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Pieve di Sorano

Ai nostri confini
La Pieve
Il sito di Soranum.
Si ritiene che questo luogo “Suranum” fosse già conosciuto in epoca preistorica e che fosse il maggior centro di raduno dell’alta Val di Magra. Questa ipotesi trova conferma con il ritrovamento di alcune tombe luguri rinvenute nel sito di Castelvecchio e di alcune statue stele rinvenute sotto il pavimento della pieve. Quale significato si celi dietro queste rappresentazioni umane in pietra arenaria è ancora oggi un mistero.  Forse segnavano i confini e itinerari d’acqua e di terra ed erano allo stesso tempo il simbolo degli abitanti del luogo, oppure segnali tombali, oppure ancora simularci di dei o eroi guerrieri.
Questi monumenti in pietra di tipo antropomorfo, rappresentano donne e uomini ben stilizzati e sono suddivisi in tre gruppi:
A e B appartengono all’età del rame ( metà IV – fine III millennio a.C )
 
  • Tipo A: è estremamente stilizzato . La testa, incorporata nel tronco , ha il volto ad “ U”, del corpo sono raffigurati la linea clavicolare e le braccia. Un pugnale a lama triangolare e manico a pomo distingue quelle maschili da quelle femminili, connotate da seni rappresentati da due dischetti.
  • Tipo B : è meno schematico. La testa, arcuata, ha il collo. In quelle maschili al pugnale si associa spesso un’ascia, quelle femminili hanno seni più veristici e ornamenti ( collane o goliere )
  • Tipo C : più realistico, è concepito a tutto tondo. Più statue maschili hanno caratteri anatomici ben differenziati, elementi  di vestiario, armi, ( spade, asce, giavellotti, elmi, scudi ) e iscrizioni di nomi individuali in caratteri etruschi. Associate alla piena età del ferro ( fine VII –VI secolo a.C )
Nella Lunigiana sono state recuperate ben 82 di queste statue stele, solo nell’area di Sorano ne sono state ritrovate sette. Ecco perché si ritiene che il sito di Suranum fosse un luogo di culto già in epoca precristiana.
Il guerriero di Sorano
Si distingue dalle altre statue stele rinvenute nello stesso sito per la circostanza che essa è stata rilavorata nell’età del ferro, e trasformata nell’immagine di un guerriero munito delle sue armi e designato ad una iscrizione onomastica oggi quasi scomparsa.
La Pieve  romanica di Santo Stefano di Sorano si trova nella piana di Filattiera, lungo l’antico percorso della via Francigena. Fu edificata probabilmente sulle rovine di un edificio di culto pagano preesistente, come dimostra il ritrovamento di statue stele al di sotto e all’interno dell’edificio. Non si hanno fonti certe sulla data dell’edificazione, la prima citazione risale ad una bolla Pontificia di Eugenio III del 1148. La Pieve fu per secoli un centro religioso molto potente. La sua importanza era legata alla posizione strategica: qui convergevano infatti le principali strade di comunicazione che connettevano attraverso i valichi dell’Appennino la Val di Magra con la valle del Po. Nel tempo, l’insalubrità del fiume Magra e la scarsa sicurezza dovuta alla posizione nel fondovalle portarono all’abbandono del luogo in favore dell’attuale borgo di Filattiera, lasciando isolata e provocandone il lento declino, fino al completo abbandono nel XVIII secolo. La pieve conserva l’impianto del XII secolo, a tre navate e con un imponente sistema di tre absidi realizzate con ciottoli di arenaria non sbozzati. La forma della torre campanaria fa supporre che inizialmente il suo scopo fosse più difensivo che religioso.  All’interno sono conservate due statue stele originali qui rinvenute. Nella parte alta della navata centrale si trova murata una figura esostorica, mentre nella facciata si trovano delle faccine.
Filattiera
Sorano sulla via consolare Parma-Lucam sorse una fattoria-locanda che funzionò per circa tre secoli fino alle prime incursioni barbariche. In epoca altomedievale la Lunigiana fu al centro delle lotte fra longobardi  e bizantini e l’area di Filattiera, alla confluenza del sistema viario tra la Pianura Padana e la costa tirrenica, divenne punto strategico del sistema difensivo. Era in questa area il comando militare bizantino attestato dal 590, identificabile con il Kastron Sorenon. Lo stesso toponimo Filattiera deriverebbe dal termine greco imperiale Fulacterion, ovvero luogo fortificato. Nel 1029 Filattiera risulta di possesso di Ugo d’Este, definitivamente ceduta nel 1202 a Opizino Malaspina divenendo capitale del predio feudale dello Spino Fiorito dopo la divisione dinastica dei Malaspina nel 1221. In questo periodo sorse sulla collina di San Giorgio, a controllare la via Francigena, un castello protetto da mura e con una torre centrale, a fianco della quale fu edificata la chiesa dedicata al santo omonimo. Nella seconda metà del XIV secolo i Malaspina promossero la costruzione di un altro castello e di un borgo murato a monte della collina di San Giorgio, corrispondente all’attuale centro abitato. Nello stesso secolo i Malaspina di Filattiera entrarono nell’influenza di Firenze finchè nel 1549 Manfredi III vendette il feudo a Cosimo I dei Medici.
Chiesa di San Giorgio
E’ una delle chiese più antiche della regione e forse la più antica della Val di Magra. Costruita in pietre squadrate, com’erano le prime chiese cristiane, ha vicino la poderosa torre quadrata a carattere difensivo posta a controllo della via Francigena. . Al suo interno murata nella parte si trova la pietra tombale di Leodegar a testimonianza della difficile cristianizzazione nella valle del Magra. L’epigrafe secondo Ubaldo Mazzini andrà interpretata così : “ non curate del pericolo di vita a cui si esponeva, aveva spezzato idoli pagani convertendo a Cristo i peccatori”.
Chi fosse Leodegar diventa difficile sapere, su di lui furono fatte molte supposizioni senza risolvere l’interrogativo su quali funzioni svolgeva  e su cosa lo avesse spinto a Filattiera. Alcuni sostengono che fosse un vescovo di Luni, secondo altri invece era un ufficiale della circoscrizione amministrativa della corte regia, altri ancora invece sostengono che fosse un missionario inviato dal papa. Come da sua volontà fu sepolto nella cripta interna nella Pieve di Sorano.
Chissà se questi idoli sono da identificarsi con le statue stele?
Perché queste figure antropomorfe che prima erano state venerate e innalzate poi sono state sepolte e in parte distrutte?
Qual è la statua mancante?
E se Leodegar l’avesse distrutta o nascosta?
Ospitale di San Giacomo di Altopascio
Risalente al XI – XII secolo è situato all’interno del paese, la sua funzione era quella di ricovero e ristoro per i pellegrini, in particolare per quelli che si recavano a Santiago di Compostella. L’ospitale è riconoscibile da una croce templare e da una maestà posta sopra il portale, che mostra San Jacopo Maggiore in veste di pellegrino. L’esistenza di questo ospitale mentre ricorda l’azione espansiva dei cavalieri di Tau conferma il passaggio in questo luogo dell’itinerario italiano per Santiago de Compostela.
Cavalieri del Tau sono probabilmente il più antico ordine religioso cavalleresco d’Europa. Oltre all’assistenza dei pellegrini, i frati si occupavano anche della manutenzione delle strade e dei navigli da trasporto; inoltre curavano anche la costruzione e la manutenzione di ponti, cosa che attesta l’alto livello tecnico ed organizzativo raggiunto. La loro abilità è documentata dalla costruzione di ponti per l’attraversamento di diversi fiumi lungo la via Francigena, come l’Arno, l’Elsa, l’Usciana, il Taro e l’Arda.
Fonte http://www.compagniacavalierideltau.it/cavalieri-del-tau-2/storia/
Il Segreto di Leodergar
Ci son storie che vanno raccontate e questa è una di quelle, per giunta una Storia di Casa Nostra.
Il Segreto di Loadegar è un racconto frutto della mia fantasia e della realtà, l' ho ambientato nel 1350 in Lunigana. Un “racconto” diviso in 12 capitoli. Per dare veridicità e giusta ambientazione alla storia mi sono recato sul posto.
Prologo
Al Cavaliere Templare Pietro Cattani viene affidata una missione delicata e rischiosa da parte del Papa in carica, Bonifaccio VIII . Lui avrà l’arduo compito di scoprire quale segreto si portò nel sepolcro di Suranum Loadegar. Dal Kastron di Filattiera arrivarono a Roma voci molto inquietanti. Si vociferava che nella pieve si erano compiuti riti pagani venerando una particolare statua stela in arenaria. Loadegar pagò con la propria vita per aver spezzato questi riti, convertendo i peccatori al cristianesimo.
Ma chi era Loadegar?
E cosa rappresentava quella statua?
I riti ebbero veramente luogo o erano solo maldicenze popolari?
Tutti questi interrogativi toccherà scoprirli al Cavaliere di Cristo, se ci riuscirà naturalmente.
Di PierBin & MascalzonApuna
NOTE e APPROFONDIMENTI
Tutti i personaggi sono frutto della mia fantasia, tranne ovviamente il papa  Bonifacio VIII  e Leodergar. Di quest’ultimo sappiamo ben poco.  Sappiamo che era nato nel 684 ma non la città natale, ed è morto a Filattiera nel 752 a 68 anni dov’è seppellito come da sua volontà nella Pieve di Sorano. Sulla sua identità furo fatte molte supposizioni senza risolvere l’interrogativo su questo strano personaggio e sulle sue funzioni, e su cosa lo avesse spinto a Filattiera. Alcuni sostengono che fosse un Vescovo di Luni, altri invece che fosse un alto ufficiale della gastaldia (nell'ordinamento medievale, il gastaldato o gastaldìa era una circoscrizione amministrativa governata da un funzionario della corte regia ) di Suranum, oppure addirittura  che fosse un missionario inviato dal papa.
 
