattina, aveva messo in “bagno” la farina dolce di castagnaccio, assieme alla miscela di farine per fare i testaroli. Questa era costituita da un 70% di farina bianca di grano e dal 30% di farina di mais. I “testi” come si chiamano in dialetto, gli arnesi necessari per cuocere castagnacci e testaroli, sono composti di due semplici dischi di ferro, forniti di lunghi manici sempre in ferro, che consentono di porli sulla brace del camino senza scottarsi, ma al loro interno nascondono il sapere millenario di generazioni di fabbri. Il segreto di un buon paio di testi risiede nella loro fabbricazione, più precisamente nella martellatura. Infatti, tale pratica, crea sulla loro superfice dei microscopici avvallamenti, che permettono all’olio di oliva, di isolare la pasta dal metallo, permettendogli così di cuocere senza attaccarsi o bruciare. Anche la cottura era una vera e propria arte. La mamma o la nonna, dopo aver tolto i capifuoco, spostavano il fuoco da un lato del camino, mentre su quello opposto creavano un letto di braci ardenti. Quindi mettevano un testo a scaldare non prima però di averlo unto con dell’olio di oliva spalmato diligentemente con una mezza patata piantata su una forchetta. Poi con un mestolo, versavano la pasta che era in forma semiliquida, dopo avervi posto sopra il secondo testo, lo premevano con il mattarello, e poi lo rigiravano. Dopo pochi secondi, assieme al fumo, si sprigionava anche l’inconfondibile odore del castagnaccio, che faceva venire a molti di noi l’acquolina in bocca. Un minuto dopo questa sottile frittella dolce era pronta, e con un cucchiaio di ricotta fresca sopra, era una leccornia eccezionale. I testaroli invece erano serviti con un filo d’olio extra vergine d’oliva, e formaggio Parmigiano o Pecorino, grattato sopra, secondo i gusti, ma tutti e due da “p’rlicars i bafi!” (da leccarsi i baffi.) Nel giorno della Befana, era tradizione mangiare la “bianca lasagna,” questo perché, essendo pieno inverno, nell’orto le verdure scarseggiavano, e di solito il maiale non era ancora stato ucciso, però occorreva festeggiare con un buon pasto l’inizio di anno nuovo. Oggi purtroppo le scope sono state sostituite dagli aspirapolvere, i camini sono sempre più rari, e le calze di lana grezza, hanno lasciato il posto al nylon. Così la dolce vecchina ha deciso di andare in pensione, negando alle future generazioni di bambini italiani, di fare la sua conoscenza.
03.1.21 Mario Volpi
In questa sezione trovi