Cibo vietato
Di Cybo in Cibo
Spetta/Le Redazione
Per arricchire ulteriormente la vostra rubrica
dedicata al cibo tradizionale, vorrei parlarvi di quello oggi vietato, per
ragioni politiche, etiche, o ambientali. A discolpa del comportamento dei
nostri avi verso la Natura, va detto che la fame è una cattiva consigliera, e
che nonostante ciò, ci hanno consegnato un ambiente ancora integro, che noi,
con la nostra tecnologia, abbiamo inquinato forse per sempre.
L’evoluzione tecnologica e sociale dell’Italia dal primo dopoguerra a oggi, ha implicato anche la scomparsa di molti cibi, che oltre ad essere tipici in alcune regioni, hanno sfamato per secoli intere generazioni. Le cause di queste scomparse, sono molteplici, e vanno dalle nuove normative Europee, che spesso vietano l’uso di alcuni ingredienti basilari nella preparazione di quel cibo, a un rifiuto morale ed etico della Società civile, che in questi decenni ha, di fatto, profondamente cambiato l’atteggiamento verso la Natura, e dello sfruttamento delle sue risorse, siano queste animali o vegetali. A mio avviso, in molte persone, si sta formando un atteggiamento quasi da Santa Inquisizione spagnola, nei confronti di chi, come il sottoscritto, parla solo per descrivere i cibi di un tempo, oggi giudicati barbarie da dimenticare. A tal proposito vorrei ricordare il noto gastronomo Beppe Bigazzi, oggi scomparso, che per anni è stato co-conduttore della trasmissione televisiva ”La prova del cuoco, ” allontanato a furor di popolo dalla TV di Stato, perché reo di aver descritto come si cucinavano i gatti nel periodo bellico in Italia. Di certo, e per loro fortuna, questi integerrimi “censori gastronomici” non avranno mai conosciuto la fame, e non parlo di quel leggero, e piacevole languore che si avverte prima di pranzo, ma quella con la “F” maiuscola. Questo “mostro invisibile,“ da prima ti attanaglia le viscere, quasi volesse stapparteli per cibarsene, poi t’illanguidisce, togliendoti perfino la forza per stare in piedi, mentre con le sue gelide e ossute dita, ti accarezza la fronte che pur gelata, s’imperla di sudore, infine, quasi per prenderti in giro, ti provoca una nausea tale da rifiutare perfino l’acqua. Questa condizione peggiora ogni giorno di più, perché, per sopravvivere, l’organismo mette in moto una specie di ” risparmio energetico, ” dove in mancanza di cibo, comincia a “consumare” se stesso. Vorrei vederli, questi “paladini del politicamente corretto, ” se fossero in queste condizioni, se continuerebbero ad avere questi scrupoli morali. Oggi, alcune pratiche, un tempo considerate più che normali, non sono più né accettabili, né giustificabili, perché, fortunatamente, per la quasi totalità degli Italiani, la fame non è più un problema. Le proteine, così importanti per il benessere fisico del corpo, oggi sono alla portata di tutti, spesso anche in quantità eccessiva, mentre un tempo, le sole disponibili, per la stragrande maggioranza della popolazione italiana, erano ricavate da animali selvatici, prelevati in Natura. In quegli anni per molte persone, una primavera piovosa era una benedizione, perché di notte, si poteva andare nei campi “per lumache” come si diceva in dialetto. Armati di una lampada ad acetilene alimentata da un pezzo di carburo, e un secchio coperto con un panno, ci si recava nei campi, e lungo l’argine dei “b’tali,” (fossi per l’irrigazione) a caccia di lumache. Quest’animale era considerato un vero e proprio flagello per l’agricoltura, per questo, tutti gli agricoltori consentivano ai raccoglitori l’ingresso nei loro campi. Arrivati a casa, le chiocciole erano poste in una tinozza di legno, con sul fondo un pugno di farina gialla, per aiutarle a “spurgare, la bava, e svuotare l’intestino.” Dopo tre giorni, erano messe a bollire per un’ora, poi private del guscio, e cucinate in umido col sughetto, una vera leccornia. Oggi, quasi tutte le Regioni ne hanno proibita la raccolta, a mio avviso inutilmente, perché non vedo, nelle nuove generazioni, molti “cacciatori di gasteropodi.” Altra leccornia selvatica erano “i arnoc’li,” (i ranocchi) come si chiamavano in dialetto. Nei mesi estivi, noi ragazzi si andava per ranocchi, con una semplice canna