  • È vera la scritta in latino sull’epitaffio ritenuto il più antico reperto cristiano noto della Lunigiana che si trova nella chiesa di San Giorgio. La frase tradotta riporta: a quell’ignoto, che pagò con la morte per aver spezzato idoli pagani convertendo i peccatori al cristianesimo. Quali riti furono commessi all’interno del luogo sacro non si saprà mai, e da li è nato questo mio racconto.
  • E’ vero anche il fenomeno naturale che si verifica una volta all'anno da tempo immemorabile: la migrazione sulla vetta del monte delle Formiche di una varietà di formiche alate che nel mese di settembre giungono a sciami dal centro dell'Europa per compiere il loro volo nuziale per poi morire sotto l’altare della vergine dell’omonimo Santuario.
  • E’ vero il colle di Castelvecchio a  Quartareccia dove furono ritrovate sepolture Liguri- Apuane.
   
Il segreto di Leodergar

CAPITOLO I .Roma MCCXCVII nell’anno del Signore
Bonifacio VIII era seduto alla scrivania del suo studio, si reggeva il capo con le mani, era molto preoccupato. Aveva mandato a chiamare il cardinale Giacomo De Luca per affidargli un incarico della massima riservatezza, poneva in lui una grande fiducia. I due si conoscevano dai tempi in cui erano entrambi semplici sacerdoti e nutrivano l'uno per l'altro un profondo senso di amicizia e di rispetto. Ora il papa aveva assoluta necessità di convocare presso di sè il templare Pietro Cattani ma questi si trovava in quel di Bologna ed usare i canali ufficiali significava sollevare la curiosità di tutta la Santa Sede, De Luca era la giusta soluzione, lo avrebbe, con qualche scusa, inviato dal Vescovo di Bologna e lì avrebbe contattato il templare, ma era necessario agire con prudenza, erano tempi difficili. Il cavaliere prestava servizio presso la chiesa di Santa Maria del Tempio che si trovava appena fuori le mura della città di Bologna lungo la via Emilia, il suo compito era quello di sorvegliare e proteggere le importanti sepolture che si trovavano all'interno della cappella gentilizia. Nell'ambiente ecclesiastico era molto conosciuto e stimato  per le sue doti di  combattente giusto e leale che aveva messo più volte a rischio la sua stessa vita per proteggere da malintenzionati gli appartenenti alle alte cariche della chiesa che avevano soggiornato nella zona.
 
Roma XVII Maggio
All'alba il cardinale era già in viaggio, nella sua carrozza, alla volta di Bologna, aveva con sé in una borsa i preziosi documenti affidatogli dal Santo Padre e ben impressi nella memoria aveva un nome e un luogo. L'incarico affidatogli non era dei più facili. Si apprestava a compiere un viaggio lungo e stancante ma era contento di poter fare un favore a quello che ora era Sua Santità ma che per lui rimaneva un vecchio amico. Come scorta aveva solo quattro bravi soldati a cavallo e un cocchiere; il prelato era un uomo erudito, alto ed eretto portava con eleganza la veste ecclesiastica color porpora che lasciava intuire, nonostante avesse ormai sessantacinque anni, spalle larghe e possenti in un fisico prestante e asciutto. La mitra di seta bianca damascata che indossava durante le funzioni religiose copriva  una calvizie nella zona lucente del cranio ma lasciava fuoriuscire pochi capelli grigi che denunciavano la sua non più giovane età . Aveva occhi azzurri e sguardo freddo come l‘acciaio.
Il segreto di Leodergar

CAPITOLO II. Terzo giorno di viaggio XX Maggio. Un monastero alle porte di Firenze.
La carrozza scortata dai cavalieri percorse tutta la carrareccia  che divideva in due la collina. Le ruote e gli zoccoli dei cavalli alzavano una densa nuvola di polvere. Il piccolo convoglio aggirò le mura perimetrali ed arrivò all’ingresso del monastero a tarda sera, dopo una lunga ed estenuante tappa. I raggi del sole a quell’ora battevano contro le mura della fortificazione come fossero lance infuocate mentre le cime più alte degli alberi sembravano pennacchi rosso sangue, nel frattempo la polvere che filtrava tra i dritti e fitti  tronchi dei cipressi formava lame verticali di luce infuocata. Attesero qualche minuto dopo essersi annunciati poi la grande porta in legno dalle  borchie romboidali in ferro si aprì ed entrarono. Lo stalliere si prese cura dei cavalli e della carrozza, mentre il cardinale e i soldati furono accolti dall’abate che fece gli onori di casa ed ordinò al monaco guardiano di turno di far preparare la camera migliore per il cardinale e due camerette per i soldati. Mentre attendevano  che fosse pronta la cena  Monsignor De Luca fu fatto accomodare nell' ufficio dell'abate, questo era un locale ampio, arredato in modo austero, semplice e pratico. Al cardinale stanco del viaggio parve un'oasi di pace. L’abate era un uomo  basso e robusto sulla sessantina, con un viso rotondo e arrossato, i capelli grigi tagliati molto corti. Aveva un tic nervoso che mal si associava al suo fare pacato. soleva picchiettare ripetutamente le dita della mano sinistra sul tavolo della scrivania con un movimento meccanico. Dopo all’incirca tre quarti d’ora il monaco commensale li raggiunse invitandoli a prendere posto a tavola, la cena era pronta. Consumarono carne di pollo e di maiale cotte alla brace con contorno di verdure fresche e legumi di stagione, il tutto accompagnato con vino rosso locale. Finito la cena, il cardinale chiese di essere svegliato la mattina seguente, assieme ai soldati, alle prime luci dell'alba. Poi assalito dalla stanchezza si congedò per coricarsi. Attraversò un passaggio fiocamente illuminato dal lume a olio che il monaco teneva in mano, poi una specie di vestibolo e infine proseguirono ancora fino alla scalinata che conduceva al primo piano dove in fondo al corridoio c’era la sua stanza.  Dopo una breve preghiera,  si lasciò cadere sul letto di paglia e in un attimo cadde in un sonno profondo. Secondo i suoi voleri fu svegliato all'ora convenuta. Scese dal letto, si recò alla finestra che si affacciava nella corte interna del monastero e vide i suoi uomini già in sella pronti per la partenza. Un tenue bagliore annunciava l’alba facendo scomparire anche le ultime restie stelle. Una breve preghiera e raggiunse l’abate che lo stava attendendo per le orazioni mattutine. Dopo una piccola colazione ripresero il viaggio verso Bologna. Il piccolo convoglio sparì dietro la prima curva lasciando dietro di sè solo una nuvola di polvere. I quattro giorni successivi del viaggio passarono senza inconvenienti.
Il segreto di Leodergar

. XXIV maggio settimo giorno di viaggio. Località sconosciuta tra il Pianoro e Rastignano
 
