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Francesco Arrighi

Mare Apuano
Spetta/Le Redazione

Pochi sanno, che durante il secondo conflitto mondiale, la flotta sottomarina della Regia Marina Italiana era seconda solo a quella degli Stati Uniti, come numero di scafi, ma non come efficienza e tecnologia. Nonostante questo, i marinai e ufficiali italiani, sopperirono a queste gravi carenze con il loro coraggio e professionalità, che costò a moltissimi di loro la vita. Purtroppo la Storia li ha accusati di essere dalla parte sbagliata della barricata, per cui, i loro numerosi atti eroici sono rimasti sconosciuti.
Come un gigantesco capodoglio, il “Corsaro”, navigava in emersione, nelle gelide acque dell’Atlantico. La sua sagoma scura era pressoché invisibile, contro il nero orizzonte. Il mare era agitato, e onde crestate di spuma s’infrangevano sulla sua prua arrotondata, proiettando mille schizzi verso un cielo nero come il carbone. Un teso vento al traverso, ululava sull’albero della slanciata torretta, e provocava un violento e continuo beccheggio, quasi volesse giocare con quella che sembrava la pinna dorsale, di un nero squalo d’acciaio. Ritto sulla plancetta, appena più sotto della vedetta, il Tenente di Vascello Francesco Arrighi, si asciugò con la mano il viso bagnato da quella pioggia di spruzzi salati, e con un brivido, si alzò il bavero del pesante giaccone, con i gradi da comandante. Alzò gli occhi verso il nero del cielo, punteggiato da un miliardo di scintillanti diamanti, e pensò alla stupidità dell’uomo, che sotto tale bellezza, pensava solo a uccidersi l’un l’altro. Era consapevole dei rischi della navigazione in superficie, ma le necessità di ricaricare le batterie, e di rinnovare le scorte d’aria, erano improrogabili. Erano in mare da quasi tre mesi, con un bottino di tre cargo alleati affondati, ora erano a corto di cibo, nafta, e siluri, e stavano per rientrare a Bordeaux, nella Francia occupata, alla base di sottomarini italiani chiamata in codice Betasom. Il suo secondo venne a rilevarlo, e lui, a malincuore, tornò a respirare l’aria viziata all’interno del sommergibile. Sdraiato sulla sua amaca, ripensava a come la guerra aveva scombussolato la sua vita. Era nato a Carrara, suo padre faceva l’ornatista, e il caso volle che per lavoro, frequentasse la casa di un comandante della Regia Marina Militare. Così per affrancarlo da una vita tribolata, tra cave, e ravaneti, suo padre, con la “raccomandazione” del comandante, riuscì a iscriverlo alla Regia Accademia Navale di Livorno. Lì si appassionò talmente allo studio, e alla vita da marinaio, da essere primo del suo corso, e uscire come sottotenente, con il massimo dei voti. Non ebbe neppure il tempo di tornare a casa, che scoppiò la guerra. Fu imbarcato a, La Spezia, come secondo sul sommergibile Stromboli. Un discreto bussare alla porta annunciò il cuoco, che gli offrì un caffè bollente. Sorseggiando quell’intruglio, che del caffè aveva solo il colore, si rituffò nei suoi pensieri. Dopo tre missioni, erano stati gravemente danneggiati da un attacco aereo con bombe di profondità e lui dovette sostituire il comandante gravemente ferito, nella rischiosa navigazione per rientrare nel porto di Taranto, dove fu sbarcato, e poco dopo, passato di grado, gli fu assegnato il comando del Corsaro, uno dei pochi sommergibili in grado di compiere campagne di guerra oceaniche. Erano tre anni che giocava con la morte in quella crudele guerra sottomarina, dove dei 117 sommergibili della Regia Marina Italiana, ne rimanevano in servizio meno della metà. Il filo dei suoi pensieri fu interrotto dall’ossessivo suono della sirena, che annunciava “posto di combattimento” che lo fece letteralmente schizzare dall’amaca, e precipitare sul ponte di comando. L’addetto al sonar, aveva avvertito il rumore di parecchie eliche in avvicinamento. Il capitano non perse tempo, e cominciò a impartire ordini con fredda efficienza e lucidità. “Immersione rapida, livella quota periscopio, macchine avanti adagio”. Il gigantesco squalo d’acciaio sembrò esitare un momento, quasi gli dispiacesse di lasciare la superficie agitata dell’oceano, poi, però, lentamente la prora cominciò a inabissarsi, e in pochissimo tempo il mare tornò apparentemente deserto. La propulsione elettrica faceva avanzare il sommergibile lentamente, ma in perfetto silenzio, il comandate vide al periscopio un lungo convoglio che si avvicinava, rapidamente ne calcolò la rotta, quindi dopo aver