di fiume, abbastanza lunga per non farci scorgere dalla preda, un pezzo di spago, il più fine e robusto possibile, con annodato sulla cima, un semplice pezzetto di filo di lana rossa. Scorto il ranocchio, si cercava di avvicinargli l’esca il più possibile, e appena lui aveva abboccato, con un rapido strappo lo si scaraventava sulla riva del canale, dove, il “compare,” lo afferrava prima che risaltasse in acqua e lo riponeva nel sacchetto fissato alla cintura. Una volta a casa, dopo la divisione, si spellavano, e le cosce erano impanate e fritte. Il loro sapore dolciastro non piaceva a tutti, così, molti le tritavano, e con aggiunta di qualche cipolla e un paio di uova, facevano la frittata, che era una vera delizia. Una pratica che oggi sarebbe considerata aberrante, e moralmente scorretta, erano gli “uccelletti al fiasco.” In primavera centinaia di passerotti nidificavano sui tetti delle cascine, e quando si giudicava che vi fosse un buon numero di nidiacei si faceva la raccolta. A onor del vero questa pratica, che oggi comporterebbe una denuncia penale, al tempo era anche un modo di sanificare il tetto, composto di semplici tegole appoggiate a travetti, da cui spesso non solo uccelli, ma anche topi, potevano tranquillamente entrare in casa. I nidiacei erano ancora implumi, e tenerissimi, così dopo la loro uccisione erano posti all’interno di un fiasco senza veste, con sale e spezie, e messo all’interno del forno dopo la cottura del pane. Si lasciava dentro tutta la notte, e il mattino dopo, era pieno di un sughetto naturale, che si gustava sopra una fetta di pane tostato, una colazione da Re. L’uccisione del maiale, era attesa con ansia da noi piccoli, perché sapevamo che sarebbe stato preparato il “birold’l” (sanguinaccio.) Questa specialità tutta toscana, era gustata con le “chiacchere” (dolce tipico) in concomitanza del Carnevale, e si preparava così. Si raccoglieva il sangue del maiale appena sgozzato, e prima che si rapprendesse, mescolato con uva passa, pinoli, farina, cannella, zucchero, e cacao, poi cotto, e versato nei barattoli dove era conservato per non più di un mese. Oggi la Comunità Europea ne ha proibito la fabbricazione e il consumo, per via dei rischi dovuti al consumo di sangue. Il buristo, in dialetto “maligat,” era invece un salume prodotto riempiendo lo stomaco del maiale, con carne ottenuta bollendo e disossando la testa per ore, sangue filtrato e lardelli vari, tagliati in modo grossolano, con l’aggiunta di aromi e spezie. Oggi, per gli stessi motivi e di difficile reperibilità, e se lo si trova, è comunque privo del sangue. Altro alimento messo al bando è il “formai con i bechi” (formaggio con i vermi.) Tipico della Sardegna e della Toscana, era ottenuto inserendo nella forma di formaggio in maturazione, la larva della mosca casearia, che riproducendosi, lo rendeva morbido e cremoso. Nelle cantine si vedeva spesso questo formaggio spartito fraternamente fra i giocatori di briscola, che si offrivano l’un l’altro le larve biancastre che tentavano di fuggire. Oggi proibito dall’UE, è ancora consumato in alcuni piccoli Borghi toscani e sardi, dediti alla pastorizia. Sulle nostre coste i pescatori per raggranellare qualche lira in più, catturavano i delfini per venderne il Mosciame, che altro non è che filetto salato ed essiccato. Questa specie di salame di pesce, era venduto alle famiglie ricche, e, soprattutto nella vicina Liguria, considerato un tipico e ricco piatto per le feste. Oggi la pesca del delfino è stata giustamente vietata, e questo ingrediente non è più disponibile. Le “ceche” o in livornese “cèe,” ossia anguille e piccoli pesciolini appena nati, erano catturati per fare delle gustose e sostanziose frittate. Oggi la cattura del novellame è proibita, per non depauperare la già scarsa popolazione ittica del nostro mare. Stesso divieto vale per i datteri di mare, per non demolire le scogliere cui sono abbarbicati. Va comunque sottolineato che queste attività, oggi considerate odiose, e dannose per l’ambiente, erano fatte dalla povera gente, con un unico scopo; sconfiggere, almeno per un giorno, lo spettro della fame.
Mario Volpi 7.5.21
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