Era una primavera afosa  per essere maggio inoltrato. Lungo la via che attraversa le colline toscane il caldo era asfissiante, nugoli di mosche cavalline e tafani davano il tormento ai cavalli che continuamente  agitavano la coda nel vano tentativo di scacciarle. Rondini e  rondoni s'inseguivano garrendo in un cielo che dopo tanti giorni di sole si stava rannuvolando. Due corvi neri, quasi fossero un presagio, gracchiando, giocavano nel vento, disegnando invisibili arabeschi tra la pioggerellina leggera. Di lì a poco si alzò una debole ma maligna brezza gelata che penetrava nelle ossa. Il tempo stava cambiando velocemente. Anche il santuario di Santa Maria di Zena sul colle in lontananza,  che il cardinale aveva riconosciuto e segnalato agli altri, sparì tra i nuvoloni neri che si rincorrevano, aggrovigliandosi e sfilacciandosi nel cielo, spinti da un incalzante  vento che ululava sinistramente tra gli alberi  a lato della via. Il cardinale chiamando a sè il capo della scorta ordinò di raggiungere il santuario detto delle formiche per trovare riparo. "Delle formiche" esclamò il soldato quasi basito. "Si! Delle formiche, andiamo, non c'è tempo da perdere" rispose il religioso. Ma Santità…..il soldato non fece in tempo a finire la frase che il cardinale ritirò la testa dentro la carrozza. Il cielo si oscurò, come se fosse notte, le nuvole alte, nere e minacciose si abbassarono e si scagliarono contro di loro con inaudita violenza. Tra le nuvole nere dilaniate dal vento i lampi sembravano ferite di luce, i fulmini disegnavano nel cielo nero ghirigori di fuoco, seguiti da tuoni assordanti che facevano vibrare la terra come se si dovesse spaccare da un momento all'altro. Un tuono poderoso li fece sobbalzare, le cateratte celesti si aprirono e la pioggia cominciò a scendere torrenziale creando una fanghiglia scivolosa e rendendo impossibile l’avanzare del convoglio che lottava con tutte le forze per mantenere la via. Poi il boato tremendo di un fulmine caduto a pochi passi fece imbizzarrire i cavalli che spaventati si impennarono nitrendo verso il cielo la loro paura. Fu un attimo, la carrozza si capovolse  e il cardinale si ritrovò a rotolare nel fango, mentre  i soldati furono scaraventati a terra. Monsignor De Luca scivolò lungo e steso in una pozzanghera, per l'imbarazzo si divincolava come un anguilla nel tentativo di rialzarsi velocemente. Poi ripresa la posizione eretta, scuro  in viso scosse il capo un paio di volte, rivolse lo sguardo alle nuvole grigie e gonfie di pioggia  e sconsolato si trattenne dall'imprecare. La mantella fradicia ora aveva assunto tonalità marroni e nell'impatto si era strappata sotto i gomiti, mentre il rosso porpora della veste ecclesiastica era un lontano ricordo, dai sandali fuoriusciva dell’acqua. Per fortuna i cavalli dopo una breve ma intensa corsa indemoniata si arrestarono e furono facilmente recuperati. Nel ribaltamento il mozzo di ina delle ruote posteriori della carrozza si era spezzato facendola uscire dall'asse. Recuperata la borsa in pelle contenente i documenti non restava altro che salire in sella ad ino dei cavalli e cercare un riparo e qualcuno che fosse in grado di riparare la ruota. Il cardinale montò dietro il capo dei soldati  e dopo circa tre quarti d’ora sotto la pioggia battente arrivarono ad una piccola fattoria abitata da una coppia di coniugi di mezza età senza figli: Alcide e Matilde, che si guadagnavano da vivere coltivando un piccolo appezzamento di terra e allevando bestiame. Zuppi fradici scesero da cavallo, si precipitarono alla porta, bussarono insistentemente finché l'uscio non si aprì. I due contadini  trovandosi davanti quello sparuto gruppo di uomini inzuppati fino al midollo non esitarono un istante a farli entrare e ad offrire loro ospitalità. Quando con molto stupore si accorsero che uno dei loro ospiti era in realtà un cardinale si genuflessero e gli baciarono l'anello, intimiditi si misero a sua completa  disposizione. La loro abitazione era molto umile: solo due stanze, al piano terra una grossa stanza con il camino fungeva da  cucina e tutto il piano di sopra era la camera da letto. I soldati misero i vestiti ad asciugare davanti al fuoco mentre al religioso furono dati abiti asciutti e puliti. Delle braghe panna, una camicia abbondante, un paio di calzoni lunghi fin sotto le ginocchia e una tunica color marrone erano il suo nuovo abbigliamento. La donna riscaldò una zuppa di verdura e mise a cuocere della polenta. Poi si misero a tavola, davanti ad un piatto caldo e al tepore del camino al capo del soldati ritornò in mente il nome curioso di quel santuario. E rivolgendosi al cardinale chiese: "Eminenza, oggi quando eravamo sotto il temporale mi parlaste del santuario delle formiche, ricordate!?"  Ci fu una breve pausa, dopodichè monsignor Del Luca con tono flemmatico della voce iniziò a raccontare: "Ebbene, devo dire si tratta di una cosa assai curiosa ma sicuramente rivelatrice di quanto anche la natura voglia rendere palese il suo tributo d'amore verso  la Nostra Madre Celeste. Orbene in questo luogo che vi ho indicato sorge il Santuario e ogni anno il giorno della festa della Madonna, l'8 settembre,  sciami di formiche alate raggiungono la vetta e lì muoiono.
 
"centatim volitant formicae ad Virginis aram quo que illam voliant vistmae tatque cadunt"
 
ansiose volano le formiche all'altare della Vergine, pur sapendo che ai suoi piedi moriranno.”
 
Basiti e con gli occhi sgranati i commensali ascoltavano in silenzio le parole del cardinale. Finita la spiegazione il contadino si offrì  di andare l' indomani mattina con un paio di soldati a riparare la carrozza, mentre la moglie organizzò i posti letto per la notte. Il cardinale avrebbe dormito nella loro camera, loro si sarebbero arrangiati in cucina, mentre i soldati avrebbero dormito nella stalla. Alle prime luci dell’alba Alcide assieme a due soldati si recò sul posto dell’incidente, con chiodi, raspa e martello nel giro di qualche ora riparò il mozzo e portò la carrozza alla fattoria, il cardinale li attendeva impaziente e  dopo aver impartito la benedizioni ai coniugi lui e i suoi uomini poterono finalmente continuare i loro viaggio. I tre giorni successivi di viaggio trascorsero senza intoppi e finalmente davanti al piccolo convoglio apparve la chiesa.
Il segreto di Leodergar

CAPITOLO IV. Bologna. XXVII maggio cattedrale dei Santi Nabore e Felice
 
Dopo essersi annunciato e fatto riconoscere con non poche difficoltà il cardinale “contadino“ fu accompagnato nello studio del vescovo che quando lo vide così vestito con tono scherzoso commentò:"Caro De Luca, non c’è detto più indicato per questo momento. Eh si! Proprio vero che l’abito non fa il monaco".  I due scoppiarono a ridere contemporaneamente  poi dopo un fraterno  abbraccio  il cardinale raccontò dell'incidente e del suo nuovo abbigliamento. Il vescovo gli offrì l'uso dei suoi appartamenti per indossare abiti più consoni al suo rango e per rinfrescarsi ma il cardinale espresse il desiderio di fare prima una passeggiata per la città quindi si accordarono per ritrovarsi dopo qualche ora nell' ufficio vescovile per la consegna dei documenti. Incamminatosi lungo la via principale ripassava le istruzioni ricevute: la persona che doveva trovare era Pietro Cattani, il templare, un giovane sulla trentina di carnagione scura, alto e robusto, dai  lineamenti forti e virili,  occhi grandi e profondi come quelli di un' aquila, capelli neri come la pece,  lunghi e lisci fin sulle spalle. Prestava servizio nella chiesa di Santa Maria del Tempio. Sarebbe stato facile identificarlo, il Santo Padre aveva raccomandato di osservare attentamente la sua camminata, l'uomo era leggermente zoppo. I vestiti dimessi permettevano al cardinale di non dare nell'occhio e quando arrivò nei pressi della chiesa e domandò dell' uomo i passanti non ebbero perplessità né esitazioni e gli indicarono le scuderie. Cattani stava strigliando il suo cavallo e l’entrata del finto contadino non lo distrasse neanche per un attimo ma poi quando questi gli rivolse la parola facendogli i complimenti per il bellissimo purosangue qualcosa nell'accento del forestiero attirò la sua attenzione e a bruciapelo gli chiese: "Chi siete"?  "Sono il cardinale Gualtiero De Luca,  vengo da Roma da parte del Santo Padre, voi siete  Pietro Cattani?  “Siete convocato dal Papa. Sua Santità necessita della  vostra presenza a Roma".  "Un inviato del Papa... non ne avete certo l'aspetto anche se qualcosa in voi mi diceva che non siete quello che apparite, ma un cardinale...e il Papa mi manda a chiamare.. Ma che strana cosa è questa, suvvia. E voi volete che io ci creda". A quel punto i cardinale gli porse una pergamena con il sigillo papale e gli tese la mano sinistra, il templare alla vista dell'anello cedette, si genuflesse e  baciò quel simbolo di potere e di fede.  "Domattina di  buon ora partirò con la mia scorta  per Roma, gradirei trovarvi pronto lungo la via poco fuori della città. Dovremo essere circospetti, Il Santo padre raccomanda la riservatezza". Nel locale ristagnava un’aria acida e densa, faceva un gran caldo, il religioso si asciugò la fronte con un fazzoletto bianco a righe rosse e fu con gran sollievo che si diresse a passo deciso verso l'uscita della stalla ma ad un tratto si ricordò che non aveva controllato una cosa e con noncuranza lasciò cadere a terra un piccolo rosario. "Eminenza, eminenza, un attimo" esclamò correndogli dietro il templare. "Vi è caduto qualcosa". Il religioso si fermò, si voltò e mentre il templare avanzava verso di lui ebbe la  conferma che cercava". Soddisfatto il cardinale si apprestò a tornare alla sede vescovile per tornare letteralmente nei suoi panni, oramai quegli abiti da contadino non gli servivano più e anzi dopo la permanenza nella stalla ora erano addirittura maleodoranti e poi doveva  portare a termine l'altra parte della sua missione: consegnare i documenti al vescovo. Nei lussuosi alloggi di quest'ultimo il cardinale si rifocillò e trascorse la notte tra candide lenzuola di lino, vinto dalla stanchezza si addormentò subito e l'alba arrivò in un battibaleno.
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CAPITOLO V. XXVIII maggio  partenza da Bologna per Roma
 
Dietro la sella della montagna apparivano già le prime tinte dell’alba, tuttavia l’oscurità era ancora profonda. Fuori dalle mura del convento a cavallo di uno stallone nero come la pece il cavaliere avvolto nel suo mantello bianco stava attendendo il cardinale. Dopo poco la pesante porta si aprì, per primi uscirono i due soldati di testa, poi la carrozza e subito dietro gli altri due cavalieri. Il carro ricoperto e tappezzato di velluto bordeaux si affiancò al templare, la tendina si aprì mostrando un interno con  gigli ricamati in oro  e  la faccia di Monsignor De Luca che con un segno della croce diede ordine di partire per Roma. Il viaggio di ritorno si rivelò più breve del previsto, il tempo si mantenne bello e non vi furono intoppi di sorta.
 