chiuso il periscopio disse, “giù il periscopio, timoniere vai per tre, quattro, zero, macchine avanti un terzo, timoni a scendere fino a trenta metri, chiudere paratie stagne, squadre di emergenza pronte, prepararsi al posto di combattimento” In perfetto silenzio ogni membro dell’equipaggio, anche se con il cuore pieno d’angoscia, eseguiva i suoi compiti con lucida efficienza. “ Camera siluri, rapporto!” Disse il giovane capitano, dopo pochi secondi la gracchiante voce dell’interfono rispose “siluri 3,4,5,6, di prora, pronti, 8,9, di poppa, pronti” “sala macchine pronta al comando” disse il Direttore di macchina. “Silenziare tutto, macchine avanti piano, timoniere portati a quota periscopio” Ordinò il capitano. Ormai veterano di quegli attacchi, Arrighi sapeva bene che doveva aspettarsi una furiosa reazione dei caccia di scorta dopo il primo siluro, perciò il suo primo pensiero, era quello di cercare di evitare alla sua nave, e ai suoi uomini, danni irreversibili. “Fuori il periscopio, macchine ferme, livellati a tredici metri”, disse al secondo. Il convoglio americano, era composto di tre petroliere, due trasporti truppe, e un cargo armato, il tutto scortato da due cacciatorpediniere, attaccarlo non sarebbe stato semplice. Arrighi sapendo di essere a corto di siluri, pensò di usarli contro i caccia di scorta, colpendo per primo quello in fondo alla fila, per poi cercare di rifugiarsi dalla pioggia di bombe sotto a una delle petroliere. Quindi, si piazzò a due miglia da dove il convoglio sarebbe passato, si fermò completamente, e aspettò la preda. Poco alla volta, all’interno dello scafo del sommergibile, si cominciò a udire il ritmico pulsare dei motori delle navi in avvicinamento, quando il sonarista gli comunicò la distanza dell’ultimo natante, fece uscire il periscopio, e dopo avere inquadrato nel reticolo la sagoma del cacciatorpediniere disse, ” camera lancio di prora al mio ordine … Fuori tre …. Fuori quattro, cronometrista venti secondi, macchine avanti tutta, timone rotta tre, tre, zero, scendi a trenta metri”. Spinti da motori ad aria compressa, due lucenti delfini d’acciaio, guizzarono velocissimi dai tubi di prora, lasciandosi dietro una gorgogliante scia bianca, che la più totale oscurità nascondeva. Dopo poco una terribile esplosione fece vibrare lo scafo, mentre il secondo siluro non colpì il bersaglio, o come spesso accadeva, la spoletta aveva fatto cilecca. La sagoma scura del sommergibile scivolò alla massima velocità consentita dalla propulsione elettrica fin sotto lo scafo di una petroliera, adattando la propria velocità alla sua. Il caccia superstite intanto era tornato indietro e aveva iniziato il micidiale lancio di bombe di profondità. Non sospettando che il nemico fosse più vicino di quanto credesse. Le esplosioni anche se distanti, scuotevano lo scafo del sommergibile come un fuscello, e ogni tanto qualche piccola perdita di acqua, olio, o vapore, si verificava nelle tubature, sottoposte a sollecitazioni terribili. Presto però, il lancio di bombe cessò, perché il caccia doveva dare soccorso all’equipaggio del cacciatorpediniere che stava affondando. Era quello il momento che il comandante italiano aspettava. Dopo essersi girato di centottanta gradi, lanciò gli ultimi due siluri di poppa, verso la più vicina delle tre petroliere. Colpita, questa prese subito fuoco, illuminando la gelida notte, come una tragica torcia, che a tratti piccole esplosioni alimentavano ulteriormente. Silenziosamente lo scafo italiano s’inabissò fino a cento metri, allontanandosi a tutta forza, nella direzione opposta. La mattina dopo, ormai in vista delle coste francesi, il Corsaro, che era in emersione per ricaricare le batterie, fu attaccato da due idrovolanti antisom, con bombe di superficie, e di profondità. Nonostante la furiosa risposta del Corsaro con il fuoco delle mitragliere, lo scafo, e il sistema propulsivo subirono seri danni, ma fu comunque in grado di immergersi. Arrivò in porto a bassa velocità, e dopo una prolungata immersione, con la maggior parte dell’equipaggio intossicato dal Cloruro di Metile, uscito dal circuito dell’aria danneggiato. Il tenente di vascello Francesco Arrighi, restò stoicamente sul ponte di comando, respirando la sostanza letale, per portare la nave in porto. Ci riuscì, ma a Bordeaux sbarcò solo il suo cadavere, e siccome la storia la scrivono i vincitori, il suo atto eroico rimase sconosciuto.
 
Mario Volpi
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