V aprile Roma
 
Il cardinale accompagnò il templare dal Santo Padre. L'anticamera fu un po' lunga,  c’era molto fermento in quei giorni a Roma, molte erano le incombenze a cui si doveva fare fronte, molti i problemi da risolvere: ci si avvicinava alla fine del secolo e numerosi pellegrini spinti da un moto popolare spontaneo  si erano radunati a Roma e il pontefice aveva colto l'occasione per istituire l'Anno Santo: tutti i fedeli che avessero visitato le Basiliche di San Pietro e San Paolo fuori le mura avrebbero potuto ottenere l'indulgenza plenaria. Finalmente la porta si aprì e poterono entrare, il pontefice era come al solito alla sua scrivania ma appariva come invecchiato eppure erano passati solo pochi giorni dall'ultima volta che De Luca lo aveva visto, forse la sua gotta gli stava dando ancora problemi. Dopo una breve genuflessione si diressero verso di lui che aveva aperto le braccia per stringere affettuosamente a se il suo amico. Poi allungò la mano verso il templare per permettergli di baciare l'anello. "Caro Cardinale vedo che hai assolto con successo la tua missione, non avevo dubbi che ci saresti riuscito". "Santità le vostre indicazioni erano esatte e non ho avuto difficoltà alcuna, questo è Pietro Cattani di Bologna il cavaliere templare che stavamo cercando." "Siate i benvenuti entrambi, sedetevi e raccontatemi com’è andato il viaggio". Il cardinale non omise nulla neanche l'episodio della sua caduta nella pozzanghera e riuscì a suscitare così l’ilarità del Papa che scoppiò in un'allegra risata. Intanto il templare si guardava intorno cercando invano nella stanza qualcosa che potesse rivelargli il motivo della sua presenza in quel luogo. A lato della scrivania trovavano posto alcuni volumi, una lente e un tagliacarte in argento. Alla parete della stanza c'era un grande quadro ad olio che raffigurava la Natività di Gesù. Davanti al Santo Padre giaceva chiuso un libro di preghiere.  Con un colpo di tosse il Santo Padre attrasse l’attenzione del templare. "Bene figliolo, sono certo che ti starai chiedendo il perchè della tua convocazione, è giunto il momento di soddisfare la tua curiosità. Tempo fa, sfogliando il libro epistolare del mio predecessore Gregorio III ho trovato una frase che mi ha lasciato alquanto perplesso. Cosi dicendo aprì il grosso tomo che era sulla scrivania e lesse una frase: Verum est in sepulchro Leodegar (la verità è nel sepolcro di Leodergar). “È da diverso tempo che io e i miei collaboratori ti teniamo d’occhio, ci è stato segnalato il tuo coraggio, la tua lealtà nel combattere e difendere uomini importanti di chiesa che si trovavano a passare dalle tue parti. Ciò ti ha reso ai nostri occhi l'uomo adatto a questa missione". Il templare ascoltava con attenzione ma era ben lontano dal capire cosa volessero da lui.  "E’ da diverso tempo che io e i miei collaboratori ti teniamo d’occhio, ci è stato segnalato il tuo coraggio, la tua lealtà nel combattere e difendere uomini importanti di chiesa che si trovavano a passare dalle tue parti. Ciò ti ha reso ai nostri occhi l'uomo adatto a risolvere questa questione”. "Sua santità, sarò ben lieto di servirla ma non comprendo… chi era questo Leodergar e come posso esservi utile?" "Chi fosse Leodergar è difficile sapere, su di lui sono state fatte molte supposizioni senza risolvere l’interrogativo su quali funzioni svolgeva  e su cosa lo avesse spinto a Filattiera. Alcuni sostengono che fosse un vescovo di Luni, secondo altri invece era un ufficiale della circoscrizione amministrativa della corte regia, altri ancora invece sostengono che fosse un missionario. Di certo sappiamo che come da sua volontà fu sepolto nella cripta interna nella Pieve di Sorano. Si vocifera che nella pieve si venerava una statua particolare. Ma cosa raffigurasse la figura antropomorfa in pietra arenaria nessuno lo sa. Si vociferava di strani riti che avrebbero avuto luogo da quelle parti. Leodergar l’aveva scoperto ed è morto per quello? Molti sono gli interrogativi che sorgono spontanei, potremmo parlare di veri e propri misteri ed è proprio questo che mi aspetto da te: che tu sveli questi misteri. Taluni fanno pressione per la beatificazione di questo Leodergar ma non possiamo permetterci passi falsi, in un periodo cosi difficile come questo in cui il potere temporale della Chiesa è messo in discussione, Filippo il Bello re di Francia si oppone al mio potere, ed è nostro compito verificare l'opportunità di questa cosa, quindi vorrei investigare in maniera non ufficiosa tramite la tua fidata persona". A quel punto sulla faccia del Sommo Pontefice si disegnò una smorfia, la gotta gli provocava gonfiore alle articolazioni dandogli forti dolori e non potè concludere il discorso. Fu chiamato il suo medico personale e toccò al cardinale spiegare il compito che lo attendeva al templare. “Dovrai recarti a Soranum e svelare questo segreto rimasto inviolato per molti secoli. Sappiamo che è una missione pericolosa e difficile, ma Sua Santità confida in te e nelle tue doti, figliolo. Potrai trovare aiuto presso la persona di Leopoldo Carrisi, il monaco guardiano della Chiesa di San Giorgio che si trova nel borgo di Filattiera, è un uomo molto devoto e riponiamo in lui la massima fiducia. Ho già predisposto la tua partenza nel più breve tempo possibile e mi raccomando aspettiamo tue notizie ma non tramite i canali ufficiali, manderemo qualcuno”.  Nel frattempo il Papa grazie alle cure del suo medico si  era parzialmente ripreso e volle impartirgli la sua benedizione, il templare si genuflesse e baciò l'anello poi si diresse verso la porta seguito da De Luca, mentre stavano per uscire lo raggiunse un'ulteriore raccomandazione del Papa:"Stai attento figliolo, non ti fidare di nessuno e che Dio ti protegga". Il cardinale lo accompagnò alla sua stanza e durante il tragitto lo informò che la sua partenza era prevista per la mattina seguente e che nella sua camera avrebbe trovato una scarsella contenente 50 monete d'argento per il viaggio e un segno di riconoscimento da mostrare a Carrisi: un fazzoletto con ricamato lo stemma papale. Davanti alla porta della camera si congedarono, il templare baciò l'anello cardinalizio e il cardinale con voce velata disse: "Buona fortuna ragazzo, che Dio abbia cura di te e della tua anima", poi si incamminò lungo il corridoio ma a metà si voltò indietro come per un ripensamento o per un ultimo saluto ma la porta era già chiusa, quei giorni di viaggio assieme avevano lasciato un segno profondo nel freddo e distaccato cardinale.
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CAPITOLO VI. Soranum XIV Aprile
 
Il Templare salì sul suo destriero e partì. Dopo 8 giorni di viaggio faticoso giunse finalmente nella valle del Caprio lungo il passo del Cirone. Dalla sella del monte vide in lontananza la punta della torre campanaria a base quadra del Kastron di Suranum nella piana del Lunensis Ager. Alla sua sinistra la Magra scorreva liscia e placida nel suo letto, il cavaliere studiò per qualche minuto il terreno  e  decise di percorrere l'ultimo tratto  al galoppo, giunto nei pressi della sua destinazione di colpo tirò le briglie e il cavallo si fermò. Una piccola nuvola di polvere salì dagli zoccoli dell’animale e si materializzò davanti alla flebile luce delle due lanterne a olio poste sopra i pilastri d’ingresso del camposanto. Scese e legò il quadrupede a uno dei cipressi, con la mano  spinse il cancello che con un cigolio si aprì. La pieve si trovava racchiusa tra mura di cinta oltre il cimitero. L’espressione del Templare non tradiva alcuna emozione, con gli occhi fissi, sotto la luna piena che sorgeva lenta dalle Apuane,  avanzava come un fantasma tra le tombe bianche  in marmo di Luni. Percorse a passi lenti e rispettosi il  lastricato e alla fine del muro della pieve girò a sinistra, dopo alcuni passi si trovò davanti alla porta d’ingresso che era chiusa. Nel frattempo nuvole minacciose avevano oscurato la luna e la possente torre a base quadrata che incombeva terrificante su di lui scomparve in quella notte  buia. Picchiò ripetutamente  alla porta ma non ottenne  risposta. Ripercorse il ciottolato fino al cavallo, rimontò in sella e salì per la mulattiera che conduceva al paese di Filattiera. Un centro religioso molto importante per la sua ubicazione strategica lungo la via Francigena che metteva in comunicazione attraverso l'Appennino la valle del Magra con la valle de Po. Lì avrebbe dovuto trovare Carrisi, il monaco di fiducia che era addetto alla  chiesa di San Giorgio, ma ora aveva bisogno, soprattutto, di riposo e quindi lo avrebbe cercato l'indomani mattina. Giunto al paese lasciò il cavallo alla stalla e come gli era stato ordinato a Roma si incamminò per i vicoli del borgo fino a raggiungere l'ospitale di San Giacomo. La stella templare incisa sul portale di arenaria confermava che si trattava di un posto sicuro e fidato. Il locale era ad est  del paese, leggermente interrato, aveva muri in pietra e  soffitti bassi ed era illuminato da candele di sego. Entrò ed avanzando  sotto la flebile luce delle candele raggiunse l'oste al bancone di legno di noce. Dietro, di lato all'uomo, si trovava un armadio in acero con le ante chiuse da tela e rete metallica dove erano conservati il formaggio e la carne secca e salata. L'oste con fare investigativo gli fece alcune domande, ma come imponeva la Regola, il templare fu di poche parole. Poi dalla scarsella di cuoio tirò fuori una moneta d'argento per avere una camera tutta per sè e un tavolo riservato per un pasto caldo. Alla visione di tanto bene il locandiere si mise a  sua completa disposizione e soddisfò le sue richieste. Nell'attesa che la cena a base di cacciagione fosse pronta bevette una coppa di vino rosso sotto gli occhi degli altri avventori del locale che lo osservavano sospettosi. Dopo aver cenato sfinito dal viaggio raggiunse la camera, recitò la preghiera del ringraziamento e poi si lasciò andare sopra il letto di paglia piombando in un sonno profondo. Nel bel mezzo della notte fu svegliato di soprassalto da un violento temporale che lo tenne sveglio per un po'. La mattina seguente arrivò e malgrado il cielo grigio e una leggera pioggerellina, la luce dell'alba che filtrava attraverso la sottile stoffa di lino a protezione della piccola finestra lo trovò sveglio.
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CAPITOLO VII . Chiesa di San Giorgio
 
Dopo la preghiera mattutina scese per una parca colazione e successivamente raggiunse dall’altro lato del paese la chiesa di San Giorgio alla ricerca del monaco. Spinse la porta socchiusa dalla quale usciva una lama di luce e avanzò nella piccola chiesa. Sul pavimento sporco di sangue  giaceva supino un uomo con un pugnale conficcato nella schiena. Pietro si piegò premuroso sul corpo dell'uomo e dopo aver constatato che era morto tracciò una croce sulla fronte e poi gli chiuse le palpebre. Il morto era un vecchio sulla settantina, asciutto e dalla barba bianca. La debole luce che ardeva nella piccola chiesa conferiva alla sua faccia un’espressione lugubre. Dalla descrizione doveva essere Carrisi l'uomo di fiducia  del quale il pontefice gli aveva parlato. La conferma non si fece attendere, nella tasca della veste talare del religioso trovò un fazzoletto uguale al suo. Da com'era freddo intuì che fosse morto già da diverse ore, ora le sue labbra chiuse non avrebbero più potuto aiutarlo e forse serravano per sempre un segreto terribile. Il Templare si alzò e si guardò intorno cercando la ragione di quella morte in quell'ambiente spoglio. Poi all'improvviso passi furtivi ruppero il silenzio e la porta sbatté. Quando lui era entrato, qualcuno si era nascosto dietro l'anta della porta ed ora stava fuggendo. Pietro si lanciò all'inseguimento ma fece appena in tempo a vedere l'ombra di un profilo femminile che si allontanava a cavallo verso il fiume. Rientrò e prese un cero, scrutò sotto l'altare e dentro il confessionale ma non vide nulla tranne una lapide in marmo bianco murata nella parte est in pietra con incisa una frase in latino: "Quod ignotum est, quod in hoc et idolis nationum conversione peccatorum fregit animam suam in periculo esse Christum".  "Quell'ignoto che in questo luogo a rischio della propria vita spezzò idoli pagani convertendo a Cristo i peccatori". "Ecco il primo tassello" - commentò tra sè il Cavaliere. Dopo un istante lunghissimo, freddo come un aspide il Templare uscì dalla chiesa, chiuse la porta e s'incamminò sul lastricato perimetrale, sul quale un tempo sorgeva un edificio pagano. Proseguì fino alla fine delle mura di cinta e si diresse verso il  bosco. Nel terreno reso fangoso dal temporale della notte precedente erano impresse le orme degli zoccoli del cavallo in fuga verso il fiume. Ritornò indietro sotto la fitta pioggia che nella luce grigia del cielo sembrava argentea e prese il camminamento in direzione del paese. Percorse tutto il vicolo e raggiunse la stalla dove la sera prima aveva lasciato il suo cavallo. Nel breve tragitto pensò di recarsi alla Pieve di Sorano per informare il monaco dell'accaduto e poi di mettersi subito dopo sulle tracce del proprietario di quell'ombra. Lasciata una lauta mancia allo stalliere montò in sella e in pochi minuti giunse alla pieve. La porta d’ingresso era chiusa ma sotto la pressione della sua mano si aprì. L’interno era vuoto, i ciottoli di arenaria non sbozzati delle mura erano illuminati da candele e lumi a olio, il Templare fece una genuflessione e a passo deciso attraversò le tre navate fino a raggiungere l’altare. Il rumore dei  suoi passi fece uscire da una porticina laterale un monaco che gli rivolse un tacito saluto. " Padre vi devo parlare" - disse il Cavaliere. "Seguitemi" - rispose il religioso avviandosi  verso la porta dalla quale era appena uscito. Un breve corridoio li condusse alla sacrestia e il Templare raccontò al religioso del cadavere di Leopoldo Carrisi trovato riverso a terra nella chiesa di San Giorgio. "Oh! Madonna Santa" - esclamò il monaco rivolgendo lo sguardo al cielo. "com’è possibile? Chi poteva voler male a Leopoldo, era così una brava persona, sempre disponibile ad aiutare il prossimo. Non posso crederci". Il monaco ebbe un attimo di sconforto, scosse la testa e si sedette sulla sedia avvilito, la sua faccia  assunse un’espressione cupa. "Questo dovremmo scoprilo e rendergli giustizia. Affido a voi padre il suo corpo per una degna sepoltura" - concluse il Templare poi ricordandosi delle parole del Santo Padre aggiunse soltanto: "Ora devo andare". "Senz’altro mi prenderò cura della sua anima e del suo corpo" - convenne il monaco. Nell’uscire il cavaliere notò, murata nella parte alta della navata centrale, una figura esostorica, dai grandi occhi che guardavano verso un punto preciso. Lo sguardo sembrava rivolto ad una lastra nel pavimento adiacente all’altare, Un intuizione improvvisa, un dubbio assalì il cavaliere: “e se quello sguardo indicasse il  sepolcro di Leodergar?”
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CAPITOLO VIII Sulle tracce dell’assassino
 
Con quel dubbio nella mente il Templare risalì la collina in sella al suo destriero fino a raggiungere le prime impronte di colui che sospettava essere l’assassino di Leopoldo Carrisi. Guardingo procedeva sul sentiero che attraversava il bosco e scendeva verso la Magra. Nel frattempo aveva smesso di piovere e un pallido sole faceva spuntare tulipani d’acqua a lato del selciato. Come un segugio si mise a seguire le impronte sull’argine in declivio che conducevano  fin sul greto del fiume.  Era passata poco più di un’ora da quando aveva visto dileguarsi nel bosco quell’ombra.  Scese da cavallo, si chinò a terra e con occhio acuto notò che alcuni dei ciottoli bianchi che risalivano verso il pendio erano sporchi del fango lasciato dagli zoccoli di quel cavallo. Risalì in sella e proseguì lungo la sponda destra del fiume fino ad arrivare ad una gola carsica dove l’acqua scorreva impetuosa. In quel punto nessuno avrebbe potuto guadare il fiume, quindi seguendo la sua logica continuò per i sentiero che serpeggiava tra gli alberi, ora tirandosi dietro il destriero per le briglie. Il silenzio del bosco era interrotto soltanto dal sussurro del vento fra i rami. Ad un certo punto vide a terra un piccolo ramo, lo raccolse e lo annusò. Il colore verde acceso della corteccia spezzata e l’odore acerbo gli fecero costatare che qualcuno era passato da  poco e che forse quel qualcuno era un donna. Infatti appeso a quel piccolo ramo si muoveva, mosso dal vento, un lungo capello nero. Poco distante gracchiando un paio di corvi si alzarono in volo spaventati forse dalla presenza di qualcuno. Davanti a lui saliva una mulattiera. Gli zoccoli del cavallo sul sentiero avrebbero fatto rumore e quindi, per evitare di essere scoperto, legò l’animale ad un tronco e guardingo proseguì senza cavallo in quel posto solitario e vuoto come un foglio di carta bianca. Poco dopo si arrestò di colpo e si nascose dietro un grosso faggio, da quel nascondiglio intravedeva sul piccolo colle delle rovine annerite dal fumo. Impavido il cavaliere templare strisciò come una serpe sottovento fin dietro le mura che racchiudevano uno spazio semicircolare nel quale, legato a una grossa rupe, brucava il cavallo che aveva visto fuggire. E l’assassino dov’era? A quel pensiero per un attimo ebbe paura di non trovare  tutte le risposte che il Papa e il cardinale si aspettavano da lui. Dopo un lungo  silenzio, mentre stava per alzarsi da terra, sentì sulla schiena la punta di una spada.
“Girati e alzati lentamente senza mettere mano alla spada” - gli ordinò una voce melliflua, - "altrimenti questa lama ti trafiggerà da parte a parte." In quell’istante il Cavaliere  capì  che il suo sospetto era giusto, si trattava di una donna. Come ordinato si girò e lentamente si tirò su da terra. Guance che sembravano scolpite nell'avorio, un viso dai contorni armoniosi, sopracciglia nere come l’ebano e sotto le lunghe ciglia di seta nelle verdi  pupille dei suoi grandi occhi si rifletteva il cielo. La sua giovane età dava risalto alla sua prorompente bellezza, la sua vista provoca pensieri inconfessabili nella mente di qualsiasi uomo. “Sono Aine, non è come credi, chi sei e cosa vuoi da me”? Il templare decise di non  dirle tutta la verità e di mentire sulle vere ragioni della sua presenza lì, per cui le disse:. ”Sono Pietro Cattani mandato da Sua Santità il Pontefice a Pontremoli per portare alcuni documenti. Nel tragitto ho pensato fermarmi per portare un saluto al mio amico Leopoldo ed invece ho trovato il suo cadavere riverso a terra ed è lì che ti ho visto fuggire. Chi fugge ha qualcosa da nascondere o da temere se non sbaglio”. “Non è come pensi, mi ero recata a San Giorgio per la preghiera mattutina e lì ho scoperto il corpo senza vita di Padre Carrisi. Ero appena entrata, quando ho sentito dei passi sopraggiungere dall’esterno, così mi sono nascosta dietro la porta, ho temuto fosse l’assassino che ritornava indietro, forse aveva commesso un errore, non so, ho avuto paura e mi sono nascosta. Poi ti ho visto entrare e quando sei avanzato fino al corpo sono fuggita”. Pietro ascoltava in silenzio quella voce così suadente che sembrava accarezzare le parole. "Come avrei spiegato ciò!? Chi mi avrebbe creduta!? Che tu lo creda o no questa è la verità, non sono stata io a uccidere padre Leopoldo”. All’uomo sembrò di annegare nel verde iridescente di quegli occhi, poi si riscosse ed esclamò: “Ti credo, ma chi in nome di Dio, chi poteva volere la morte di Carrisi e perchè? Hai notato qualcosa di sospetto?”. “ No, nulla, ma questa morte riporta inevitabilmente alla memoria fatti accaduti molti anni fa. Nello stesso luogo fu ucciso un altro religioso”. ”Madre santissima!” - esclamò il Cavaliere facendosi il segno della croce e fingendo di non sapere nulla chiese alla donna di raccontare cos’era accaduto. Sotto le sue domande insistenti poi la donna prese a raccontare:
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CAPITOLO IX. Colle di Quartareccia
 
“Leopoldo mi raccontò che chi uccise il suo confratello era alla ricerca di qualcosa, mi disse che sopra il colle di Castelvecchio a  Quartareccia racchiuso tra cinque castagni si trova un piccolo spazio circolare. All’interno nascosto dentro un antico sepolcro Ligure Apuano c’è una parte di verità, ma mi fece giurare di non cercarla mai, perché avrebbe rivelato una verità sconcertante”. A quel punto Pietro disse il vero motivo della sua presenza a Filattiera. “Credete, non abbia capito che voi siete l’uomo che Leopoldo stava aspettando?” - rispose la donna. Poi gli elargì un sorriso, e aggiunse: “non siete voi che mi avete trovato, ma io che ho voluto farmi trovare per scoprire la verità” - e abbassò la spada. Il Cavaliere stupito trattene il respiro, ci fu un breve silenzio, nella sua faccia ora c’era un' espressione incredula, poi in tono flemmatico aggiunse: “ scopriremo assieme  cosa si cela dietro tutto questo. Non c’è tempo da perdere. Se non siete stata voi a uccidere Leopoldo qualcun’altro sa, e allora siamo in pericolo. Recuperiamo il mio cavallo e andiamo al colle di cui mi avete parlato”.  “Non posso, ho giurato, non posso violare un giuramento, sarebbe un peccato mortale” - rispose Aine. “Non credete che se Leopoldo non avesse voluto  veramente farvi conoscere la verità non ve ne avrebbe mai parlato? Quindi in nome della Santa Chiesa vi assolvo da questo peccato” - cosi dicendo con la mano destra segnò una croce a mezz'aria e poi aggiunse:" andiamo prima di diventare pasto per i lupi". Così si misero d'accordo per incontrarsi all'ora dei Vespri nel luogo che Aine aveva descritto. Farsi vedere assieme avrebbe attirato l'attenzione e dopo aver raccomandato ad Aine di rimanere nascosta al sicuro il Cavaliere di Cristo si allontanò e si recò allo spaccio del paese dove acquistò una pala. Poi per non destar sospetti scese fino al paese di Rubra (l'attuale Terrarossa) e comprò settanta piedi di corda di canapa e un piccone. Nell'attesa cenò all'osteria del castro poi quando vide che il disco del sole era ormai sceso dietro la valle del Magra salì sul colle ad aspettare Aine che non si fece attendere. La giovane donna apparve quasi subito in tutto il suo splendore in sella al suo stallone nero. Grazie alle indicazioni che Aine aveva ricevuto da Leopoldo individuarono facilmente il luogo in cui scavare, ma per un po' non ottennero risultato alcuno. Protetti dall'ombra del bosco sondavano il terreno circostante scavando in vari punti, finchè poi a ridosso del castagno più grande  sotto un colpo del piccone ci fu un rumore stridulo come di pietra scheggiata: la punta dell’arnese aveva toccato qualcosa di solido. "Cosa ne pensate?" volle sapere Aine guardando il Cavaliere negli occhi. Pietro esitò pensieroso e poi disse: "Forse ci  siamo… passatemi la pala" e cominciò a scavare freneticamente fino a portare alla luce sei pezzi di arenaria rotti irregolarmente. La terra umida li ricopriva completamente e non lasciava vedere nulla se non che erano pezzi di pietra. I due erano perplessi, febbrilmente tentarono di ripulirli staccando la terra, prima usando con cautela un piccolo bastoncino di castagno,  poi con le mani nude finchè non scoprirono che  si trattava di frammenti siina tavola con un’incisione, probabilmente di una scritta. Cercarono di ricomporre quella che pensavano fosse una lapide ma i pezzi non combaciavano e  nessuna sillaba sembrava essere il proseguo dell'altra, frammenti di lettere apparentemente senza senso. Riuscirono ad individuare solo tre parole: praesenti,  preteritum, vivit (presente, passato, vive). La luce del giorno ormai andava scemando e non era più sufficiente per vedere bene, decisero quindi di portarli al riparo e di analizzarli scrupolosamente. Ricoprirono in tutta fretta la buca con terra e frasche. A questo punto rimaneva il problema di come trasportare quei pezzi di arenaria. Così dopo aver meditato Pietro misurò con la corda l'addome del cavallo, calcolando lo spessore della lapide e i nodi tagliò sei pezzi uguali di corda. Sotto gli occhi sgranati di Aine legò sotto la pancia dei due cavalli tre pezzi di pietra ciascuno. "Siete un gran maestro Cavaliere" - disse Aine. Ora stretta fra le nuvole plumbee e il chiarore della luna la notte calava lenta su di loro. Il viso di Aine aveva un che di misterioso, sensuale e la sua pelle aveva un candore latteo. Roma, il papa e la missione  erano lontani nei pensieri di Pietro che docilmente la seguì dalla parte opposta della collina dove Aine aveva il suo rifugio. Risalirono il valico fin sopra la sella poi discesero dall'altra parte del pendio fino a raggiungere la gola del torrente.
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CAPITOLO X. Al rifugio.
 
Coperto nella macchia si celava il vecchio mulino. Del manufatto in pietra rimanevano solo due mura ad angolo sulle quali appoggiavano un paio di grosse travi in castagno ancora conservate bene, sulle quali erano legate saldamente delle fitte frasche che sostituivano un tetto. Apparentemente non c'era nient'altro. Grossi rovi sormontavano in parte la costruzione delimitando la fine del camminamento. Aine scese da cavallo e dopo aver preso un guanto in pelle dalla sacca della sella infilò la mano in un punto ben preciso tra i rovi e il muro. Un istante dopo si aprì un varco tra la macchia. Nessuno avrebbe  mai immaginato ciò. La giovane donna aveva costruito un piccolo cancello con pali di noce dove ancorava con sottili rami di salice  sfalci di macchia che sostituiva via via che ingiallivano. "Aine, siete donna di grande ingegno" - esclamò il cavaliere. La luna piena illuminava con il suo bagliore il loro cammino. I due procedettero lentamente tirando i cavalli per la cavezza fino a che non si trovarono davanti ad una   parete rocciosa, scesero allora fin sul greto del torrente, scantonarono una grossa rupe e risalirono sulla sponda e dopo pochi passi si infilarono dentro un passaggio angusto tra le rocce che conduceva ad uno spazio semicircolare racchiuso dentro una grotta. Aine estrasse l’acciarino dalla scarsella e lo strofinò velocemente sulla pietra focaia. Allo scoccare delle scintille iniziò a soffiare sulla paglia secca che s’incendiò subito ed accese il lume ad olio, l’esile  fiamma pian piano iniziò a divorare il buio. In quel luogo si respirava un'aria ammuffita, viziata  dal ristagno stratificato degli anni. In un angolo c'era un grosso saccone di paglia e un tavolo rudimentale, nient'altro. "E' un ottimo nascondiglio Aine, qui sicuramente saremmo al sicuro" - esclamò il cavaliere. Sciolsero le funi che legavano l'addome degli animali e liberarono i pezzi in arenaria che avevano portato. Con l'acqua del fiume che Aine di tanto in tanto andava ad attingere con la borraccia fatta di stomaco di cinghiale lavarono accuratamente i pezzi della lapide e scoprirono così un'altra parola: Aeternum (eternità). Poi si sistemarono sul grande saccone ed Aine tirò  fuori dall'incavo del muro che usava come dispensa un pezzo di carne salata, la tagliò in due parti e ne diede una al templare. La notte sembrava non avere mai fine, i due masticavano in silenzio quel misero pasto ognuno chiuso nei propri pensieri. Ad un certo punto Aine ruppe il silenzio e disse:"Perche avete quella faccia cupa, cosa vi preoccupa? Vi assicuro nessuno conosce questo posto". "Stavo pensando al giuramento che vi fece fare padre Leopoldo, perché un giuramento? Cosa avrà voluto proteggere di tanto importante? E queste pietre? Chissà quale arcano segreto cela la frase che vi è riportata". "Un vero mistero. Sono molto stanca e non riesco a ricordare anche se quelle pietre mi sembrano in qualche modo familiari. Mah! Sarà la stanchezza. Anche voi cavaliere sarete di certo stanco, vi prego riposatevi, domani vedrete che troveremmo una risposta alle nostre domande". "Avete ragione, è stata una giornata lunga e pesante, domani avremo la mente più lucida e certo il buon Dio nella sua misericordia ci mostrerà la strada da seguire". Aine annuì e con fare aggraziato si distese sul sacco di paglia e in attimo si addormentò di un sonno profondo. Non fu lo stesso per il templare che nonostante il posto fosse quasi introvabile non si sentiva tranquillo e volle fare la guardia. Si posizionò con spalle alla grossa rupe bloccando così l'unico punto di accesso alla grotta. I suoi occhi scrutavano l'oscurità e le sue orecchie erano attente a carpire qualsiasi rumore ma la sua mente andava alla donna che giaceva addormentata li vicino. Che splendida creatura, di una bellezza angelica, quando prima di addormentarsi gli aveva sorriso i suoi denti bianchissimi e le sue labbra rosate lo avevano incantato. Gli era sembrata sincera quando gli aveva detto che non era stata lei ad uccidere il monaco, ma se avesse mentito? Perchè una così graziosa fanciulla aveva necessità di avere un nascondiglio così sicuro, cosa nascondeva? Il solo pensare a tutto questo lo faceva star male, le avrebbe chiesto al più presto spiegazione di tutto ciò e si sarebbe fidato di lei. Si! Si sarebbe fidato. Nella sua mente ritornavano prepotenti le parole di Leopoldo ad Aine “scoprirai una verità sconcertante” ma quale!? Per il momento non avevano scoperto che sei pezzi di pietra e qualche parola. Intanto il tempo passava e presto lui avrebbe dovuto riferire dell'esito della sua missione che non aveva peraltro ancora cominciato. Lui era lì per scoprire il segreto di Leodergar ma se vi fosse stata una connessione?  Doveva svegliare Aine e comunicarglielo, se avessero trovato la tomba di Leodergar sicuramente avrebbero trovato anche alcune delle loro risposte. Come da indicazioni ricevute a Roma sapeva che   Leodergar era seppellito nella Pieve, ma dove? Scrutando il cielo si accorse che ormai l'alba era vicina, presto il sole si sarebbe mostrato dietro la sella della montagna, i suoi raggi avrebbero illuminato la pianura e riscaldato le genti. Velocemente si apprestò a dire le sue preghiere e poi esitante si avvicinò alla fanciulla e in quel momento notò uno strano tatuaggio sull'avambraccio sinistro della fanciulla, sembrava la testa di un serpente, per qualche secondo restò impietrito ad osservarlo, non era un buon segno, nè un buon presagio, la sua anima di buon cristiano si ritraeva davanti a quel simbolo del male ma poi si decise e lievemente la scosse per svegliarla.
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CAPITOLO XI.  Un brusco risveglio.
 
Fu un risveglio brusco e per nulla piacevole, la donna si drizzò a sedere di scatto, era madida di sudore e aveva gli occhi sbarrati. "Ora ricordo! Ricordo tutto!!! Dobbiamo aprire la tomba di Leodergar! Ero piccola, mia madre mi prese per mano e mi portò in chiesa, doveva parlare con don Leopoldo, così mi lasciò sulla panca adiacente il confessionale raccomandandosi di star buona lì ferma che avrebbe fatto presto. Quella casina con la tendina bordeaux era irresistibile per me bambina. Mi piaceva stare li dentro e guardare ondeggiare dai forellini della grata le luci tremolanti delle candele all’aprire della porta. Poi come per magia, puff, qualcuna di colpo si spegneva. Quel giorno le candele erano spente, così il mio divertimento non c’era e allora dopo poco andai a cercare mia madre. La porta della sacrestia era socchiusa, e udii delle voci, era la mamma che stava discutendo con padre Leopoldo e con un' altro uomo, non so chi fosse, parlavano a voce sommessa ma udii distintamente questa frase: non preoccupatevi, una parte è stata rotta in diversi pezzi e nascosta ai cinque castagni e l’altra parte è nella sua tomba. Sentii la mamma dire: la mia bambina… nessuno deve sapere… pericolo… ma parlava troppo piano o non ricordo, non riuscii ad udire altro oltre che il sacerdote  che disse a mia madre di stare tranquilla, mi avrebbe protetto lui se ce ne fosse stato bisogno. Poi di colpo entrai e mia madre mi prese in braccio ed andammo a casa. Non ricordo altro.” "Sia lodato il Signore". - esclamò Pietro e si chinò premuroso su di lei rincuorandola, poi aggiunse: “questo sogno è un segno del destino, ora dobbiamo trovare quella tomba e scoprire la verità” “Ditemi, a che ora la porta della pieve viene chiusa?” “Dopo l’ultima messa serale don Ernesto suona la campana e poi chiude tutte le porte” - rispose Aine. “E a che ora la riapre?” “Poco prima della messa mattutina” - asserì la donna. Questa sera vi recherete  all’ultima messa, finiti i vespri mentre tutti  i fedeli saranno usciti voi dovrete rimanere nascosta dentro la pieve. Solo quando sarete certa che all’interno è rimasto solo don Leonardo con uno stratagemma dovrete legarlo, quindi vi porterete dietro questa corda   e con  un fazzoletto dovrete imbavagliargli la bocca. Fatto ciò uscirete e spegnerete il terzo lume sulla parte ovest  della Pieve. Quello è il segnale che la porta è aperta  e tutto procede secondo i piani,  a quel punto vi raggiungerò”. Con espressione di sfida Aine scosse la testa  con convinzione e asserì: “D' accordo, lo farò, dovremo agire velocemente, ho infranto il mio giuramento a Leopoldo e ora voglio scoprire questo segreto.” Dopo un breve silenzio  il Cavaliere le chiese: “ Avete idea di dove si trovi la tomba?" “Credo di si, secondo me è davanti all’altare, nel pavimento c’è un tappetino bordeaux dal quale fuoriesce  una piccola testa circolare incisa su una lastra di arenaria, credo che sia quella la tomba di Leodergar” - rispose la donna.“ "Ottimo Aine, ora è meglio dividerci, ci troveremo alla Pieve questa sera” e cercando di infonderle forza e sicurezza la strinse a sè. Lo sguardo di Aine si accese di una luce strana e sbattè un  paio di volte gli occhi con fare civettuolo: “A questa sera mio Cavaliere”.
Il segreto di Leodergar

Prima di montare in sella, per non attirare sospetti, Pietro si levò il mantello e poi lasciò il nascondiglio. Salendo per  la via Francigena raggiunse la taverna nel paese di Scorcetoli, dove con una moneta d’argento pagò per una camera ed un pasto. Nel frattempo in Vaticano Bonifacio VIII e il cardinale De Luca non avendo notizie del loro uomo ormai da parecchi giorni stavano pensando se fosse stato opportuno inviare qualcuno in quel di Sorano ma poi decisero di aspettare ancora. Per il Cavaliere quello fu il pomeriggio più lungo della sua vita, il pensiero che ad Aine potesse accadere qualcosa gli faceva sentire un peso enorme sullo stomaco, proprio come una pietra tombale su di un sepolcro. Se ne stava supino sul letto cercando di dormire un poco ma non vi riusciva. Contò tutti i rintocchi della campana della chiesa di San Bartolomeo, alla fine dopo il quinto rintocco pomeridiano non ce la fece più ad aspettare e decise di agire. Scese nel borgo e si recò nella bottega del fabbro e in cambio di una moneta d'argento si fece forgiare una spranga di ferro dalla punta appiattita, montò in sella e ritornò a Filattiera. Nel tragitto meditò di travestirsi da mendicante, voleva vedere Aine entrare. Giunto nei pressi del paese lasciò la via Francigena ed entrò nel sentiero nel bosco e  nei pressi della Pieve nascose il cavallo. Nella carbonaia li vicino trovò dei pezzi di carbone con i qusli si sporcò mani e faccia, poi con il coltello lacerò in alcuni punti la tunica e la sporcò di fango, si tirò su il cappuccio e facendo finta di trascinare la gamba con l’aiuto di un bastone, raggiunse la pieve. Testa bassa e mano destra tremolante avvolto in poveri cenci si mise a chiedere l’elemosina seduto a fianco della porta. Aine gli passò accanto senza accorgersi di lui ed entrò decisa in Chiesa. Ora che l'aveva vista il peso sullo stomaco sembrava essere svanito, rincuorato si  alzò e zoppicando vistosamente pian piano come era arrivato, sparì nel bosco. Nascosto dietro gli alberi teneva sotto controllo la parete ovest della pieve, vide uscire i fedeli e chiudersi la porta, ora era tutto nelle mani di Aine. Mentre i fedeli uscivano Aine con  fare furtivo si nascose come fece  da bambina dentro il confessionale, dai forellini controllava che tutti fossero usciti. Vide entrare donna Maria  per la consegna della cena al sacerdote che poi l'accompagnò all’uscita chiudendo la grande porta. Dopo una genuflessione  lo scorse attraversare le navate in direzione della canonica. Contò fino a settecento, sicura che il religioso in quel momento fosse seduto a cena e uscì dal nascondiglio, con cautela si avvicinò alla porta della canonica. Con un balzo lo assalì da dietro e con la corda lo legò saldamente alla seduta senza farlo girare  e come ordinato dal Cavaliere gli imbavagliò la bocca e gli mise un cappuccio in testa, in modo che non la potesse riconoscere. Poi corse ad aprire la porta, aggirò le mura della pieve, spense il terzo lume e rientrò in chiesa. Passarono pochi minuti, Pietro entrò e chiuse la porta a chiave. Tra i due ci fu un abbraccio, poi lei corse al punto dove riteneva ci fosse la tomba di Leodergar, scansò il tappetino e scoprì una lastra quadrata in arenaria di circa un cubito nella quale c’era incisa una piccola faccia. Il cavaliere passò la cima che si era portato dietro dentro l'anello di ferro che stava nel centro della lapide e, aiutato da Aine, scoperchiò il loculo. L’interno era buio e dall’alto era impossibile capire quanto fosse profondo quel angusto buco,  il tentativo di Aine di squarciare l'oscurità chinandosi sopra l’apertura con in mano una candela accesa non diede nessun risultato. Nel frattempo il cavaliere aveva legato saldamente la cima alla colonna più vicina, poi chiese ad Aine di mettere due candele dentro la sacca e una volta che lui si fosse calato all’interno di tenere in mano la corda, Non appena toccato terra avrebbe strattonato la cima, a quel segnale la donna doveva recuperare la corda e calare la sacca con dentro la paglia, la pietra focaia la torcia e la spranga. Dopo queste raccomandazioni  Aine lo vide sparire nell’oscurità. Man mano che scendeva  la flebile luce della candela di Aine si affievoliva, e le tenebre lo avvolgevano, la corda gli stava proccurando dei piccoli tagli alle mani e le braccia gli dolevano, non era più abituato ad arrampicarsi, era dagli anni della sua infanzia che non lo faceva più. Finalmente era riuscito ad arrivare sul fondo della cripta. Tutto intorno era buio ma avvertiva distintamente l'opprimente odore  di chiuso, di aria viziata ed ammuffita. Lo prese un leggero senso di vertigine ma subito si riscosse e strattonò la corda un paio di volte, prontamente Aine  la recuperò e poco dopo gli calò la sacca con l'occorrente per accendere il fuoco.. Con la pietra focaia accese la paglia poi lo stoppino della candela e subito dopo la torcia. La fiamma  illuminò un angusto locale rettangolare in pietra. Quattro scalini in arenaria morivano dentro una parete ormai murata, sicuramente un tempo era l’accesso principale al locale. Nell’ altra parete trovava posto un sarcofago in marmo bianco di Carrara, null’altro. Il cavaliere si avvicinò e la luce tremula della torcia illuminò l’epitaffio inciso su coperchio: Leodergar 684-752. A quella vista trasalì, il puzzle si stava completando, tra poco avrebbero scoperto quale segreto custodiva quel sepolcro. Facendo leva con la spranga riuscì a far scivolare di lato la lastra fino al punto di permettergli di guardare dentro. Aine nel frattempo di sopra  fremeva dalla voglia  di conoscere, di sapere…. L’interno conteneva un cumulo di ossa, pezzi di pietra arenaria, dei pezzi di sale grosso sicuramente per proteggere qualcosa dall'umidità e un piccolo fagotto rettangolare in pelle che dalla forma e dimensioni ricordava un diario o un libriccino. Era preparato alla visione di  qualcosa di macabro, ma nonostante ciò, trattene il respiro annichilito, per un' attimo rimase come stordito poi si precipitò alla corda, sapeva che avevano poco tempo, qualcuno poteva arrivare inaspettato. Così per prima cosa dopo averli legati uno ad uno fece riportare in superfice da Aine i sei pezzi di arenaria incisi. Per ultimo fece tirare su  la sacca contente il suo fagotto e poi risalì. Aine non stava più nella pelle dalla curiosità ma doveva aspettare ancora, dovevano  raccogliere i pezzi e fuggire al nascondiglio per ricomporre il mosaico. La notte, quasi con riluttanza lasciava spazio al nuovo giorno e i fedeli trovando don Orestino legato avrebbero dato l’allarme. Così usando lo stesso stratagemma recuperarono i cavalli e legarono i pezzi sotto l’addome delle bestie e fuggirono nell’oscurità. Nel giro di pochi minuti tutti i dodici pezzi di arenaria erano al loro posto, combaciavano perfettamente e l‘arcano segreto che da secoli era celato agli occhi del mondo ora era lì alla luce del sole. Una frase in latino che tradotta era: NEL PASSATO E NEL PRESENTE VIVO ETERNAMENTE.  Sotto l’ultima lettera, come fosse una firma o una spiegazione, vi era scolpita una testa di un serpente stilizzata. Gli occhi del templare corsero a cercare quelli di Aine che si stava guardando meravigliata il tatuaggio. In quell’istante un denso silenzio calò nel nascondiglio, i due sbiancarono in volto e socchiusero gli occhi  come se avessero letto una condanna a morte. Forse lo era. Senza proferir parola il cavaliere di Cristo sotto gli occhi velati di Aine estrasse dalla sacca il piccolo fagotto di pelle e con oculatezza srotolò i fogli di pergamena fino a scoprire un minuscolo diario dalle pagine sbiadite e consumate dal tempo. "Forse qui troveremo la risposta a tutte le nostre domande." Una speranza, l'ultima. Ma quando entrambi guardarono il manoscritto si accorsero che  il tempo aveva cancellato ogni traccia di inchiostro dai fogli, ormai erano visibili solo poche righe.
 
Leodergar, Soranum  nell’anno del Signore 750 in questa pieve ...
 
Marina di Carrara III - III - MMXIX - PierBin & MascalzonApuana
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